mercoledì 31 agosto 2011

Di oziose invettive, di impaziente avidità e di un gelato allo zabaione

Mi sono a lungo interrogata sull'opportunità o meno di pubblicare questa ricetta.

Prima di tutto per via della sua provenienza. 
In questo blog ho sempre cercato di parlare di ricette tratte da libri di cucina, oggetti per i quali - dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro - ho una passione smodata virante, temo sia assodato, al patologico.

Questo blog, in effetti, è nato soprattutto, all'inizio, come spazio in cui parlare di libri, di quelli che mi piace leggere e di quelli che mi piace usare sia in cucina sia nelle mie scoordinate ma felici incursioni nel mondo del craft.

Tra l'altro i libri di cucina che si pubblicano oggi sono anche, spesso, libri da leggere. 
O meglio.
Diciamo che va molto di moda pubblicarli e presentarli come libri anche da leggere (e la frase spesso utilizzata è ne vorrete una copia in cucina e una per il vostro comodino, o qualcosa di molto simile), come se ci fosse qualcosa di disdicevole nel proporre un onesto manuale.

Sia ben chiaro.
Io amo molto - e l'ho detto più volte - i libri che uniscono ricette e ricordi, divagazioni e brevi saggi.
Il fatto è che assai raramente ci si trova tra le mani testi scritti con garbo sufficiente per essere effettivamente letti con piacere e senza digrignare i denti di fronte alla disinvoltura con cui - in nome della spontaneità e della commistione dei generi - chi li scrive maltratta la lingua italiana.  
Ma questo è un altro discorso, fatto ad abundantiam in altre sedi e non è il caso di ripeterlo anche qui.

Comunque, la ricetta di oggi non è presa da un libro, ma (con molta libertà) da un opuscolo di Sale & Pepe, acquistato in edicola più o meno un mese fa, dal titolo (per me orrido) Dolci da brivido.

Esistono scuole di pensiero differenti su quella che è forse tra le più note riviste di cucina di questo disgraziato paese. Ci sono fierissimi detrattori e grandi, entusiasti sostenitori. I primi non eseguirebbero nemmeno sotto tortura neanche una ricetta tratta da quelle pagine; i secondi non accettano che si muova neanche la più lieve critica a quello che considerano quasi un testo sacro - anche se pubblicato a puntate mensili e acquistabile in edicola, come un romanzo d'appendice.

Io ne ho acquistati gli ultimi 5-6 numeri, per farmi un'idea.
Per certi versi la trovo una bella rivista: è colorata, con un layout elegante, chiaro, fotografie comme il faut (e con questo intendo come van di moda oggi, stile Donna Hay, per intendersi) e le ricette sembrano essere eseguibili da qualunque "cuciniere" medio. Molte poi sono estremamente appetibili - almeno per me.

Ma non c'è numero la cui lettura non mi trasformi prima o poi in una piccola erinni, quando mi imbatto in certe espressioni che ormai han fatto scuola e si leggono più o meno ovunque si parli di cucina.
Nelle pagine di Sale & Pepe, infatti, è tutto un fiorire di termini come scioglievolezza, leccornia, bocconcino e di aggettivi leziosi come ghiotto, delizioso, goloso, gustoso, stuzzicante, sfizioso - progenitori di tutti quei coccoloso, profumoso, sofficioso, cioccolatoso etc. che si trovano a iosa nel web.

Abbondano poi le frasi fatte noiose e ripetitive: la dolcezza è sempre irresistibile, la leggerezza ghiotta, il sapore sorprendente, l'antipasto raffinato (o chic).

Che noia. E che fastidio.

Lo so che l'importante è che le ricette siano affidabili e scritte chiaramente - e mi sembra che da questo punto di vista si possano muovere poche obiezioni alla rivista.
Ma perché, mi chiedo, non limitarsi a questo - che è già tanto, e meritevole - evitando di creare uno stile che secondo me ha fatto più danni che la grandine? Non era possibile trovare un'alternativa meno ingessata e raggelante alla pur mitica La cucina italiana senza per forza cadere nel bamboleggiante e nello stucchevole?

Fine dell'(oziosa) invettiva.

Il secondo motivo che mi induceva ad esitare fino ad oggi è che la fotografia ritrae - è evidente - una tazzina vistosamente vuota.

