lunedì 29 ottobre 2012

Dei molti motivi di fascino dell'autunno e di una torta alle pere e nocciole

Ecco, è arrivato l'autunno. E anche se è giunto, com'è normale che sia, in compagnia della pioggia e di cieli bigi e pesanti, io l'ho accolto - come ogni anno - con calore.

Sarà perché sono nata proprio in coda a questa stagione, e dunque sono probabilmente avvezza da sempre alle sue atmosfere, sono anche forse più incline di altri a godere dei suoi molti doni, anche quelli considerati meno charmants: non mi irritano né il suo grigiore né l'umidità; non mi immalinconiscono il sempre più anticipato spegnersi del sole nel cielo e la pioggia spesso incessante, né mi inquieta la graduale avanzata delle tenebre e del gelo. 

Trovo deliziosi e personalissimi motivi di soddisfazione nel tornare ad indossare le scarpe chiuse che hanno atteso per mesi nel buio della scarpiera; nel tirar fuori dall'armadio la trapunta leggera che avvolgerà il mio sonno fino a quando bisognerà sostituirla con il piumino; nel cercare di riscaldarmi le mani quasi sempre ghiacce tenendo tra le dita una tazza di tè fumante; nell'infilarmi - la mattina, appena sveglia, ancora tiepida e stropicciata di sonno - nel mio lungo cardigan da casa beige, un po' sformato sui polsini e sul cannolet.

L'autunno per me significa anche e soprattutto ritrovare il piacere perfetto di un certo tipo di cucina: nutriente, corroborante, quella che produce ciò che gli inglesi etichettano - con il loro speciale talento per la creazione di espressioni sintetiche e chiarissime che racchiudano e diano perfetta voce a concetti anche molto vaghi o complessi - come comfort food

Quando ho sfogliato per la prima volta il nuovo libro di Rachel Allen, Cake, ho subito capito che questa pear crumble cake sarebbe stata perfetta per dare il mio personale benvenuto all'autunno: ci sono le pere, ci sono le nocciole, è ricca quel tanto che basta ma ha anche una sua sobrietà, un aspetto casalingo, nient'affatto lezioso, che è molto di mio gusto.

Son quasi sicura che nelle intenzioni dell'autrice i tre strati che compongono questa torta (partendo dal basso: la sponge, poi le pere caramellate alla cannella, infine il crumble di nocciole) sarebbero dovuti rimanere ben distinti, mentre a me l'ultimo, quello del crumble, è quasi del tutto collassato all'interno. Poco male: al di là delle chiacchiere e del suo aspetto, questa torta è davvero buonissima, fidatevi.

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Pear crumble cake (con modifiche)

per una tortiera a fondo mobile di circa 24-25 cm di diametro

per la sponge:

150 gr di burro
150 gr di zucchero (io ho usato il Demerara del commercio equo)
3 uova
175 gr di farina 0
2 cucchiaini di lievito per torte

per le pere:

400 gr di pere, sbucciate, pulite e tagliate a pezzetti
1 cucchiaino di cannella in polvere
50 gr di burro
50 gr di zucchero

per il crumble

75 gr di burro
150 gr di farina 0
100 gr di zucchero (io ho usato il Demerara e un paio di cucchiai del Dulcita, del commercio equo)
100 gr di nocciole, tostate, spellate e tagliate grossolonamente

Preriscaldate il forno a 170°; imburrate e infarinate la tortiera.

Per prima cosa, occupatevi delle pere: mettetele in un padellino con la cannella, il burro e lo zucchero e cuocetele, a fuoco medio, senza coperchio, per circa 5'-10' o per tutto il tempo necessario a far evaporare gran parte del liquido. Indi spegnete e tenetele da parte.

Passate poi al crumble: fondete il burro in un pentolino, poi aggiungete la farina, lo zucchero e le nocciole. Mescolate e mettete da parte.

Per la sponge: con le fruste elettriche lavorate il burro fino a ridurlo a crema, poi unite lo zucchero e proseguite fino ad avere un composto soffice e chiaro.
Rompete le uova in una ciotola, mescolatele con una forchetta appena appena e poi aggiungetele gradualmente al burro e allo zucchero. Solo quando vi sembreranno amalgamate aggiungete la farina setacciata e il lievito, mescolate bene perché il composto sia liscio e senza grumi, poi versatelo nella tortiera.

Adagiatevi sopra le pere, cercando di ricoprire il più possibile l'impasto sottostante.
Concludete con il crumble, poi infornate. 
Per i tempi: sul libro sono segnati 45'; nel mio forno ci è voluta praticamente un'ora. Come al solito, regolatevi: date un'occhiate a partire dai 40': la superficie dovrà essere ben dorata.

Quando la tirate fuori dal forno, lasciate la torta su una gratella per circa 10'; quindi, dopo aver passato un coltello o una paletta molto fina tutto intorno, liberatela dalla tortiera.

Rachel Allen consiglia di servirla con panna montata appena addolcita da zucchero a velo e insaporita da brandy o liquore di pere. 
Per una volta, però, e stento a credere a quel che dico, vi invito a scegliere la sobrietà: questa torta va benissimo esattamente così com'è.

Enjoy!


mercoledì 10 ottobre 2012

Donne che sostengono altre donne: Mostra mercato di artigianato femminile - Firenze, 11/12 ottobre 2012

A dispetto di un'apparenza cordiale e rilassata - almeno così mi dicono - sono di una timidezza feroce.
Sono timida, insicura, tendenzialmente tremebonda.
Mi salva la curiosità nei confronti dei miei simili che mi spinge quasi sempre a far capolino, ad avvicinarmi e ad accogliere con cauta benevolenza chi mi si avvicina.

Fino ad ora non ho mai trovato il coraggio di esporre le mie "creature" in un mercatino: l'idea di trovarmi con le mie cose sotto lo sguardo di chiunque passi di lì mi sgomenta abbastanza. 

Un conto è proporre quel che si fa via internet (nella fattispecie nel mio negozio su etsy): ci sono, sì, le statistiche, che possono dare un'idea del livello di interesse che suscita il proprio lavoro, ma le statistiche si possono non leggere, oppure leggere e subito dopo dimenticare.

Uno sguardo perplesso gettato su una propria creazione o, peggio ancora, nessuno sguardo, è invece un dato difficile con cui fare i conti.
Ecco perché non ho mai pensato di poter affrontare un evento come un mercatino, una mostra, un'esposizione.

Stavolta, però, lo faccio: giovedì 11 e venerdì 12 ottobre parteciperò ad una mostra mercato organizzata dalla Ailo, la American International League of Florence.

