domenica 30 maggio 2010

Ninablu

Può essere assai imbarazzante ritrovarsi tra le mani un libro scritto da una persona che si conosce e alla quale si è legati da sentimenti affettuosi, soprattutto se esso è accompagnato da una frase come: "Tengo molto al tuo giudizio".

Nella mia vita mi sono trovata già alcune volte in questa situazione; mi vengono in mente almeno un paio di atroci occasioni nelle quali ho dovuto inventarmi qualcosa per esprimere la mia opinione nel modo più sincero ma anche rispettoso possibile.

Qualunque sia il valore artistico e letterario di un libro, non bisogna mai dimenticare che esso è prima di tutto il riflesso fedele di una dimensione molto intima, molto personale dell'autore: che il testo sia autobiografico o no non importa; esso è rimasto per mesi, per anni a volte, a sobbollire, decantare, rarefarsi o concentrarsi in quella fragilissima storta che è il mondo interiore di un essere umano che ha poi deciso di donare al mondo la sua personalissima creazione. Da questo punto di vista, ogni piccola o grande opera d'arte (e uso il termine nell' accezione più larga possibile, ma nei limiti della decenza e del buon gusto, per così dire) è, prima di tutto, un atto di coraggiosa generosità al quale si deve rispetto e, nei casi per noi più felici, gratitudine.

Ma per tornare a questo libro, quando Tiziana Rinaldi me lo ha inviato, ha pronunciato la fatidica frase di cui sopra ("Tengo molto al tuo giudizio"), invitandomi a leggere la sua Ninablu con il distacco e l'obiettività con cui avrei potuto leggere il libro di una sconosciuta (più facile a dirsi che a farsi) e a riferirle senza alcuna remora ogni possibile critica e appunto.

Non penso di aver mai potuto fingere con me stessa, neanche per un secondo, che Ninablu fosse opera di qualcun altro: c'è talmente tanto dell'autrice in questo racconto che è impossibile ignorarlo. E per fortuna: per chi voglia bene a questo folletto di donna avere tra le mani questa sua creatura, questo piccolo gioiello di poesia, tenerezza, bellezza, garbo e ironia, è una delizia assoluta.

Il libro, pensato per bambini, parla - senza alcun sentimentalismo e leziosità, e ne sia reso grazie all'autrice - dell'infanzia: un'infanzia felice, protetta e sostenuta dalla comprensione e dalla tenerezza degli adulti, e dunque un'infanzia libera, prima di tutto, e naturalmente curiosa, serenamente incosciente, generosamente aperta al nuovo e all'altro, accogliente e disponibile all'ascolto e all'incontro con il mondo esterno.

Un'infanzia cui tutti dovrebbero aver diritto, fatta di scoperte estatiche ed eccitanti in seno alla natura, di lunghe galoppate a briglie sciolte nei regni della fantasia e dell'immaginazione, di condivisione con gli altri delle proprie incursioni nel mondo, di un po' di quella cattiveria spietata ma senza malizia che c'è in tutti i bambini e anche di solitudine, quella solitudine cui anche i piccoli anelano, a volte, e che non è, ovviamente, quella crudelmente e scioccamente impostagli da adulti distratti e poco consapevoli dei loro bisogni, ma quella bellissima e sana, necessaria ad ogni essere umano, anche il più giovane, per maturare dentro di sé, dopo il generoso e gioioso movimento che lo ha portato nel mondo, la sua visione e la sua idea della realtà, per elaborare nella serena e silenziosa quiete del suo stupore, nell'infinita e caleidoscopica ricchezza della sua vita interiore, nuove visioni, nuove curiosità da soddisfare, nuovi modi di incontrare gli altri.

Lo stile del racconto è la trasposizione fedele e limpidissima dello stile pittorico dell'autrice (e bellissime sono anche le illustrazioni, spesso connotate dall'uso di tecniche miste e sempre da una scelta sottilmente elegante dei colori): buffo, tenero, a tratti stralunato e surreale, grondante magia, intelligenza, curiosità, umorismo, rispetto e attenzione per tutto, in primis per il mondo della natura in tutti i suoi aspetti, quelli più facili da amare (la sua bellezza, la sua generosità) e quelli che invece richiedono maggiore disponibilità e immaginazione per essere apprezzati (le sue tempeste, le sue furie improvvise e devastanti, i suoi ritmi oramai sempre più in contrasto con i nostri).