Il gelato allo zabaione (fatto partendo dalla ricetta di questo opuscolo, poi modificata in corso d'opera e meticciata con altre ricette) è venuto in effetti così bene che non siamo riusciti, né io né la Spia, a fermarci in tempo per immortalarlo ancora intonso.

Tutto sommato, però, a ben pensarci, non c'è prova migliore della sua bontà: un inglese probabilmente commenterebbe col noto The proof is in the pudding.


****

Gelato allo zabaione

3 rossi
100 gr di zucchero
250 ml di latte
50 ml di marsala
150 ml di panna


Battete con le fruste i rossi con lo zucchero fino ad ottenere un composto liscio e chiaro, a "nastro".

In un pentolino riscaldate il latte senza farlo bollire.

Aggiungetene un mestolo al composto di uova e zucchero, sempre mescolando con le fruste (alla velocità minima), poi un secondo mestolo, infine tutto quel che resta. Mescolate e versate tutto di nuovo nel pentolino in cui avete scaldato il latte, cuocendo a fuoco basso-medio fino a quando la crema non veli il cucchiaio (circa 8 minuti? più o meno).

Spegnete e lasciate raffreddare. È possibile che la crema, lasciata a se stessa per un po', formi la pelle e risulti granulosa: niente panico. È pratica assai eterodossa e verrò sicuramente tacciata di eresia, ma io in questi casi ricorro felicemente al frullatore ad immersione: pochi secondi e la crema è di nuovo liscia, perfetta.

A quel punto aggiungete il marsala.

Poi montate la panna (non esagerate) e aggiungetela delicatamente al composto.

Se usate la gelatiera, mettete tutto nel cestello e tenete presente che il liquore allungherà senz'altro i tempi di preparazione (nella mia ci son voluti 45 minuti buoni invece che i soliti 20-25); se non avete la gelatiera, preparatevi al balletto i cui passi principali sono: mettere nel freezer per due ore, tirare fuori dal freezer, frullare con le fruste, rimettere nel freezer, tirare fuori dal freezer etc etc per almeno un paio di volte (se non tre).

Ma alla fine avrete un gelato allo zabaione stupefacente, quasi più buono di quello che si trovava dentro il Cucciolone.

Enjoy!

sabato 27 agosto 2011

La felicità domestica di Lev Tolstòj

Che un uomo di 29 anni abbia potuto partorire un libro come questo è stupefacente; che abbia potuto dare una voce tanto credibile, sincera e autentica ad una giovane donna che per la prima volta si apre al mistero dell'amore, ha - per me - del miracoloso: nell'esame attento (e rispettoso, e non paternalistico; altro miracolo) delle emozioni, spesso complesse e confuse, che accompagnano la nascita di un sentimento, il suo fiorire e maturare, il suo trasformarsi – attraverso il doloroso passaggio della delusione e della disillusione - da passione estatica ed esclusiva in affetto profondo e finalmente scevro di ogni proiezione e finzione più o meno inconscia, si sentono vibrare tutta l'intelligenza, la sensibilità, l'incredibile acutezza e maturità del giovane Tolstòj.

Come è vero e reale (e giusto e provvidenziale, aggiungerei io) il naturale ridimensionamento reciproco che avviene in ogni relazione (perché di questo, soprattutto, parla questa storia): da divinità fulgida e tanto magnanima da ritenerci meritevoli del suo amore, l'altro torna - finalmente e per fortuna - ad essere l'essere umano imperfetto che è, quello stesso essere umano imperfetto che siamo anche noi e che torniamo ad essere ai suoi occhi; com'è difficile accettare tutto questo senza disamorarsi e senza perdere l'amore dell'altro; com'è difficile - e per alcune persone penoso, quasi impossibile - accettare senza smarrirsi che niente rimanga identico, che i sentimenti con il tempo sembrino perdere intensità, vita, sangue.

Ci vuole a volte una vita, insieme o da soli, per arrivare a capire che solo allora essi mettono radici solide e sane, acquistano potenza e vigore e sostengono grandi, pacifici e fruttuosi alberi, non fulgidi, profumatissimi ma traballanti e fragili arbusti di rose.


Lev Tolstòj, La felicità domestica, traduzione di Serena Prina, Oscar Mondadori 2008.

martedì 23 agosto 2011

Arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern

Poco più di 100 pagine di grande bellezza.

