venerdì 3 luglio 2009

L'animale morente di Philip Roth


Scrivevo ieri alla mia amica Sandra che avevo iniziato a leggere questo libro a letto, l'altra sera, con gli occhi semichiusi dalla stanchezza. Dopo cinque minuti ero sveglia come un grillo, avrei potuto andare avanti per almeno un'altra ora e mezzo, e forse anche di più.

Sempre a Sandra scrivevo che se Roth assomiglia anche lontanamente al suo David Keplesh deve essere un uomo che delle donne fa strame, così ossessionato dalla bellezza femminile, così schiavo della propria sensualità e insieme così distaccato e chirurgico nell'analisi delle proprie pulsioni. Da mettere letteralmente i brividi.

Questo è il suo secondo libro che leggo e l'effetto che mi fa ogni volta è dirompente. Ne sono letteralmente ipnotizzata, completamente conquistata. La forza del suo stile diretto, intenso, e la complessità dell'analisi che affida alle parole richiedono una concentrazione assoluta, ma offrono in cambio istanti di puro rapimento.

Non dirò nulla della storia, che è una storia in fondo come tante (quella di un'ossessione sessuale di un uomo avanti con gli anni per una ragazza giovane e di una bellezza numinosa e assoluta), benché con una chiusura tragica e a sorpresa.

E' difficile, però, anche solo rendere conto di tutte le sollecitazioni che Roth offre in questo romanzo, che per numero, qualità e intensità danno le vertigini, se si considera che sono concentrate in appena 113 pagine: riflessioni e analisi sulla rivoluzione sessuale, la paternità, la musica, la situazione cubana, tanto per citarne alcune. Il consueto ottovolante su cui Roth fa sedere il suo lettore.

Certo, non mi risulta facile leggere questo autore, perché è troppo sincero, troppo brutale, a tratti francamente disturbing, direbbero gli inglesi; questo suo mettere a nudo i meccanismi a volte sottili, a volte grevi, sempre primitivi, illogici, ancestrali della sessualità maschile e femminile, facendolo nel modo meno mediato, meno 'politically correct' che si possa immaginare, con una rude ma anche 'rinfrescante' mancanza di pruderie e giri di parole, e spesso con un'ironia graffiante e irresistibile, è sempre l'equivalente di un pugno nello stomaco: molto stimolante, sempre salutare, ma estremamente sconcertante.

Non manca, in questo romanzo, anche qualche barlume di intensa commozione, quando Roth dà una voce sincera e potente a quel sentimento sublime che è la vera pietà per la sofferenza umana e per la paura della morte, per l'impossibilità di difendersi dall'apparente gratuità di certi eventi e per la fragilità del corpo e della sua bellezza, destinata a sfiorire, sempre, e a volte ad essere falciata crudelmente dalla malattia.

L'animale morente cui il titolo fa riferimento siamo, come al solito, tutti noi.


Philip Roth, L'animale morente, Einaudi, Torino 2002. Traduzione di Vincenzo Mantovani.


1 commento:

  1. Brava, ottimo commento come al solito.
    Il tema in sé è stra-abusato, ma sarei curioso di vedere come lo tratta un grande scrittore nato nella stessa città di Jerry Lewis, Whitney Houston, Paul Simon e - last but not least - Paul Auster.
    L'anno scorso è uscito il film tratto da questo romanzo ("Elegy", "Lezioni d'amore" in italiano). La critica lo ha stroncato. Una per tutte, la Tornabuoni: "Sentimentalismo poco tollerabile. Amore tra Penelope Cruz nella parte impossibile di una studentessa universitaria e Ben Kingsley invecchiato professore. Dialoghi elegiaco-ridicoli, tentativo non riuscito di rappresentare la passione carnale". Direi che NON è il caso di andarlo a vedere,

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