Il racconto ha l'andamento circolare, il tempo ora lento ora incalzante, delle stagioni: armoniosamente inserita in questa saggia e sempiterna dimensione, Ninablu vive libera di fare esperienza di ogni cosa colpisca la sua benedetta e sacra curiosità infantile, consapevole fin dal principio, pur essendo una bambina, che nella vita c'è posto per ogni cosa, che esiste un tempo per tutto e tutto è necessario: la bellezza come la paura, il riso come la malinconia, la presenza delle persone amate e la nostalgia per la loro assenza, la solitudine come la compagnia, lo splendore glorioso del sole e la pallida bellezza della luna, le
serene giornate estive e le notti fredde e in apparenza eterne dell'inverno.

E leggendo di lei, grati e incantati, ce ne ricordiamo anche noi.


Tiziana Rinaldi, Ninablu, Mammeonline, 2009.

domenica 23 maggio 2010

Del mistero dell'amore e di un crumble


Chi capita su questo blog, una tantum o con maggiore regolarità, si sarà accorto di sicuro di alcune cose, ("Per esempio che chi lo scrive è affetta da logorrea". L'avete sentito anche voi? Era la Spia che interloquiva dalla sala), per esempio, dicevo, che non si tratta propriamente di un blog di cucina.

Prima di tutto perché pare ormai essere una caratteristica pressoché irrinunciabile di qualsiasi blog di cucina la presenza di foto bellissime, che invece qui brillano tragicamente per la loro assenza; poi perché tutte le ricette qui presenti non sono frutto né della mia inventiva, né delle mie audaci esplorazioni gastronomiche ("L'altra sera ero stanca morta quando sono tornata dal lavoro e aprendo il frigorifero ci ho trovato soltanto un limone muffito, un vasetto di yogurt e una crosta di formaggio. Ma pensa che ti ripensa mi è venuta l'idea per una ricettina stuzzicante e facile facile etc. etc."), ma della mia passione per i libri di cucina, che amo collezionare come altre fanciulle collezionano scarpe, borse o spasimanti (io trovo già impegnativo conservarmene uno, figuriamoci una collezione).

Altra cosa che non sarà sfuggita è che assai di rado in questi lunghissimi post è possibile imbattersi in ricette di inaudita originalità. Anzi, tanto per dirla tutta, quelle che propongo qui sono tutte straviste e strasentite. Sono quelle che faccio nella mia vita di tutti i giorni, quando ho voglia di cucinare e quando ne ho meno, quando ho il frigo straripante di cose belle appena acquistate e quando invece è quasi vuoto perché non ho voglia di andare al supermercato.
Sono le ricette di una principiante che ha cominciato a cucinare da relativamente poco tempo e che cucina soprattutto per mangiare, e poi anche perché la cosa spesso e volentieri la diverte.

Ho scritto altrove dei miei disastrosi esordi come cuoca e delle mie deliranti e tragicomiche esperienze con il riso, anche se la prima cosa in assoluto che io abbia mai preparato per la Spia è stato un dolce.

Vivevamo insieme, da meno di un mese, nella nostra bella casina a Roma con il suo romantico giardino pensile profumato dai gelsomini rampicanti (e dai vapori di un ristorante cinese lì vicino, ma lasciamo perdere) e un pomeriggio ebbi la brillante idea di preparargli una bella merenda, in attesa che tornasse dall'ufficio.

Sapevo bene che il mio eroe ha quel che gli inglesi chiamano a sweet tooth, vale a dire un debole per i dolci, e dunque cominciai a pensare a quale fosse quello più facile da fare, vista la mia pressoché nulla abilità in cucina.

Dopo attente riflessioni, chiamai la mia mamma e mi feci dare la ricetta del suo crumble. Anche la cuoca analfabeta che ero aveva intuito che si trattava di qualcosa alla mia portata. L'intuizione era effettivamente buona: molti anni e molti crumbles dopo, ora mi sento di dire che avevo scelto la ricetta giusta per cimentarmi per la prima volta nella preparazione di un dolce.