Un catalogo "estetico-sentimentale" - per dirla con le parole dello stesso Rigoni Stern - che raccoglie informazioni, descrizioni, notizie, curiosità, leggende e miti su alcuni rappresentanti del "grande popolo degli alberi". 


E poi ricordi di infanzia, di guerra, di amicizia, di famiglia: ad ogni ramo, foglia, frutto si intrecciano storie, divagazioni, aneddoti, curiosità e la denuncia, a tratti sommessa e malinconica, quasi commossa, a tratti indignata e vibrante, delle innumerevoli, stupide e turpi violenze cui questi giganti della terra sono sottoposti giornalmente dalle brutture della speculazione edilizia, dell'ignoranza, del disamore improvvido per quella che rimane, sempre e comunque, la nostra unica, vera risorsa: la natura.


Un arboreto selvatico, dunque, ma anche "salvatico", cioè salvifico - come spiega l'autore - perché dove ci sono la conoscenza, la consuetudine e la familiarità con la natura necessariamente si fanno strada l'amore, il rispetto, la cura, l'attenzione.

E quante parole nuove, mai sentite, mai lette, dal suono bellissimo, dalle assonanze misteriose ed evocative, da ripetersi sottovoce, come una filastrocca: disàmare, stipole, carpello, glomeruli...

Per me, cittadina al 100% che non sa riconoscere un tiglio da un pioppo, un castagno da un acero (e comincia a crucciarsene), una splendida lettura.


Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1996.
 

lunedì 22 agosto 2011

Di idiosincrasie alimentari, della maturità e di un'insalata di peperoni arrosto

Delle idiosincrasie alimentari mie e della Spia ho parlato a lungo e spesso.

È un vero peccato (e causa di diverse piccole e grandi difficoltà logistiche) il fatto che raramente esse coincidano, anzi.

Ma dopo 12 anni di convivenza stiamo lentamente imparando a non scandalizzarci più di fronte alle manifestazioni della diversità dei nostri gusti - per quanto la Spia non riesca, se non assai raramente, a resistere alla tentazione di dire con voce disgustata "Che puzza di aceto!" ogni volta che mi vede, non dico aprire e versare, ma prendere dalla dispensa una bottiglia di aceto (di qualunque aceto; ne ho diversi, perché li amo molto).

Ci sono alcuni cibi che ho rinunciato da tempo a comprare (per esempio il gorgonzola, di cui vado matta ma la cui sola presenza nel frigo - anche se sigillato - getta la Spia in uno stato ora di panico ora di prostrazione) e piatti che gusto solo se qualche anima pia di mia conoscenza me li prepara sapendo che ne sono ghiotta ma che non li mangio magari da anni.

Ne cito alcuni, così, en passant, nella speranza che qualcuno che passi di qui se ne ricordi nel caso in cui volesse invitarmi a mangiare a casa sua: la francesina (un piatto tradizionale della mia famiglia a base di cipolle, pomodoro e aceto), l'insalata russa, la lingua in salsa verde, le alici marinate, le zucchine in carpione e mi fermo qui, ché mi sta prendendo la malinconia.

Per anni, pur amandoli alla follia, non ho comprato peperoni: il loro odore è uno tra i più potenti repellenti anti-Spia che si conoscano. Poi un giorno, non ricordo perché (forse la Spia mi aveva fatto arrabbiare, chissà), mi son ritrovata al supermercato con due bei peperoni rossi nel carrello, decisa a cucinarmeli.

La Spia, alla loro vista, è quasi svenuto, non poteva credere a ciò che vedeva e mi ha guardato con gli occhi azzurri pieni di addolorato sconcerto: questo acquisto significava forse che non gli volevo più bene?

È passato qualche anno da allora e svariati chili di peperoni sono transitati per la nostra cucina.
Non c'è volta in cui li prepari che non arrivi prima o poi il solito commento: "Che puzza di peperoni".
Ma io ho imparato ad ignorarlo e a non farmene innervosire: lo considero una sorta di innocuo e involontario tic; dal canto suo, la Spia ha finalmente compreso che l'insalata di peperoni arrosto non è né il barometro che segna il grado di salute della nostra relazione né un modo piuttosto ambiguo e contorto (e particolarmente crudele) di dirgli che non gli voglio più bene. 

E questo, mi piace crederlo, è uno dei tanti modi, tutti nostri, di vivere insieme la maturità.