Lo faccio perché parte del ricavato della vendita dei miei manufatti andrà a sostegno di Artemisia, un'associazione di Firenze che dal 1991 si prende cura di donne e bambini vittime di abusi domestici.

Lo faccio perché non sarò sola, ma con altre donne, artigiane come me, e perché non si tratterà soltanto di vendere, ma di partecipare e contribuire. 

Lo faccio perché mi piace l'idea di fare qualcosa per altre donne, meno fortunate di me, e di farlo attraverso i canali che, pur nei dubbi e nelle insicurezze, mi sono più naturali e più cari, mettendo in gioco qualcosa di me che a dispetto della paura sento essere prezioso, bello, e vitale.

Sarebbe bello incontrare qualcuno di voi!

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Qui, altre informazioni sull'evento e qui la pagina creata su facebook (in inglese)


venerdì 21 settembre 2012

Calendario: Ivano Fossati, Genova, 21 settembre 1951

C'è tempo

Dicono che c'è un tempo per seminare
e uno che hai voglia ad aspettare
un tempo sognato che viene di notte
e un altro di giorno teso
come un lino a sventolare.

C'è un tempo negato e uno segreto

un tempo distante che è roba degli altri
un momento che era meglio partire
e quella volta che noi due era meglio parlarci.

C'è un tempo perfetto per fare silenzio

guardare il passaggio del sole d'estate
e saper raccontare ai nostri bambini quando
è l'ora muta delle fate.

C'è un giorno che ci siamo perduti

come smarrire un anello in un prato
e c'era tutto un programma futuro
che non abbiamo avverato.

È tempo che sfugge, niente paura

che prima o poi ci riprende
perché c'è tempo, c'è tempo c'è tempo, c'è tempo
per questo mare infinito di gente.

Dio, è proprio tanto che piove

e da un anno non torno
da mezz'ora sono qui arruffato
dentro una sala d'aspetto
di un tram che non viene
non essere gelosa di me
della mia vita
non essere gelosa di me
non essere mai gelosa di me.

C'è un tempo d'aspetto come dicevo

qualcosa di buono che verrà
un attimo fotografato, dipinto, segnato
e quello dopo perduto via
senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata
la sua fotografia.

C'è un tempo bellissimo tutto sudato

una stagione ribelle
l'istante in cui scocca l'unica freccia
che arriva alla volta celeste
e trafigge le stelle
è un giorno che tutta la gente
si tende la mano
è il medesimo istante per tutti
che sarà benedetto, io credo
da molto lontano
è il tempo che è finalmente
o quando ci si capisce
un tempo in cui mi vedrai
accanto a te nuovamente
mano alla mano
che buffi saremo
se non ci avranno nemmeno
avvisato.

Dicono che c'è un tempo per seminare

e uno più lungo per aspettare
io dico che c'era un tempo sognato
che bisognava sognare.


(da Lampo viaggiatore, 2003)




giovedì 20 settembre 2012

Nigellissima di Nigella Lawson

A parte il titolo, infelice ma perfettamente in linea con il personaggio, e la copertina - con una Nigella ormai quasi del tutto immobilizzata dal botox, che sfoggia una messa in piega rigida alla Nicoletta Orsomando e, non si sa perché, è vestita un po' come la signorina Rottenmeier - quest'ultima fatica di Nigella Lawson sembra, a prima lettura, un ottimo libro di cucina, di quelli che da qualche anno non sembrava più esser capace di scrivere (direi da Feast).

Sono una fan della prima ora di Nigellona, verso la quale nutro un vero e proprio debito di riconoscenza: la lettura dei suoi primi libri mi ha aiutato a digerire un momento della mia vita particolarmente difficile e cupo e mi ha contagiato con il gioioso virus della cucina; la riproduzione delle sue ricette mi ha piano piano persuasa di non essere un'inetta completa ai fornelli, come avevo sempre creduto di essere, e ha deliziato i miei amici in decine e decine di occasioni conviviali. 

Altro non si può chiedere ad un'autrice di libri di cucina, anche se si tratta di un personaggio spesso imbarazzante, grottesco e sopra le righe (a volte perfettamente consapevole di esserlo e incline a giocarci su con ironia, cosa che un po' la redime).

Tra l'altro, l'ho scritto più volte sul blog, i libri di Nigellona sono una lettura piacevole quant'altre mai: la sua prosa riflette la sua sostanziale ambiguità, il suo perenne essere in bilico tra una sobrietà di fondo (le sue ricette sono in genere molto molto semplici, spiegate con dovizia di particolari e rigore e praticamente infallibili) e una perenne, divertita tentazione di abbandonarsi all'eccesso, al pomposo, all'estremo, al kitsch.

Sarà bene specificare che Nigellissima non è un libro di cucina italiana, ma una raccolta di ricette per lo più ispirate al gusto italiano - o all'idea che ne ha Nigella, che comunque l'Italia la conosce bene e la frequenta con assiduità - o italiane di partenza ma parzialmente rivisitate, semplificate o adattate.

Molte quelle che a prima lettura mi hanno incuriosito: per esempio le fettuccine ai funghi con mascarpone e marsala, gli spaghettini con briciole di pane all'aglio e limone, le melanzane con origano e cipolle rosse (a quanto ho capito una ricetta di origini campane), un mirabolante cheesecake alle nocciole e Nutella, una versione di ardita concezione delle patate fritte e soprattutto un budino fatto con le liquirizie Amarelli Rossano, che non vedo l'ora di provare.

Certo, ci trovate anche l'inquietante meatzza, una specie di pizza Margherita in cui la base di pasta è sostituita dall'impasto di un polpettone schiacciato come una frittella dentro una teglia da forno (ho i brividi solo a pensarci) o una sua interpretazione della Caprese, da offrire, secondo lei, al pranzo di Natale (mah...).

Ma ripeto, sono le cadute di stile (in questo libro, per altro, assai limitate) senza le quali Nigella non sarebbe Nigella e che personalmente le perdono più che volentieri.



Nigella Lawson, Nigellissima, Chatto & Windus 2012.


domenica 9 settembre 2012

Calendario: Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908

Che cosa vuol dire che tra uomo e donna ci può essere qualcosa di più importante dell'amore? Vuol dire che è possibile vedere un'altra persona come si vede se stesso: consentirgli tutti i gesti e i movimenti che si consentono a se stesso, godere che li faccia come si gode a farli noi, non sentirsi privati di cosa che faccia con altri come noi non ci sentiamo privati di cosa che facciamo con altri - vuol dire amare questo nostro prossimo come noi stesso. Quest'amore si chiama carità.

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Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra - che già viviamo - e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.

da Il mestiere di vivere, Einaudi 1973 (annotazioni del 26 novembre 1945 e del 3 dicembre 1938).