Segnate diligentemente dosi e procedura, mi misi all'opera, probabilmente canticchiando e sospirando, anticipando già con la fantasia il momento in cui la Spia, dopo una dura giornata di lavoro, avrebbe aperto la porta di casa e sarebbe stato accolto da un invitante e delizioso profumo di frutta e pasta frolla dorata e avrebbe pensato che di fronte a sé, con grembiulino e sorriso di ordinanza, aveva la più soave e preziosa delle donne, la sua.

Ma la faccio breve (perché avrete senz'altro capito che c'è un colpo di scena, e non dei più felici).
Forse fu colpa della smemoratissima madre, forse la responsabilità fu dell'ignorantissima figlia, nessuno lo saprà mai, ma quella cosa che alla fine uscì dal forno chiaramente non era un crumble.

Era un oggetto misterioso e inquietante come i giganti dell'Isola di Pasqua, solo più pesante.

Sopra la frutta si stendeva, infatti, uno strato compatto e granuloso, apparentemente inscalfibile, di qualcosa che aveva la consistenza e il peso specifico del cemento armato.
Ormai era troppo tardi per prepararne un altro (e poi ero già sfinita dall'ansia di prestazione per potermi dedicare ad un'altra impresa simile), dunque la Spia tornò dall'ufficio e mi trovò seduta al tavolo della cucina, con davanti quell'oggetto enigmatico e sul viso un'espressione piuttosto avvilita.

Se racconto spesso questa storia (e chiedo scusa a chi l'ha sentita più e più volte) è perché quel giorno ho capito che la Spia è un uomo con tanti difetti e manie e nevrosi - e sicuramente in numero superiore alla media - al quale spesso e volentieri ho la tentazione di spaccare un intero servizio di piatti in testa (zuppiera e salsiera comprese), ma che è anche e soprattutto un uomo gentile.

Non solo si mostrò debitamente riconoscente del pensiero amorevole che avevo avuto nei suoi confronti; non solo non si scompose di fronte all'evidente difficoltà che presentava anche solo servire quel dolce (ci volle tutta la sua forza maschia per riuscire a 'scolpire' due porzioni da quel blocco granitico); non solo riuscì a mangiarsi quel che aveva nel piatto, ma trovò anche la faccia e la voce giuste per dirmi che sì, la consistenza del topping era effettivamente 'particolare', ma lo strato alla frutta era assolutamente delizioso, una delle cose più deliziose che avesse mai mangiato.

Per quanto mi sforzassi di credergli, non potei non giungere alla conclusione che quella roba, qualunque cosa fosse, era soprattutto una schifezza indifendibile che meritava di finire direttamente nella pattumiera. Mi dispiaceva enormemente aver per giunta sprecato farina, zucchero e burro per creare una tale mostruosità (e temevo molto che la Spia se ne dispiacesse, ché è uomo che odia gli sprechi).

A quel punto, con la sua voce pacata e gli occhi ridenti e affettuosi dietro gli occhiali, il mio eroe mi rincuorò e mi disse che non dovevo aver paura che quel crumble andasse sprecato, perché avremmo sempre potuto usarlo come fermaporta.

Lo disse con gentile, amorevole e bonaria ironia e all'inizio quasi non capii che si trattava di una battuta; mi limitai ad assentire distratta e contrita. Poi scoppiai in una di quelle risate che lasciano le persone che non mi conoscono bene (e a volte anche quelle che invece mi conoscono da una vita) piuttosto dubbiose e perplesse circa la mia sanità mentale.

Da quel giorno di dieci anni fa, preparare un crumble è per me qualcosa di più che preparare un crumble. È ritrovare quel momento, quello sguardo e quella voce. È capire che se in questa storia c'è qualcosa di realmente enigmatico e misterioso quanto i giganti dell'Isola di Pasqua non si tratta certamente di quella cosa uscita quel pomeriggio dal mio forno, ma del sentimento che periodicamente si rinnova e si rigenera, a dispetto di ogni appannamento e incertezza, e che mi lega a quest'uomo.
Ed ora basta con gli sdilinquimenti e parliamo di cose serie.

Della ricetta che segue, le dosi per il topping sono quelle di Home Cooking, di Rachel Allen; per la frutta, invece, di solito non seguo una ricetta precisa e improvviso molto in base a quella che ho (è anche un ottimo modo di utilizzarne di moribonda). Costante è invece l'uso dello zucchero di canna Mascobado del commercio equo e solidale e di abbondante cannella (più altre spezie) per condirla.