****

Insalata di peperoni arrosto con feta e mandorle da Nigella Bites di Nigella Lawson

(per 3-4 persone o una Papera molto affamata o in crisi d'astinenza da peperoni)

4 peperoni rossi
50 gr di feta (ma regolatevi voi, a gusto)
succo di limone
sale e pepe
olio d'oliva
mandorle (io preferisco quelle intere con la pelle, ma ogni tanto uso anche quelle spellate e persino quelle a scaglie)
prezzemolo fresco

Preriscaldate il forno a 230°. Quando è pronto infilateci dentro una teglia coperta con un foglio di carta da forno su cui avrete adagiato i peperoni.

Lasciate cuocere per circa 45' (volendo a metà cottura potete girarli, ma io non l'ho mai fatto): i peperoni dovranno essere belli abbrustoliti e morbidissimi.  Indi tirateli fuori e metteteli in una ciotola capiente che poi coprirete con della pellicola. Lasciateli lì quanto volete: sarà più facile poi spellarli.

Dopo averli spellati e puliti (cioè privati dei semi e del picciolo), tagliateli a falde e metteteli sul piatto di portata: sbriciolatevi sopra la feta, condite con sale (poco), pepe, del succo di limone e dell'olio d'oliva.
Aggiungete le mandorle e il prezzemolo (io a volte non ne uso, non lo amo moltissimo, ma in effetti è una bella aggiunta che dà più carattere e allegria al piatto).

Assaggiate, aggiustate di sale, limone, olio o quant'altro vi sembri necessario aggiungere e portate in tavola.
A volte, invece del limone, uso (per fare ancora più contento la Spia!) dell'aceto balsamico.

Enjoy!

mercoledì 17 agosto 2011

Il giardino che è la nostra vita di Geri Larkin

Geri Larkin pratica il buddhismo da quasi 30 anni e da 10 dirige un proprio centro di meditazione a Detroit; in più ha lavorato per anni in un vivaio: da queste due esperienze è nata l'ispirazione per questo libro, che io pensavo essere una sorta di manuale zen di giardinaggio o un testo di filosofia zen in chiave "verde".

L'immagine del giardino come correlativo oggettivo del proprio sé, come luogo da coltivare, curare, seguire e dei cui frutti godere, non è tra le più originali, ma è di sicuro tra le più suggestive e affascinanti.

Il giardino come spazio fisico dove ci si sporca le mani e si suda, dove ci si ferisce con spine e attrezzi taglienti e si combattono, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, mille piccole e strenue battaglie: contro i parassiti, contro le infestanti, contro gli effetti nefasti degli elementi avversi.

Il giardino, anche e soprattutto, come spazio spirituale, luogo di epifanie di straordinaria, numinosa bellezza e di fragile e commovente splendore, in cui intessere, con pazienza e tenacia, un (si spera) sano e affettuoso legame con la terra su cui si cammina, in cui riconciliarsi con l'idea che la vita si nutre di morte e viceversa e in cui sentirsi attivi ed entusiasti cocreatori, insieme alla natura, di bellezza ed armonia.

Un po' tutto questo ho cercato in questo libro, invano.

Vi ho trovato, invece, pagine su pagine di aneddoti che secondo l'autrice dovrebbero essere particolarmente rivelatori e illuminanti, di fatti occorsi a lei o a qualche suo amico o conoscente, e che dovrebbero inconfutabilmente dimostrare che la vita è molto più bella e semplice se si cerca di essere sempre allegri, pazienti e gentili con gli altri e se ci si aspetta sempre il meglio da tutti e da tutto.

Un principio che in linea generale mi vede assolutamente d'accordo, ma che credo sia possibile esprimere in modo più articolato, complesso, profondo, e soprattutto senza quel tono sempre entusiasta, ingenuo, sopra le righe, semplicistico e ammiccante di molti testi americani di self-help/new age/spiritualità/fuffa varia etc etc che non sopporto proprio più.


Geri Larkin, Il giardino che è la nostra vita, traduzione di Gaia De Pascale, Ponte alle Grazie 2009.


martedì 16 agosto 2011

Di giochi di coppia e di alcuni amaretti farciti

Ricordate, ne Le fabuleux destin d'Amélie Poulain, come vengono presentati i genitori della protagonista?

In modo, secondo me, geniale: con una brevissima biografia che include anche un elenco, ovviamente parziale e arbitrario, delle cose che amano e che detestano.

