sabato 31 gennaio 2009

Gli effetti secondari dei sogni di Delphine de Vigan

Quando avevo più o meno dieci anni, un pomeriggio, camminando per piazza Risorgimento, a Roma, fui avvicinata da un barbone. Biascicava delle parole incomprensibili tra i denti, aveva i capelli impastati di sporco e gli occhi arrossati, una maglietta che un tempo doveva essere stata bianca strappata su una spalla e sulla pancia ed un paio di pantaloni informi di un colore impossibile a definirsi.

Stavo attraversando la strada, lui mi veniva incontro, borbottando astiosamente un discorso tra sé e sé o con qualche interlocutore nella sua testa. Ci superammo, poi per qualche motivo lui tornò indietro, alzò
la voce e, guardandomi con cattiveria, mi si avvicinò tenendo in mano un grosso zippo acceso, urlando insulti e oscenità. Sentii appena un leggero calore sul braccio. Poi, così come all'improvviso qualcosa lo aveva spinto a notarmi e ad avvicinarsi a me, qualcos'altro, altrettanto improvvisamente, lo indusse a distrarsi, a non guardarmi più, a dimenticarmi. Io, invece, non ho dimenticato.

Non avrebbe potuto farmi del male, ora lo so. Ma avevo dieci anni e rimasi molto scossa.
Non ricordo se fossi con qualcuno o no, che cosa feci dopo. Ma da quella volta mi è rimasta, irrazionale e quindi incontrollabile, una paura terribile di chi vive per la strada. E insieme alla paura, sempre, immancabilmente, una grande pena.

Che cosa spinge una persona ad abbandonare tutto e a vivere per la strada? A dormire per terra, a coprirsi di stracci, a raccattare mozziconi e panini mangiati a metà e buttati nei cestini dell'immondizia? A subire gli sguardi schifati o di commiserazione di chi le passa accanto o, peggio ancora, l'indifferenza dei 'sani', dei 'normali'? Quale tragedia familiare, dramma interiore, disavventura economica si nascondono dietro quelle vite di strada? Io non so se sia a causa di quell'episodio infantile che il contatto con questa umanità dolente mi sconvolge tanto. O se sia invece la mia capacità di identificazione a farmi stringere lo stomaco: un giorno potrei finire anche io così?

Ultimamente ho pensato molto a questo, stimolata dalla lettura di un bel romanzo di Delphine de Vigan, Gli effetti secondari dei sogni (pubblicato dalla Mondadori). In Francia è stato il caso editoriale del 2008, ha venduto tanto e vinto premi prestigiosi. Secondo me meritatamente. Racconta una storia commovente e dura, che avrebbe potuto prestare il fianco ad ogni sorta di banale buonismo, in modo asciutto e insieme compassionevole, con partecipazione e onestà. La voce della protagonista è credibile, sincera, e tutti i personaggi sono delineati con realismo e coerenza. Non c'è una sola battuta, un solo gesto, un solo sguardo che non rientri esattamente nel ritratto di ciascuno di loro. Nessuna stecca, nessuna stonatura. Un difficile esercizio di equilibrismo tra la comprensione e la pietà, l'obiettività e la pena.

Sul risvolto trovo una scarna e (involontariamente, spero) umoristica nota biografica: "Delphine de Vigan, parigina nata a Boulogne-Billancourt, ha lavorato come dimostratrice nei supermercati per diverse marche di formaggio e hamburger, segretaria in sedute di gruppo, stiratrice non professionale e hostess". Prima di decidere di dedicarsi solo alla scrittura, ho letto che ha diretto per qualche anno un istituto di sondaggi. Un percorso lavorativo sghembo e accidentato, parrebbe, così comune, ahimé, per la mia generazione.

Il romanzo è la storia di un'amicizia tra due adolescenti, Lou e No. Lou ha tredici anni, un quoziente intellettivo superiore alla media e difficoltà relazionali col mondo. I suoi genitori sono chiusi da anni nel dolore paralizzante causato dalla morte improvvisa di una seconda figlia, ancora neonata. La madre vive da allora in un mondo tutto suo, inaccessibile, incapace di accettare la perdita che ha subìto, ignara o indifferente all'idea di poter perdere così anche l'unica figlia che le è rimasta. Il padre la accudisce, fa la spesa, le pulizie, va a lavorare, cerca di non far naufragare tutto, ma è comprensibilmente depresso. Lou ha imparato a vivere in quest'atmosfera dolente e innaturale, con una madre assente ed un padre sfinito, abbandonata ai suoi pensieri e ai suoi primi tentativi di farsi un'idea del mondo.

No ha diciotto anni e vive in strada. Nel corso del romanzo si scoprirà che cosa l'ha portata a girovagare per la città, da un centro di accoglienza ad una stazione dei treni, sempre in movimento, sempre alla ricerca di un buco in cui dormire, un boccone da mangiare. Le due ragazze si incontrano per caso, si parlano: da mondi lontanissimi eppure simili si avvicinano, si studiano, imparano a conoscersi. Lou, per la prima volta, sente di essere finalmente entrata in contatto con un altro essere umano.