Crumble di pere e mele

2-3 pere (dipende dalla grandezza)
2-3 mele (come sopra)
3 cucchiai di zucchero Mascobado (ma assaggiate ed eventualmente aggiungetene un quarto)
2 cucchiaini di cannella
un pizzico di noce moscata, pepe nero, chiodi di garofano, cardamomo in polvere

per il topping:

75 gr. di burro tagliato a cubetti (tagliatelo a cubetti per davvero, anche se è un po' una rottura; vi faciliterà le cose poi)
150 gr. di farina
75 gr. di zucchero di canna leggero (io uso il Golden Caster del commercio equo)
[qualche altro ingrediente che in base al ghiribizzo del momento posso decidere all'ultimo minuto di aggiungere: 50 gr. di cioccolato fondente a scaglie, qualche mandorla o noce grossolanamente tagliata]

Preriscaldate il forno a 180° e imburrate appena una tortiera (io ne ho usata una rettangolare di ceramica 20 x 26).

Sbucciate e tagliate a dadi le mele e le pere. Mettetele in una terrina e conditele con lo zucchero e le spezie. Lasciatele lì per un attimo e dedicatevi al topping.

Mettete in un'altra terrina capace la farina e il burro e cominciate a mescolarli sfregando bene con la punta dei polpastrelli. Come è ben noto non bisogna esagerare con lo sfregamento: il burro non si deve sciogliere, ma amalgamare alla farina, creando un composto che abbia la consistenza di grosse e irregolari briciole (crumbs, appunto). Aggiungete anche lo zucchero e mescolate.

Versate la frutta condita con i suoi succhi nella tortiera imburrata (se volete usare anche la cioccolata e le noci o le mandorle distribuitecele sopra) e poi, aiutandovi con un cucchiaio, ricopritela con il topping. Vi sembrerà tantissimo e mi maledirete perché ve ne ho fatto preparare una tonnellata. Abbiate fiducia e schiacciatelo ben bene con il dorso del cucchiaio.

Fate cuocere per circa 35'-40', trascorsi i quali tirate fuori il crumble dal forno e osservatelo. Se vi appare pallido come una damigella di qualche secolo fa, accendete il grill e mettetecelo sotto per 5'-10': non lasciate incustodita la vostra damigella, vigilate su di lei come il più zelante degli chaperons.

Servitela (la damigella) incipriata di zucchero a velo (mai provato) oppure, opzione che preferisco, con panna appena appena montata o gelato alla crema.

Enjoy!

(P.S. Attendo l'arrivo delle albicocche per preparare il crumble con albicocche e mandorle del caro Stefano Arturi, che voglio fare da un po'. Ne riparleremo. Nel frattempo, se vi va, andate a dargli un'occhiata a pag. 145 del suo English Puddings, Guido Tommasi Editore, 2005.)

lunedì 17 maggio 2010

Di nuove amicizie, di una città molto amata e di alcuni bruttissimi biscotti al cioccolato


Questa primavera piovosa, timida ed anomala, oltre a far fiorire discorsi interessantissimi sugli autobus e nei supermercati (e tengo a precisare che non c'è alcuna sfumatura snobistica in queste parole, autobus e supermercati essendo 'luoghi' che frequento assiduamente), rimarrà alla storia nei miei personali annali come la primavera degli incontri con amici telematici. Dopo quello di cui ho parlato qui, infatti, ce ne sono stati altri due, altrettanto felici.

Il primo si è svolto a Bologna, città in cui parzialmente vive la deliziosa signora cui sono andata a dare un volto. Dico 'parzialmente' perché gran parte dell'anno ella lo trascorre in una bella capitale del Nord Europa a me molto cara poiché, le spiegavo, pur essendo una piccola città che vanta la non lusinghiera fama di essere tra i luoghi più piovosi e più noiosi al mondo, vi si sono incrociati i percorsi sentimentali di molti miei amici e dunque, di rimando, anche i miei.