Da quando abbiamo visto quel film, io e la Spia giochiamo spesso a questo gioco: ormai è diventato una sorta di abitudine familiare. 

Non appena ci imbattiamo in qualche esperienza che ci delizia o, al contrario, ci lascia perplessi - o peggio - ci viene automatico "aggiornare"  il nostro personalissimo elenco di gusti e disgusti, e di farlo ad alta voce, proclamando solennemente e con la voce impostata: "Alla Spia/alla Papera piace/non piace...". 

La cosa bella, almeno secondo me, è che l'aggiornamento è sempre incrociato, per così dire: sono io che aggiorno il suo elenco e lui che aggiorna il mio, in una sorta di affettuoso, eclusivo e spesso divertito e stupito riconoscimento dell'altro.

Qualche sera fa, dopo cena, pensavo in questi termini alle tante piccole cose che mi piacciono di questo agosto in città.

In ordine rigorosamente sparso, queste sono le prime che mi sono venute in mente (e chissà quante ne potrebbe indovinare la Spia):

- lo sguardo e i sorrisi di complicità che ci si scambia con i pochi clienti del supermercato del quartiere, come a dire "Anche lei qui? Ne sono lieto"

- le serate con le finestre aperte dalle quali entrano, oltre alla brezza e alle zanzare (accidenti a loro), echi di conversazioni lontane intrecciate a qualche tavolata in giardino, risate, le note di un passaggio particolarmente complesso che qualcuno sta cercando di imparare a suonare al piano 

- le sieste pomeridiane di Matilde dentro il vaso dell'ulivo

- nel tardo pomeriggio dare l'acqua alle piante nel terrazzo e pensare a come cambierà il loro aspetto in autunno

- uscire per le scale la mattina per andare a prendere la posta anche in camicia da notte e ciabatte, sapendo che non si incontrerà nessuno con cui scambiare sguardi mutualmente soncertati

-  trovare il tempo per (finalmente) attaccare quei quadri che aspettavano da un anno di trovare una collocazione

- intravedere nel cielo luminoso della sera i primi, sottili annunci della stagione più bella dell'anno, quella che verrà

- cercare tra i libri e gli appunti ricette di dolci facilissimi, da mangiare freddi, la sera, dopo cena

E riguardo a quest'ultimo punto, eccone una, di ricetta, se di ricetta si può parlare, che mi incuriosiva da tempo: mi è stata passata a voce dalla suocera (e dunque mi è stato assolutamente impossibile capire da dove venga) e non l'avevo mai provata, perché in realtà prevederebbe l'uso del mascarpone e della Nutella, che io adoro - sia chiaro - ma la cui compresenza in un'unica ricetta mi ha sempre inquietata (per quanto non dubito che il risultato valga senz'altro qualche inquietudine).

Qualche giorno fa, sprovvista e dell'uno e dell'altra, ma fornita di ingenti quantitativi di amaretti secchi e cioccolato fondente, e dovendo vieppiù finire una confezione di panna già aperta, li ho fatti così.

****

(più o meno) Amaretti farciti della suocera (e sicuramente di qualcun altro, di cui al momento si ignora l'identità)

50 gr di cioccolato fondente a pezzetti (io ne ho usato uno al 70%)
50 ml di panna liquida
amaretti secchi (non so darvi le quantità; io ho usato quelli piccoli e ne saranno venuti 10-12)
mezza tazzina di caffè forte
farina di cocco

In un pentolino scaldate la panna senza farla bollire. Versatela in una ciotola resistente al calore dove avrete messo i pezzetti di cioccolata. Attendete qualche secondo, poi mescolate fino a quando la cioccolata non sia completamente sciolta. Lasciate raffreddare e mettete in frigorifero per almeno una mezz'ora.

Nel frattempo fate il caffè (posso dire che uso il caffè liofilizzato? L'ho detto. Due cucchiaini scarsi in mezza tazzina d'acqua) e preparate un piatto cosparso di farina di cocco.

Tirate fuori la ganache dal frigo e montatela con le fruste fino a quando non sia soda.
Usatela per farcire gli amaretti a due a due. Indi, passate il piccolo sandwich prima nel caffè e infine nella farina di cocco.