Sunday Music: Nel mio mondo ideal da Alice nel paese delle meraviglie

Non ho mai fatto follie per i film di Walt Disney; chiaramente da bambina mi piacevano, anche se gli preferivo senz'altro quelle belle commedie hollywoodiane che tanto piacevano ai miei genitori, quelle con Cary Grant o Katherine Hepburn o James Stewart, per intenderci, e che ancora adesso, quando mi capita di trovarle in televisione (ahimé assai di rado), non posso fare a meno di guardare.

Dei film di Walt Disney mi sono sempre spiaciute, fin da bambina, certe zuccherosità tipicamente americane che già allora mi mettevano a disagio; da adulta, ho sempre trovato indigesto quel buonismo infilato a forza anche in racconti per l'infanzia che di buonista non hanno assolutamente nulla.

Però, però, però... ci sono comunque tantissime scene che ricordo ancora adesso quanto mi incantassero e deliziassero da piccola.
Per esempio, ne La bella addormentata, quella in cui le tre buone fate, Flora, Fauna e Serenella, discutono in gran segreto di come aiutare il re e la regina, e per farlo si miniaturizzano e si nascondono dentro dei mirabolanti calici e cofanetti d'oro tempestati di pietre preziose; oppure, in Cenerentola, quella in cui i topini confezionano (cantando "Ho trovato ho trovato il vestito un po' antiquato...") l'abito per il ballo che poi le odiose sorellastre faranno a pezzi; e ancora, la scena del duello di magia tra Merlino e Maga Magò ne La spada nella roccia; i primi minuti di Peter Pan, con quella magica e fatata visione di Londra notturna; quando, ne Il libro della giungla, l'orso Balù spiega la sua filosofia di vita a Mowgli cantando "Ti bastan poche briciole, lo stretto indispensabile, e i tuoi malanni puoi dimenticar..." e potrei andare avanti per ore.

L'eccezione assoluta nel panorama dei film di Walt Disney, per me, è sempre stata Alice nel paese delle meraviglie, per il quale ho sempre avuto una grandissima passione.

Posso dire di conoscerne interi spezzoni a memoria; uno dei riti affettuosi e familiari - uno dei tanti - che mi uniscono a mia sorella Sabina è proprio recitarne alcuni in coppia (siamo francamente irresistibili quando cantiamo la canzone del nonnetto di Pinco Panco e Panco Pinco, per esempio). 

Mio padre aveva comprato ai miei due fratelli maggiori un'intera collezione di dischi sui quali erano registrati fedelmente i film di Walt Disney; quello di Alice era in assoluto il più amato e dunque il più rovinato: a parte l'effetto "friggitoria" (fruscii e sfrigolii vari di fondo a disturbare l'audio), interi pezzi saltavano allegramente; ma tutti quelli che si sentivano bene li so ancora a memoria.

In uno di questi c'è questa canzone, che da bambina amavo particolarmente, perché esprime davvero, anche se con espressioni buffe e antiquate, uno dei miei più grandi sogni di sempre, quello cioè di possedere un linguaggio comune con cui comunicare con la natura, per poter capire il cinguettìo degli uccelli e il mormorìo di un ruscello, per poter chiacchierare con un fiore o un coniglio. 

Insomma, il sogno di non sentirsi mai soli.

Buona domenica a tutti!






venerdì 24 agosto 2012

Calendario: Jorge Luis Borges, Buenos Aires, 24 agosto 1899

I giusti

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

da La cifra, collana Lo Specchio Mondadori 1982, traduzione di Domenico Porzio.

giovedì 23 agosto 2012

Calendario : Edgar Lee Masters, Garnett (Kansas), 23 agosto 1869

mercoledì 22 agosto 2012

Calendario: Ray Bradbury, Waukegan (Illinois), 22 agosto 1920

Doveva esserci un miliardo di foglie sulla terra; egli vi passava a guado, dentro quella fiumana arida che odorava di chiodi di garofano e polvere calda. E gli altri odori! Ce n'era uno come di patata tagliata, che saliva da tutta la terra, aspro, freddo, bianco per avere su di sé la luna quasi tutta la notte. C'era anche un odore come di sottaceti svaporante da una bottiglietta aperta e un odore di prezzemolo sul tavolo di cucina, a casa. C'era un lieve odore giallastro come quello della senape in vasetto. C'era un odore come di garofani nel giardino della casa accanto. Montag abbassò una mano e sentì un'erbaccia protendersi come un bimbo a sfiorarlo. Sulle sue dita rimase un odore di liquerizia.
Si fermò ad aspirare gli odori della terra, e più respirava più assorbiva tutte le singolarità della terra. Montag non era vuoto. Ve n'era più che a sufficienza per colmarlo. Ce ne sarebbero sempre stati più che a sufficienza.

da Fahrenheit 451, Oscar Mondadori, 1978, traduzione di Giorgio Monicelli.


venerdì 3 agosto 2012

Dei gusti alimentari dei bambini, della maturità, di donne barbute del circo e di un insolito sorbetto

Ho trascorso qualche giorno con la sorella della Spia e sua figlia di 7 anni in un campeggio, vicino al mare.

Sono stati giorni per lo più sereni, animati dal contatto con la natura  (anche se aver paura di quasi qualunque forma di vita animale che possieda più di 4 zampe non è un punto di partenza dei più felici se si dorme in una tenda, accampati in una pineta; infatti non ho praticamente dormito), da incontri umani singolari, anche se effimeri, da riflessioni solitarie e no su molte questioni: l'infanzia, l'educazione, la maternità, la seduzione, l'autonomia, la famiglia, il potere aggregante e trasformatore della musica. Queste le prime che mi vengono in mente.

Ma più di tutte, la questione del cibo ha conquistato la mia attenzione.
Sarà perché in questo campeggio moltissimi erano i bambini, ho avuto la conferma di quanto si tratti, per molte famiglie, della Questione per eccellenza.
Per chi, come me, vi assista dall'esterno, i complicatissimi negoziati che madre e figlio trattano ad ogni pasto di fronte a un piatto sono un fenomeno affascinante e complesso.

Ho notato che i bambini sono terribilmente limitati e simili tra loro, in fatto di gusti alimentari: la pasta al burro pare vada per la maggiore, sempre e comunque, così come le patate, praticamente in tutte le preparazioni. La carne non riscuote unanime successo, nemmeno il pollo arrosto che, chissà perché, mi aspettavo avesse quotazioni altissime presso giovanissimi palati. Ben piazzate, però, le polpette.
I dolci, ovviamente, figurano ai primi posti della classifica: il cioccolato, in primis, e i gelati, ovviamente. 
Le torte di frutta si mangiano, ma solo martoriandole con efferate trivellazioni al fine di rimuoverne ogni minima particella di frutta, e trasformando il tavolo da pranzo in un mezzo delirio.