Sto parlando di Bruxelles, luogo dunque a me dilettissimo e che, checché ne dicano in molti, mai ho trovato noioso (piovoso purtroppo sì). Una città dove si offici giornalmente il culto del cioccolato, delle moules e delle frites, e, soprattutto, delle librerie usate, non può che essere per me un luogo dello spirito, quasi una Mecca. E a parte ciò, è talmente ricca di stimoli intellettuali, culturali, artistici, musicali, architettonici e gastronomici che davvero non riesco a immaginare che cosa si possa volere di più (per di più la sua posizione strategica la rende luogo di partenza ideale per sfiziose gitarelle praticamente in qualunque direzione). Forse, davvero, solo un po' più di sole.

Detto ciò, qualche settimana fa, con la mia borsa da viaggio marrone, ho preso il treno e sono scesa a Bologna (dove pioveva!). Da lì, seguendo le indicazioni della mia ospite, a piedi mi sono diretta in centro, dove ella mi attendeva. Mi sono presentata con un mazzo di gemebondi tulipani di un incredibile rosa violaceo (sembravano molto più belli sul banco del fioraio che me li aveva venduti!) e con un pacchettino contenente dei biscotti al cioccolato (e dei sablés salati che però necessitano di qualche miglioria. Se ne riparlerà - se mai - in futuro).

Avevo trascorso la mattina a prepararli e a cuocerli, pregustando il momento in cui glieli avrei offerti, dicendo: "Questi sono per te!".
Mi vado sempre più convincendo che, nella maggior parte dei casi, cucinare con intenzione, amorevolezza e concentrazione ('con consapevolezza' direbbe la mia molto esoterica sorella), incida positivamente sul risultato finale e non solo perché quando si cucina in questo modo si è più attenti e si evita la tentazione di far le cose alla carlona prendendo scorciatoie non sempre felici, dettate dalla pigrizia e dall'impazienza (o dal poco tempo). Chiamatelo 'influsso positivo'. Una roba così.

Questi biscotti sono un mio cavallo di battaglia. Non sempre mi vengono alla perfezione: in genere la prima teglia la strino quasi sempre. Ma nella seconda aggiusto il tiro e il risultato è notevole.

Esteticamente non sono forse tra i biscotti più graziosi al mondo; mi ricordano un po' quei brutti ma buoni che ogni tanto mi comprava mia madre al forno del quartiere e che per me avrebbero potuto benissimo chiamarsi brutti e per giunta neanche tanto buoni.
Lei era convinta (non so in base a cosa) che io ne andassi pazza; quanto a me, ci ho messo anni per vincere la vergogna e l'imbarazzo che provavo anche solo all'idea di distruggere questa sua illusoria certezza e per dirle che grazie, per merenda preferivo mangiare una bella rosetta ripiena di tonno e dei suoi strepitosi carciofini sott'olio. Annovero quell'impresa tra le mie più coraggiose e meritorie.

Ma per tornare a questi biscotti, ovviamente quelli di Linda Collister (la ricetta è sua, presa da Chocolate Baking, ma la trovate anche in Cioccolato, della Luxury Books) sono molto ma molto più belli dei miei. Mi pare però di aver ribadito più volte che il lato estetico della mia cucina è davvero carente. Conto di migliorare con gli anni, ma per ora, pur crucciandomene, mi concentro sulla sostanza - a volte mi sembra già un gran risultato riuscire a non avvelenare i miei cari.

Se è vero dunque che quelli della mia infanzia erano i biscotti brutti e per giunta neanche tanto buoni, questi non possono che essere

i biscotti decisamente brutti ma molto molto buoni

(per una trentina/quarantina di biscotti)

115 gr. di burro a temperatura ambiente
85 gr. di zucchero di canna leggero (io ho usato il Dulcita del commercio equo e solidale, ma credo la prossima volta userò il Golden Caster, sempre del commercio equo e solidale, più chiaro e meno 'grezzo')
1 uovo, grande
60 gr. di farina autolievitante
½ cucchiaino di lievito per dolci
un pizzico di sale (non dimenticatevene, è fondamentale!)
½ cucchiaino di estratto di vaniglia
115 gr. di fiocchi di avena
175 gr. di cioccolato fondente, tagliuzzato ma non troppo

Preriscaldate il forno a 180° e foderate con la carta forno un paio di teglie (forse anche tre).

Lavorate il burro fino a ridurlo in crema, unitevi lo zucchero e proseguite a lavorare fino a quando il composto sia omogeneo (potete usare le fruste elettriche).

Aggiungete l'uovo e incorporatelo.