Da quando sono nata, mi sono sempre sentita al di fuori, dovunque fossi, fuori dall'immagine, dalla conversazione, sfasata, come se fossi la sola a sentire rumori e parole che gli altri non percepiscono, e sorda alle parole che invece sembrano sentire, come se fossi fuori dalla cornice, dall'altra parte di una vetrata immensa e invisibile.
Eppure, ieri ero là con lei, sono sicura che si sarebbe potuto tracciare un cerchio intorno a noi, un cerchio da cui non ero esclusa, un cerchio che ci comprendeva e, per qualche minuto, ci proteggeva dal mondo.
Lou la intervista per una ricerca sui senzatetto che deve fare per la scuola, impara che in strada esiste un mondo con le sue leggi ferree e i suoi molti pericoli: No è una ragazza sola, senza protezione, senza rete. In strada non ha amici. E' una preda. Sempre braccata, sempre in fuga, dai ricordi dolorosi, da un presente di pena, dal futuro incerto, dalla tentazione di sperare che un giorno le cose si aggiusteranno e anche lei potrà vivere la vita di tutti: con un fidanzato, un lavoro, un piccolo appartamento in affitto. No non può permettersi il lusso di sognare.

Ma l'incontro con Lou, che vive in un contesto apparentemente più protetto ma conosce la sua stessa solitudine e il suo stesso abbandono, le darà la forza di provare a costruirsi una possibilità, di scrollarsi di dosso anni di disperazione e abbrutimento. Per un po' sembra che il sogno di una vita normale, con qualche amico, un lavoro come cameriera in un albergo, una casa cui fare ritorno, uno stipendio pagato in nero, possa realizzarsi anche per No. Poi, di nuovo, il naufragio, le ferite del passato che tornano a chiedere il loro pesante tributo di solitudine, abbrutimento, paura, disperazione, il desiderio di annullarsi.

Il finale è aperto e ognuno può interpretarlo come crede. No e Lou partono insieme, ma dopo un solo giorno No sparisce, abbandona la sua amica ad una stazione. Lo fa perché incapace di sopportare il peso di un affetto, di un legame, lei che ha dovuto lottare dolorosamente contro ogni solitudine, e si perde nuovamente nel suo personale ed incomunicabile gorgo di abbrutimento?
Lo fa perché nel suo esitante tentativo di vivere una vita 'normale' non vuole correre il rischio di trascinare Lou nella condizione infernale da cui cerca di liberarsi?
E' così facile lasciarsi andare inerti a ciò che si conosce, anche se è una realtà orribile e disumanizzante. Molto più difficile trovare in sé la forza di costruirsi un percorso diverso, emanciparsi dalla disperazione, dal bisogno, aprirsi con fiducia agli altri, farsi aiutare da loro senza aggrapparglisi con disperazione.

Io sono un'inguaribile ottimista e voglio pensare che, tra ricadute e progressi, No riuscirà a costruirsi l'ipotesi di un futuro diverso: prima fragile e incerto, poi sempre più concreto e sicuro. Faticoso, certo. Doloroso, spesso. Come quello di tutti.

(Un grazie a mia sorella C. che mi ha regalato il libro per Natale!)


Delphine de Vigan, Gli effetti secondari dei sogni, Mondadori 2008, traduzione di Marco Bellini.

4 commenti:

  1. leggendo non ho potuto non associare alle immagini di due films estremamente calzanti per questo tema, anzi no tre! (me ne sovvenendo con urgenza un terzo film molto bello intensamente coinvolgente sulla condizione del barbonaggio che è Gli amanti di pont neuf di leos carax con la binoche, mitici ambedue film e regista)
    gli altri sono:
    Rosetta del fratelli Dardenne
    e
    senza tetto ne legge di agnes varda con sandrine bonnaire

    tutt'e tre questi film molto amati per la miriade di agganci ad una lettura in chiave psicoanalitica che è quella che più m'interessa

    RispondiElimina
  2. grazie per i riferimenti. di questi tre film ho visto solo il primo, tanti anni fa, e non conosco gli altri due. un buon motivo per cercarli!

    RispondiElimina
  3. l'ho letto da poco e il sentimento che mi ha suscitato più volte, quasi come filo conduttore, è stato la commozione. anche io preferisco pensare che No abbia voluto risparmiare a Lou, che aveva impatrato ad amare, una vita incerta, nomade. ma sono sicura che ora si trova lassù al Nord e abbia trovato la felicità...inguaribile romantica ;)

    PS: ho trovato molto intenso anche il suo "Le ore sotterranee". certo che titoli, eh! ;)

    RispondiElimina
  4. @ Manusa: siamo in due ad essere romantiche, evidentemente. Il secondo libro non l'ho letto, terrò presente il tuo suggerimento, grazie.

    RispondiElimina