E che dire della generale diffidenza infantile nei confronti di tutto quel che è nuovo? 
Sono rarissimi i pargoli che messi di fronte a una forchettata di una pietanza mai assaggiata prima accettano - seppur titubanti - di fare un tentativo. Impossibile spiegar loro che si privano di un'esperienza che potrebbe anche essere gradevole.

Per contrasto, mi pare sempre più evidente che l'età adulta annoveri, tra i suoi molti doni, la capacità di accettare ed accogliere la complessità, intesa come pluralità: con gli anni aumenta il numero degli strumenti di lettura e comprensione del reale, si amplia il ventaglio e la varietà delle esperienze che si vanno accumulando, delle storie dalle quali ci si lascia avvicinare, toccare, attraversare e cambiare - o così dovrebbe essere, io credo.

Il che si traduce, anche dal punto di vista alimentare, in una maggiore disponibilità a tentare, a rischiare, a dare credito. La curiosità vince la paura e soprattutto la certezza, dettata dall'immaturità, di sapere già tutto di tutto, di aver abbracciato e compreso tutto il mondo dal proprio ridottissimo e individualissimo punto di osservazione.
Tutta questa pappardella perché la ricetta di oggi è decisamente insolita: si tratta del sorbetto di sedano e limone di Lisa Casali, tratto dal suo Ecocucina (Gribaudo, 2012).

Non sono una grandissima amante del sedano, ma uno dei produttori dal quale ci riforniamo di verdure con il nostro gas ne produce quantità ingestibili (lo ama molto, ci ha confessato durante una visita alla sua azienda agricola - non che non l'avessimo capito) e dunque ogni volta devo trovare il modo di smaltirlo: talvolta lo unisco all'insalata; per lo più lo congelo per fare il brodo - posso fare brodo per interi reggimenti da qui al 2020.

Quando ho letto questa ricetta, che tra l'altro usa ciò che spesso del sedano si scarta (le foglie e le parti apicali), l'ho voluta provare, animata dalla curiosità e anche da quella strana miscela di incredulità, repulsione e fascinazione che si può provare di fronte - che so - la donna barbuta del circo.

Fino a pochi anni fa non mi sarebbe mai venuto in mente di sprecare tempo ed energia per preparare una pietanza tanto insolita e, sulla carta, tanto poco appetibile per me - e mi riallaccio al discorso di cui sopra (che, sia ben chiaro, vale soprattutto per la sottoscritta, come quasi tutti i discorsi che faccio in questo blog).

E avrei fatto male.
Perché questo strano sorbetto è molto gradevole, rinfrescante e - almeno per me - digestivo.
Mi piace mangiarne qualche cucchiaino dopo pranzo: essendo di gusto deciso (ma questo dipende moltissimo dal sedano) a little goes a long way, come dicono gli inglesi, cioè ne basta poco per avere la propria soddisfazione: per me un bonus.

Due parole sul libro: è scritto in maniera scorrevole, è gradevole dal punto di vista grafico ed estetico, con dietro un progetto preciso e un'idea di cucina e di vita improntata ad un sano (e necessario) ridimensionamento e contenimento dei consumi e degli sprechi.
Lisa Casali sembra sapere quel che fa: ha un piglio sicuro, semplice, garbato, senza leziosità e bamboleggiamenti. Spiega con precisione l'idea di fondo del suo libro - che non potrebbe vedermi maggiormente d'accordo - citando fonti attendibili, sostenendo le sue posizioni con dati che han tutta l'aria di essere autorevoli e affidabili.

Per me, promossa a pieni voti!

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Sorbetto di sedano e limone (ho modificato leggermente la procedura)

3 dl di acqua
180 gr di zucchero di canna
100 gr di foglie e parti apicali del sedano (quelle che normalmente si scartano)
1 limone
1 albume

Mettete l'acqua e lo zucchero in un pentolino, portate a bollore e fate sobbollire per 5'.
Lasciate raffreddare.

Lavate e tritate il sedano: mettetelo dentro il bicchiere del frullatore insieme alla scorza grattugiata del limone.
Unite lo sciroppo di zucchero e azionate per 25"-30": per i miei gusti, meno si sentirà la granulosità delle foglie tritate e meglio sarà.

Aggiungete l'albume e azionate nuovamente il frullatore per altri 30".
Trasferite in un tupperware e mettete in freezer.

In teoria ogni 2-3 ore dovreste tirarlo fuori e dargli un'altra energica mescolata (con una frusta, elettrica o no). Io preferisco lasciarlo dentro il freezer tutta la notte e l'indomani mattina ripassarlo brevemente nel frullatore.

Quando volete consumarlo non c'è bisogno di tirarlo fuori con largo anticipo: 10-15 minuti sono sufficienti.

Enjoy!

martedì 10 luglio 2012

Di sensi di colpa, di beduini e di un piatto di spaghetti alle vongole felici

Sono stata vegetariana per anni, al tempo in cui - difficile a credersi - praticavo lo yoga 5 giorni a settimana (ero davvero io quella fanciulla vestita di bianco che sosteneva posizioni impossibili per intere mezzore e meditava intonando mantra? Pare di sì).

Quando io e la Spia ci siamo trasferiti a Cipro, però, il mio vegetarianesimo cominciò a vacillare, per motivi eminentemente pratici: benché la cucina cipriota - che è poi praticamente quella greca, a parte pochi piatti davvero locali, ma non ditelo a un cipriota - sia ricca di ricette a base di verdure (molte delle quali, però, a quel tempo non mi attraevano granché), il pezzo forte di ogni cena o pranzo è sicuramente a base di carne: agnello, pollo, maiale.

Essere invitata a casa di qualcuno e dover ogni volta spiegare che "No, grazie mille, sono vegetariana, cioè non mangio carne. Sì, certo, anche il pollo è carne. Non mangio animali, diciamo così. No, non mangio neanche il tonno; i pesci sono animali, sa" era diventato per me motivo di discreto stress. 
E per quanto tempo si può mangiare ad ogni occasione mondana un'insalata greca (che a Cipro si chiama "del villaggio") guardando tutti gli altri divorare gustosissimi spiedini o salsicce?

Dunque, non senza nutrire i miei bravi e immancabili sensi di colpa, ormai da 11 anni ho ricominciato a mangiare carne. 