Consiglio di mangiare queste robine subito o quasi subito.
Io e la Spia le abbiamo finite in un paio di giorni, lasciandole in frigorifero: il sapore, ovviamente, ne ha guadagnato, ma gli amaretti si sono ammorbiditi. 
Scegliete voi.
Secondo la suocera si possono mettere in freezer. Onestamente non so. Ma se qualcuno ci dovesse provare, sarei curiosa di sapere com'è andata.

Enjoy!

lunedì 8 agosto 2011

La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa di Carla Pasquinelli

Sono una creatura profondamente domestica, una Penelope fatta e finita, ma ho scoperto di esserlo in tempi relativamente recenti, con una certa sorpresa.

Da giovani non fa fico affermare una cosa simile; da giovani si vuole essere tutti Ulisse, indipendentemente dal proprio sesso: passare per la Penelope della situazione può essere insultante e svilente come la peggiore delle offese.
D'altra parte penso sia giusto e sano che da fanciulli si sia attratti e incuriositi e innamorati soprattutto dell'altrove, del lontano, del diverso da sé e se ne vada in cerca, anche se questo significa tralasciare, trascurare, non vedere veramente ciò che invece è vicino, familiare, conosciuto, domestico.
Si avrà tempo, poi, eventualmente, per tornare, con occhi nuovi, a ri-conoscerlo.

Quando ero giovane (o diciamo più giovane di adesso!), qualunque cosa avesse un profumo vagamente "casalingo" e domestico suscitava in me reazioni claustrofobiche, se non di irritazione, disgusto, estraneità; nel migliore dei casi, un'assoluta indifferenza.

Poi mi sono ritrovata, gradualmente, a cambiare prospettiva ed ho capito di non avere alcun problema con la domesticità, con l'idea di "casa" in generale, ma solo con la casa dei miei genitori!

E così, in ognuno dei luoghi in cui ho abitato la mia vita da adulta - lasciata, cioè, la casa paterna - ho trovato e vissuto e coltivato amorevolmente e con enorme piacere e gioia quella che, ora lo so, è la mia dimensione più vera e più aderente al mio sentire: la domesticità, appunto, la casalinghitudine, per dirla con la Sereni.

Non potevo, dunque, non leggere questo breve saggio e non trovarlo, in molte sue pagine, interessante.
 
Carla Pasquinelli offre - spesso con garbo e leggerezza, il che non guasta - una riflessione multidisciplinare sull'idea della casa intesa come spazio fisico, certamente, architettonico, ma anche e soprattutto simbolico: della propria identità di invidivui, della propria appartenenza ad una determinata cultura, a uno specifico gruppo sociale etc etc.

Curiosi e per me molto interessanti certi confronti sull'idea di "casa" nelle varie culture, sul modo in cui concezioni filosofiche e religiose e culturali imprimano il loro marchio evidente e concreto sull'organizzazione dello spazio fisico in cui si articola la vita domestica e sull'idea (che può essere diversissima, da cultura a cultura) di "ordine" e "disordine".

Ogni tanto mi è parso che l'autrice partisse un po' per la tangente, per così dire, e scivolasse verso regioni teoriche in cui non mi sento mai troppo a mio agio e in cui, dunque, non l'ho seguita troppo volentieri: quelle in cui il discorso si fa un po' troppo astruso per i miei gusti e troppo infarcito di concetti e riferimenti culturali evidentemente al di là della mia portata (e mi pare che questa mia insofferenza a certi discorsi teorici aumenti con l'età, invece che diminuire; non dovrebbe essere il contrario? Non dovrei diventare sempre più saggia e colta e istruita? Pare proprio di no).

Ma nel complesso si è trattato di una lettura assai gradevole, non di rado divertente, e ricca di spunti di riflessione per me insoliti.

Carla Pasquinelli, La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa, Baldini Castoldi Dalai, 2009.


giovedì 4 agosto 2011

Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

Un po' come Giovanni Drogo, il tenente protagonista de Il deserto dei tartari, che aspetta tutta la vita l'inizio della sua vita vera, anche io ho aspettato tutti questi anni prima di leggere questo capolavoro.

Adesso che l'ho letto, so bene la ragione di questa lunga attesa, che pure non mi ero mai motivata.

Ci sono alcuni libri per i quali mi preparo da anni, nella convinzione di non esser pronta ad affrontarne la lettura, di non essere ancora matura abbastanza per avvicinarli: il primo che mi viene in mente è ovviamente La Recherche di Proust, ma la lista è lunga, lunghissima.