Ne mangio, poca, pochissima, e tutte le volte che posso o l'acquisto con il gas o privilegio quella proveniente da allevamenti toscani dove gli animali sono cresciuti in maniera non abominevole e criminale, vengono nutriti in maniera sana e vivono il tempo loro concesso dalla bramosia umana in un modo il più possibile naturale.

Anche così, comunque, ogni volta non posso fare a meno di sentirmi a disagio, convinta come sono che senza carne si può vivere, e benissimo, anzi, direi meglio; la mia è davvero una questione di gusto e di gola e per questo, ai miei occhi, quasi imperdonabile. 
E così come non sono mai stata una fanatica crociata del vegetarianesimo (mai indottrinato nessuno né fatto reprimende a chi si sbafava con soddisfazione la sua fiorentina), ora sono una consumatrice occasionale di carne non troppo convinta.

L'unica mia vera debolezza, quella di fronte alla quale anche i miei princìpi più radicati scricchiolano pericolosamente è il salame (me lo sognavo la notte, oscuro oggetto dei miei desideri repressi): per una fetta di salame potrei tradire tutti i miei amici o vendere la Spia ai beduini - ammesso che lo volessero.

A parte il salame, però, sono sempre ben contenta di trovare alternative alla carne. Mi sto avvicinando con curiosità al tofu e al seitan, per esempio. E ogni volta che mi imbatto in una ricetta che interpreta in chiave vegetariana un piatto che prevede invece l'utilizzo di carne o pesce o molluschi ("Sì, anche i molluschi sono animali, già"), se mi convince, la provo.

Ecco dunque l'ultimo esperimento, per me di grande soddisfazione.
Una pasta alle "vongole felici" - felici perché non di vongole si tratta, ma di pistacchi- trovata sull'ultimo numero di AAM Terra Nuova.

Intendiamoci: gli spaghetti in bianco alle vongole sono tutt'altra cosa. Non aspettiamoci da un piatto del genere quello che non può essere.
Ma questi spaghetti al pomodoro e pistacchi sono piacevoli, facili da preparare e fanno un gran bene alla mia coscienza. 
Di più, a una ricetta, non sento di poter e dover chiedere.

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Spaghetti alle vongole felici
(Ho dovuto necessariamente attuare delle modifiche, perché vistosamente sprovvista di ingredienti per me sommamente esotici quali l'alga kombu, l'alga nori, l'arame e la spirulina; per il resto, è praticamente identica.)

per 2 persone

50 gr di pistacchi, pesati con il guscio
olio extravergine d'oliva
1 spicchio d'aglio
peperoncino (a gusto)
1 foglia d'alloro
170 gr di spaghetti integrali
pomodori freschi (io ho usato, se non ricordo male, circa 7-8 piccadilly) 
1 cucchiaino di farina integrale
prezzemolo

Una mezz'ora prima di cominciare a cucinare lavate i pistacchi e metteteli, ancora col guscio, in una ciotola d'acqua. Lasciateli in ammollo.

Quando siete pronti, mettete su l'acqua per la pasta.

In una padella con un cucchiaio o due di olio extravergine d'oliva mettete a soffriggere dolcemente lo spicchio d'aglio intero, la foglia d'alloro e un pizzico di peperoncino secco.

Sbucciate i pistacchi. Appena sentite il profumo dell'aglio, aggiungeteli insieme a qualche cucchiaiata di acqua, coprite e fate insaporire per qualche minuto.

Indi aggiungete i pomodori freschi, che avrete pulito dei semi e tagliato a pezzetti.

Buttate gli spaghetti nell'acqua bollente e salata e fateli cuocere molto al dente: tenete presente che gli ultimi 3-4 minuti di cottura saranno nella padella con il sugo.
Prima di scolarli tenete da parte una buona mestolata di acqua di cottura - una buona pratica comunque.

Aggiungete al sugo 1 cucchiaino di farina integrale e mescolate.
Versate finalmente gli spaghetti scolati nella padella con il sugo, aggiungete eventualmente un po' dell'acqua di cottura tenuta da parte e finite di cuocere.

Prima di servire: prezzemolo tritato, volendo una spruzzata di succo di limone (io non ne avevo neanche l'ombra in casa, sigh), dell'olio a crudo e "fate portare in tavola" come si diceva nei vecchi libri di cucina.

Enjoy!

giovedì 28 giugno 2012

Romanzo rosa di Stefania Bertola

Le 4 stelle aNobiiane sono per l'affetto che ho per Stefania Bertola e per la riconoscenza che nutro per lei, che negli anni mi ha regalato ore e ore di sereno, intelligente, spensieratissimo sghignazzo, ma questo romanzo è davvero deboluccio, secondo me.

La Bertola è di solito maestra nel costruire romanzi corali, all'interno dei quali si intrecciano, in maniera quasi sempre surreale e ridicola ma anche perfettamente organica alla storia nel suo complesso, le vicende di molti personaggi, tutti sempre ben delineati e caratterizzati.

Anche questo è in teoria un romanzo corale e i protagonisti sono gli improbabili studenti di un ancor più improbabile corso di una settimana per imparare a scrivere il romanzo rosa perfetto.

Dico in teoria perché, stavolta, la Bertola ha scelto di dare un altro taglio al racconto: ha abbandonato la sua consueta posizione di narratore onnisciente e ha affidato a uno dei personaggi il ruolo di voce narrante e poi ha fatto soprattutto della metanarrativa, divertendosi probabilmente molto a parodiare, in modo intelligente e impietoso (ma è come sparare sulla croce rossa!), il genere letterario del romanzo sentimentale da edicola.

Peccato che così facendo si sia persa per strada proprio i personaggi, che invece sa costruire sempre con grande finezza e mestiere, che in questo caso risultano sfuocati, indistinti, poco più che macchiette con poco spessore.

Per il resto, qualche sghignazzata di gusto la riserva anche questo Romanzo rosa, soprattutto se, come me, anche voi, durante la lunga interminabile estate-senza-vacanze dei vostri 11 anni avete trascorso diverse ore al giorno leggendo i libri Harmony di vostra sorella maggiore.

Riconoscerete tutte le assurde e grottesche convenzioni che regolano l'universo delirante dei cosiddetti "romanzi rosa", che già a 11 anni mi sembravano, a volte (ma solo a volte! ero una discreta zucchina a quell'età), stucchevoli e irreali.

Come dice la cara Oriana, una scivolata ogni tanto, a chi mi ha fatto finora solo tanto tanto bene, si perdona, eccome se si perdona; il prossimo libro della Bertola, però, lo prendo in biblioteca – hai visto mai.


Stefania Bertola, Romanzo rosa, Einaudi 2012.

giovedì 14 giugno 2012

Di assenze e presenze e di un incontro lungamente atteso


Quando ho aperto questo blog, quasi tre anni e mezzo fa (vincendo infinite remore, le solite: la vergogna, il timore del giudizio altrui, la paura di essere una velleitaria e di presumere di me, il terrore che a nessuno interessasse etc. etc. etc.), mi sono ripromessa che avrei scritto solo e soltanto se e quando avessi avuto qualcosa da dire e, soprattutto, la voglia di dirlo.

In questo mio mese e mezzo di assenza, di cose da scrivere ne avrei anche avute. Mi mancava la voglia.
Perché per me scrivere non è immediato; non è un gesto spontaneo, liberatorio, disinvolto. 
È disciplina, riflessione, lavorio mentale, lotta con il mio feroce giudice interiore, ricerca di equilibrio. 
Se non fosse forse eccessivo, direi: è lavoro.

E in questo periodo, di fare questo lavoro, non me la sentivo.
Sono stata distratta dalla vita, potrei dire; e per non esser troppo retorici, dalla bella stagione, dalla lettura (di pagine cartacee e non virtuali), dalle piante di cui cerco di prendermi cura, dal mio tavolo da lavoro; soprattutto sono stata distratta - assai felicemente distratta - dagli amici. 
Amici mai incontrati se non nelle maglie della rete e ai quali finalmente ho dato un volto e una voce (ciao Nela San!); amici cari che sono andata a trovare in Inghilterra.

E proprio lì, nella perfida Albione (per la precisione a Rodmell, nel Sussex), ho finalmente visitato - dopo circa 20 anni che lo desideravo - Monk's House, la casa di campagna di Virginia Woolf ("una casa senza pretese, lunga e bassa, dalle molte porte" la definì lei nel suo diario).

Raccontavo a più di una persona che temevo, una volta lì, di essere travolta dall'emozione e dalla commozione e di trasformarmi - con imbarazzo mio, soprattutto, più che della Spia e degli amici che erano con noi - in una sorta di estintore umano.

Invece no.
La commozione c'è stata, certo. Ma più forte di lei è stata la sensazione, dolcissima, di trovarmi in un luogo amico, noto, familiare.
Quante volte ho osservato con attenzione le foto di quel suo studio/capanno da giardino, la sua "stanza tutta per sé" con vista sui prati; di quel salotto verde ("verde nilo", direbbe mio padre) con le sedie disegnate dalla sorella Vanessa; della camera da letto monacale con la libreria dietro il letto, la grande finestra dalla quale si vede il glicine, il caminetto con le mattonelle dipinte, il paralume decorato...

E quante volte ho immaginato il giardino? Con gli iris piantati da Leonard durante i bombardamenti tedeschi, la chiesetta al di là del muro, la vasca con le ninfee, il grande prato teatro di interminabili partite estive a bocce (una grande passione di Virginia, che nei suoi diari si lamentava di dedicarle troppo tempo, a scapito della scrittura)?

In ogni centimetro quadrato di quel luogo ho sentito - non appannato dalla presenza pure costante di turisti, come me, armati di macchine fotografiche e silenziosi, quasi in soggezione, ancora, di fronte allo spettro della sua morte tragica e romanzata - la presenza viva di quello spirito inquieto e geniale che tra quei fiori e quelle mura trovò spesso riposo e ristoro e amicizia e molte ore di beate letture e scrittura.

Non sono una grande fotografa, lo sapete; ma vi lascio comunque con alcune immagini di quel giorno.
Mi piacerebbe che, anche se maldestramente, riuscissero a comunicarvi un po' della mia emozione e della mia gioia.












 

lunedì 7 maggio 2012

Note del guanciale di Sei Shōnagon


Particolari eleganti e graziosi

Indossare su una veste rossa un'ampia e giovanile sopravveste candida. Le uova di anatra. Un dolce di zucchero di vite, conservato nel ghiaccio e presentato in una coppetta di metallo. I fiori di glicine. I fiori di prugno quando su di essi fiocchi la neve. Un bambino graziosissimo che mangi fragole.

Ecco una delle tante liste compilate da Sei Shōnagon - dama di corte devotissima all'imperatrice Sadako, vissuta in Giappone nel X secolo d.C. - e contenute in queste sue Note del guanciale.

In queste pagine, scritte, come dice la stessa autrice, per mitigare la noia di una vacanza a casa (…) pensando che nessuno le avrebbe lette, di liste ce ne sono molte: di cose piacevoli, disarmoniche, brutte e luride, belle se grandi, davvero antipatiche, che procurano un caldo soffocante, che dovrebbero essere corte, che fanno bella figura nella casa, antitetiche, rare, deludenti, irritanti, sgradevoli a udirsi, venerabili - e di molte altre, catalogate sotto le più disparate etichette: un intero universo, a noi lontanissimo nello spazio e nel tempo, inventariato e catalogato.

La donna che scrisse questo libro sembra aver avuto tutto dalla vita: figlia di un notissimo e celebrato intellettuale del tempo ed intellettuale stimata a sua volta, fu bella, ricca, amata, desiderata e celebre per la raffinatezza, il senso dell'umorismo e l'arguzia che la resero uno dei personaggi più in vista della corte dell'imperatore Ichijō.

Col piglio sicuro di chi è abituato a veder riconosciuta e tenuta in considerazione la propria opinione, Sei Shōnagon rende noti suoi gusti in modo personale e dettagliato: dai buoi ai gatti, dai cavalli alle carte per la scrittura, dagli scudieri ai paggetti, dalle più belle cascate del Giappone ai ponti, dai nomi dei villaggi ai colori più adatti per le sopravvesti estive, questa donna aveva un'idea precisa e personale su tutto e soprattutto pensava che valesse la pena esprimerla.

La lettura di questi suoi repertori è divertente, spesso piacevolissima (Cose che procurano felicità.  Leggere il primo volume di un romanzo che non conoscevamo e riuscire poi a scovare l'attesissimo secondo volume); a volte ci si ritrova commossi, altre decisamente spiazzati; spesso si stenta a credere di avere tra le mani un testo tanto antico, tali la freschezza e la modernità di molte sue pagine.

Le Note del guanciale sono però anche un piccolo trattato di storia e antropologia: molte sono infatti le descrizioni del complesso cerimoniale vigente alla corte imperiale di Kyoto, brani affascinanti ma che non di rado ho trovato noiosi, soprattutto perché i criteri rigidissimi che codificavano capillarmente la vita quotidiana dei dignitari di corte mi sono risultati molte volte assurdi e intollerabili, nel migliore dei casi incomprensibili - anche con l'ausilio delle ottime note, curate da Lydia Origlia.