E ce ne sono altri che mi aspettano su uno scaffale della grande libreria della sala; pazienti, senza pretese,  attendono il loro turno. Anche per anni, anche per decenni, proprio come Il deserto dei tartari.

A prima vista non sembrano esserci ragioni particolari per cui un altro libro finisca sempre per esser scelto al posto loro; perché, quando la sera mi ritrovo davanti alla libreria e devo scegliere un nuovo libro da iniziare (un momento sempre bellissimo, eccitante, estatico; io adoro ogni inizio, ogni esordio, ogni principio), le mie dita finiscano sempre per estrarre un altro libro e non uno di loro.

Questo è stato, per circa 25 anni, il destino de Il deserto dei tartari
La vecchia copia della Oscar Mondadori, acquistata da mia sorella per la scuola, mi ha seguita in tutti i miei traslochi, è stata più volte presa in mano, soppesata, sfogliata e poi rimessa a posto.

Ma ora l'ho letta.
E ho capito perché abbia aspettato così tanto per farlo, perché abbia rimandato per tutti questi anni questo incontro.

Perché ho sempre avuto la netta sensazione, tutte le volte che il mio sguardo si posava su questo libro, che la sua lettura richiedesse la volontà di immergermi in una storia che parla molto anche di me, forse un po' di tutti; della tendenza a procrastinare, a cullarsi nella prospettiva (spesso illusoria) di una vita futura appagante e soddisfacente, a misura propria, alla quale ci si prepara per anni e che però non arriva mai, perché nulla si fa perché finalmente arrivi, perché è più facile e dolce (anche se a tratti può essere frustrante e paralizzante) immaginarla, anticiparla, prefigurarsela e pregustarla, rimanendo nella pura dimensione del possibile, rifiutandosi ostinatamente di tradurre tutti questi sogni e queste aspettative in azioni concrete, che finalmente diano sangue e carne a quel sogno, pur bellissimo, ma anodino e irreale.

Questo romanzo parla moltissimo di me, dei lunghi anni in cui sono stata affacciata dalla mia personale Fortezza Bastiani a scrutare la linea dell'orizzonte, gli occhi fissi verso il nord, verso quelle terre misteriose, inquietanti e insieme portatrici di qualche luminosa ma vaga promessa di appagamento e realizzazione futura.

Ora so perché ci ho messo 25 anni a leggere questo romanzo e perché, qualche sera fa, dopo tutti questi anni, sia arrivato finalmente il suo momento.
Perché c'è un momento per leggere certi libri, e se non lo si coglie quei libri rimangono muti e opachi, le loro parole non ci raggiungono, le loro immagini non ci parlano.

Ma quando lo si coglie, quel momento, ci si specchia in quelle pagine, ci si ritrova tali e quali e si è presi da una travolgente gratitudine nei confronti di chi le ha scritte, perché (forse lo sapeva, o forse no) sembra averle scritte proprio per noi, perché una notte d'agosto le leggessimo e leggendole capissimo, anzi, sentissimo, che quella storia è la nostra storia, o meglio, avrebbe potuto essere la nostra storia. 

Avremmo potuto essere come Giovanni Drogo, con la sua attesa sempre più rassegnata e patetica della vita vera, con la sua paura di mettersi alla prova con il mondo reale, nel timore di scoprirsi "un uomo comune, a cui per diritto non tocca che un mediocre destino" (ed io non penso che esistano destini mediocri e destini eccelsi, ma solo che esistano destini individuali, ognuno dei quali costruito giorno dopo giorno, con azioni, parole, scelte e decisioni individuali).

Avremmo potuto essere come Giovanni Drogo, se un giorno, tempo fa, non ricordiamo bene quando, non avessimo avuto il coraggio (e l' incoscienza, senz'altro; una benedetta incoscienza) di abbandonare la nostra fortezza Bastiani, e con essa fragili e vaghi sogni di gloria, per scendere finalmente a valle, verso la vita vera, con le sue opacità e le sue imperfezioni - le nostre opacità e imperfezioni, quelle che abbiamo voluto che avesse - ma tutta nostra e tutta permeata di realtà e concretezza, quella realtà e quella concretezza che abbiamo deciso che avesse.

E questo è il momento giusto di ricordarsene e di continuare a costruirla, questa realtà.
E di viverla, e di goderne.

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Oscar Mondadori 1981.