Lo stesso dicasi per tutte le pagine dedicate alle molte facezie e agli scherzi che era abitudine scambiarsi a corte e che costituivano metro di giudizio del valore e della statura intellettuale e morale di ogni persona coinvolta: Sei Shōnagon li racconta con grande divertimento – e a volte con spregiudicata malignità - ma si sa, il senso dell'umorismo è una delle cose più difficili da esportare, sia nello spazio sia nel tempo.

Quel che comunque mi sembra di aver capito molto bene è che quello della corte imperiale era un mondo chiuso, che dietro la sua raffinatezza e i suoi minuziosi e complessi codici comportamentali nascondeva crudeltà e meschinità terribili ed era pronto a giudicare spietatamente e a fare a pezzi chiunque si macchiasse della minima disattenzione: bastava presentarsi indossando la sopravveste del colore sbagliato per l'occasione per essere oggetto del feroce e spietato sarcasmo di tutti e per cadere in disgrazia.

Sebbene il tono generale del libro sia dunque gaio e brillante, non mancano i momenti in cui si sente vibrare un'accorata malinconia (Cose che dovrebbero essere vicine ma che sono realmente lontane. Il paradiso. I viaggi per mare. I rapporti umani.): il desiderio nostalgico di una vita più semplice e la fatica di vivere in un mondo così difficile ogni tanto devono aver pesato anche sulle aggraziate spalle di Sei Shōnagon.

Gli anni che seguirono l'esperienza a corte non devono essere stati allegri per lei; morta di parto la sua protettrice, malvista dalla nuova imperatrice, cadde infatti in disgrazia. Si ritirò dunque nella sua casa di campagna e visse anni di decadenza e abbandono: di lei non si seppe più nulla o quasi; un triste epilogo per una vita che per molti anni era stata brillante, spensierata e adorna di ogni piacevolezza e raffinatezza.

Chissà se lo spettacolo della natura - cui nel libro sono dedicate tra le pagine a mio parere più belle – non più goduto dai balconi o nella sontuosa cornice degli splendidi giardini delle varie residenze imperiali in cui si svolgeva la vita di corte – continuò a rapire e a sedurre la sua fantasia; chissà se negli ultimi anni della sua vita, anche senza l'ausilio dei suoi mille, raffinatissimi “talismani” - le scatole per la scrittura, i ventagli, i pettini, i pennelli e i bastoncini d'inchiostro, le mille vesti confezionate in ricchi e sontuosi tessuti nei colori da lei preferiti (Quanto ai tessuti, le tinte che preferisco sono il viola, il bianco e anche il rosso prugno, per quanto quest'ultimo, a lungo andare, stanchi) - in luogo di sentirsi sconfitta e beffata dalla vita, Sei Shōnagon pensava ancora ciò che, giovane, bella, celebre e sicura di sé, aveva scritto:

Quando mi sento così delusa da provare rancore verso il mondo intero, così depressa da non avere più desiderio di vivere, neppure per un istante, ma di voler fuggire lontano, dove non importa, se mi capitano tra le mani semplici fogli di carta bianca e un buon pennello, cartoncini bianchi o carta di Michinoku, immediatamente mi rassereno e penso che la vita valga ancora la pena di essere vissuta. Oppure se distendo un tatami dai bordi damascati e ne ammiro la fibra ancora di un tenero verde, dolcemente rigonfia, la minutezza dell'intreccio, la netta distinzione tra il nero e il bianco dei disegni del bordo, mi accorgo che non potrei mai abbandonare questo mondo senza rimpianto e la vita stessa mi appare più preziosa che mai.

(Un grazie speciale a Tiziana Rinaldi che con un suo post, tempo fa, mi ha fatto scoprire Sei Snagon).


Sei Shōnagon, Note del guanciale, a cura di Lydia Origlia, SE 2002.

 

lunedì 23 aprile 2012

Missed Connections di Sophie Blackall


www.missedconnections.com è un sito americano molto popolare, dove le persone lasciano dei messaggi nel tentativo di ritrovare qualcuno che non conoscono, che hanno incontrato per caso – in metropolitana, per la strada, in un ristorante – e che vorrebbero ritrovare e conoscere.

“Pattinando sul ghiaccio a Central Park, ci siamo scontrati. Tu indossavi un cappello di pelliccia con le orecchie e mi sei venuta addosso al Woolman Rink, oggi. Sei una  pattinatrice pessima, ma adorabile”.

“Mentre passavamo sotto il fiume, il tuo naso ha cominciato a sanguinare. Io sono la ragazza che ti ha allungato un fazzoletto. Non sembrava il momento adatto per chiederti se fossi single, ma ho pensato che fossi maledettamente carino".

“Indossavi un abito verde con bottoni bianchi. I nostri sguardi si sono incrociati almeno tre volte sul 6, stamattina. All'improvviso hai sorriso e ti sei guardata in grembo, come se ridessi di uno scherzo segreto. Non hai più sollevato lo sguardo ed io sono dovuto scendere a Bleecker. Avrei voluto poter guardare dentro la tua bella testa”.

Sophie Blackall è un'illustratrice di Brooklyn; per puro caso si imbatte in questo sito e ne rimane totalmente stregata. La sua immaginazione è immediatamente sedotta ed eccitata dalle tante, infinite, possibili storie che questi annunci lasciano immaginare, sognare, intravvedere.

Alcuni la divertono, la commuovono e la incuriosiscono; altri tornano insistentemente a visitare la sua fantasia finché si trasformano in illustrazioni.
Da qui nasce il progetto di un blog che diventa, nel tempo, questo libro.

Come è accaduto a Sophie Blackall, è impossibile, come lettori, non farsi coinvolgere da questi piccoli racconti.
Sarà "il voyeurismo, il romanticismo vissuto per interposta persona”, sarà che questi annunci sono “frammenti di una storia che contiene i grandi e familiari temi dell'amore, della perdita e del rimpianto e in definitiva, soprattutto, della speranza”.

Sarà che poche cose sono più poetiche, evocative e struggenti di “ciò-che-avrebbe-potuto-essere-e-non-è-stato”, di tutte le strade che ai tanti bivi della propria vita è stato scelto di non percorrere, di tutti quegli sguardi che non si ha avuto il coraggio di ricambiare o trasformare in parole, in gesti di avvicinamento, apertura, contatto.

Sarà il potere irresistibile del “ciò-che-ora-non-è-ma-un-giorno-potrebbe-essere”, della speranza che esista per tutti un'occasione d'amore, di gioia, di condivisione.

Sarà per tutti questi motivi che questo libro è un piccolo gioiello, da sfogliare con leggerezza e un crescente sentimento di tenerezza e commozione.

Leggete anche che cosa ne ha scritto la brillante e a me dilettissima Chiara in questo suo post: http://www.chiarachinellato.net/clarissapuntod/le-missed-connections-di-sophie-blackall/.


Sophie Blackall, Missed Connections. Love, Lost & Found, Workman 2011.


venerdì 20 aprile 2012

Di cene africane e amici cioccolatomani, ovverosia della crostata suprema

E dunque dopo tanti, tantissimi anni, ho rifatto la famosa "crostata suprema": un nome altisonante e pretenzioso per un dolce che in effetti ha qualche diritto ad un aggettivo tanto sopra le righe.

La prima volta che l'ho fatta, la crostata suprema, ero in Africa e cercavo un dolce adatto a soddisfare il palato esigente di un amico, ospite a cena quella sera, noto cioccolatomane.
Seguii la ricetta scrupolosamente, cimentandomi addirittura nelle decorazioni fatte con il caramello e il cacao, tanto più spettacolari quanto più sono astratte e sbilenche.

La crostata suprema riscosse un grande successo e dopo mesi e mesi di repliche mi fece acquistare una sorta di notorietà nella piccola cerchia di espatriati che circolavano in quella città africana.

Poi, tornata in Italia, non l'ho più fatta. Per nessun motivo particolare, forse solo perché ho conosciuto, provato, cucinato altre cose.
Ma qualche giorno fa, per un pranzo tra amici, ho deciso che avevo proprio voglia di farla di nuovo. 
Con modifiche sostanziali, dettate dal fatto che la ricetta originale è davvero una sorta di bomba - non che la mia versione lo sia molto meno, diciamo che è una bombetta, ecco.

Ho fatto un po' un miscuglio e dunque in parte seguito una ricetta di Clotilde Dusoulier (l'ho trovata sul suo libro Chocolate & Zucchini) per il guscio di pasta e poi ho leggermente modificato il resto della ricetta che è di Trish Deseine (presa dal suo Cioccolato!, ma la trovate in quasi tutti i suoi libri).

E quel che è venuto fuori è stata di piena e selvaggia soddisfazione, di tutti.

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(quasi una) Crostata suprema al cioccolato

per la pasta (con questo quantitativo in genere ci faccio due torte, utilizzando due tortiere a fondo mobile, una di 24 cm e una di 15: la prima è per gli ospiti; la seconda, da mangiare il giorno dopo a colazione, è per la Spia, che se no alimenta subito il complesso abbandonico): 

75 gr. di burro, tagliato a cubetti
75 gr. di zucchero a velo
150 gr di farina (io uso quella 0)
1 cucchiaio di cacao amaro
1/4 di cucchiaino di sale
1-2 cucchiai di acqua ghiacciata

per la farcitura:

100 gr. di cioccolato fondente al 70% +  200 gr.
150 ml di panna liquida
2 tuorli
25 gr. di burro

Io preparo la pasta nel robot da cucina: burro, zucchero, farina, cacao e sale nella coppa con la funzione pulse fino a quando non siano ridotti a briciole. Poi aggiungo, con cautela, un primo cucchiaio di acqua e di nuovo aziono la funzione pulse. Di solito di cucchiai ce ne vogliono due perché la pasta cominci ad ammassarsi: a quel punto la tiro fuori dalla coppa del robot, la compatto con le mani e la avvolgo nella pellicola. Indi la trasferisco in frigo per almeno una mezz'ora. Un'ora è anche meglio.

Passato questo tempo, la tiro fuori, la stendo con il mattarello e ci ricopro le due teglie, premendola bene sui bordi e sul fondo e sforacchiandone la superficie per evitare che si sollevi in cottura. Finita quest'operazione rimetto tutto in frigo per almeno mezz'ora e nel frattempo accendo il forno a 200°.

Quando è il momento, cuocio in bianco il guscio di pasta per 20'-30': io non uso né carta da forno né fagioli secchi; vado un po' così, alla spericolata, e devo dire che per qualche imperscrutabile ragione faccio meno disastri in questo modo di tutti quelli che ho fatto in passato seguendo i crismi della cottura in bianco - almeno così come veniva prescritta nei miei libri di cucina.

Il guscio di pasta dovrà essere inequivocabilmente cotto, anche perché non verrà più rimesso in forno dopo che sarà stato riempito con la ganache. Regolatevi voi: lo so che è un'indicazione vaga e frustrante in una ricetta, ma quel che posso consigliarvi - data l'alta individualità di ogni forno - è di rimanere nei pressi e dare una sbirciata ogni tanto. Si capisce quando il tempo è arrivato: la pasta si ritira in maniera netta e ordinata dai bordi. Considerato che non seguirà nessun'altra cottura, io preferirei cuocerla un po' di più che un po' di meno. Poche cose sono più indisponenti che un guscio di pasta virante al crudo.

Quando ritenete che sia cotto, tirate fuori dal forno e lasciate raffreddare.
Solo quando il guscio di pasta sarà completamente freddo potrete spennellarlo (io usavo un pennello, quando ne avevo uno; ora uso una spatola di silicone o un cucchiaio) con la tavoletta di cioccolata da 100 gr. sciolta a bagno maria. Ricoprite il fondo della torta e anche i bordi, se ci riuscite, con uno strato sottile e il più possibile uniforme. Mettete poi in frigo: lo strato si dovrà solidificare e dovrà diventare croccante.

Nel frattempo procedete con la ganache: in un pentolino portate la panna a bollore, poi togliete subito dal fuoco e versatela su una ciotola di pirex (o comunque resistente al calore) dove avrete messo la cioccolata a pezzetti. Aspettate una ventina di secondi, poi cominciate a mescolare, sciogliendo il cioccolato ben benino.
Indi aggiungete i 25 gr. di burro (io ogni tanto non li metto) e infine i due tuorli, prima uno e poi l'altro, amalgamando bene il primo prima di aggiungere il secondo. 
La ganache avrà una consistenza piuttosto densa, l'ultima volta la mia appariva quasi un budino.
Versatela nel guscio di pasta e mettete tutto in frigorifero.

Tirate fuori la torta almeno 15'-20' prima di quando intendete mangiarla (ovviamente dipende da che temperatura c'è fuori).
Alcune mie amiche la decorano con del cacao amaro setacciato; altre la cospargono di granella finissima di pistacchi.
Come che sia, anche nuda la crostata suprema è un dolce sontuoso: chiunque se la vedrà arrivare in tavola dopo una cena si sentirà destinatario di un'attenzione e di un riguardo speciali. Proprio come dovrebbe sentirsi chiunque scegliate di far sedere alla vostra tavola.

Enjoy!