Unite la farina e il lievito setacciati, il pizzico di sale, l'estratto di vaniglia e i fiocchi d'avena.

Infine, il cioccolato.

Prelevate cucchiaini di composto (mi raccomando che siano cucchiaini davvero, perché questi biscotti hanno la tendenza a diventare enormi, quasi mostruosi, e a spetasciarsi tutti), disponeteli su una teglia foderata di carta da forno lasciando un generoso spazio tra l'uno e l'altro (per il motivo di cui sopra).

Cuocete per un tempo compreso tra i 12 e i 15 minuti, dice la ricetta. Questo il mio consiglio: puntate il timer a 6', trascorsi i quali aprite il forno, tirate fuori la teglia, rigiratela in modo da fuor cuocere i biscotti nel modo più uniforme possibile e poi vigilate, vigilate, vigilate.

Nel mio forno di Lusaka, dopo questa operazione bastavano 4' esatti perché i biscotti fossero perfettamente cotti (dunque 10' in totale). In questo forno di Firenze non ho ancora ben capito. Dovrebbero essere 4 ½' -5'.

Sembreranno fisime da maniaci, ma vi assicuro che non ci vuole nulla perché una teglia di biscotti profumati si trasformi in una teglia di biscotti carbonizzati, soprattutto se avrete lasciato il cioccolato a pezzetti consistenti (tende a bruciarsi con facilità). Il cioccolato sbruciacchiato è tremendo: per me personalmente è l'immagine stessa dello spreco e della catastrofe in cucina. Mi fa venir voglia di piangere e basta.

Quando avrete tolto definitivamente la teglia dal forno, lasciate raffreddare i biscotti per qualche minuto. Poi, con una spatola, disponeteli delicatamente su una gratella. Alcuni si sbricioleranno un po' (ed avrete così la splendida scusa di mangiarvene qualcuno).

Lasciateli raffreddare del tutto, poi conservateli in un barattolo con la chiusura ermetica (se ce la fate a conservarli; non è semplice resistergli, un po' come è difficile resistere a quei bruttoni fascinosissimi un po' sfigati, teneri ma ombrosi e che vi fanno ridere fino alle lacrime, tanto per rendere l'idea).

Enjoy!

lunedì 10 maggio 2010

Il mestiere di riflettere. Storie di traduttori e traduzioni

Da qualche anno collaboro con una casa editrice come traduttrice, la stessa casa editrice per la quale, più di dieci anni fa, ho fatto per un po' la correttrice di bozze, due lavori entrambi tragicamente sottopagati.

Per molti versi, può risultare comprensibile che la correzione delle bozze venga considerata tanto poco in termini retributivi: è un lavoro cui non si attribuisce alcuna valenza 'creativa' e, in quanto tale, rientra nell'ambito della bassa e bruta manovalanza editoriale.

Chi corregge un libro deve solo seguire regole precise, stabilite per convenzione e per lo più condivise dalla maggior parte delle case editrici. Deve dunque avere la conoscenza di queste norme (e una piccola dispensa allungata da un redattore in occasione del primo lavoro è in genere più che sufficiente a garantirla) e, ovviamente, un occhio allenato: su centinaia di pagine può sempre scappare una virgola eccentrica o una e corsiva che invece dovrebbe essere tonda.

Detto ciò, a me pare che sia comunque ingiusto non retribuire dignitosamente un lavoro che per molti versi è assolutamente alienante e provoca livelli di stanchezza fisica e mentale che solo chi lo ha svolto può comprendere.

Risulta, invece, meno comprensibile il motivo per cui anche il lavoro del traduttore sia tanto poco riconosciuto. Che nella traduzione, infatti, sia presente un forte elemento creativo, mi pare fuor di dubbio. Eppure, sono stati pubblicati libri su libri che indagano il rapporto ambiguo, sfuggente, complesso (traduttore-traditore è una vecchia espressione sempre tirata in ballo in questo contesto) tra il testo letterario originale, nato dalla mente, dalla sensibilità, dall'esperienza di un autore e quello in un certo senso 'nuovo', anche se generato da quello stesso testo, partorito invece dalla mente, dalla sensibilità e dell'esperienza di un traduttore, un essere umano, quasi sempre un filo nevrotico e spesso con spiccate tendenze eremitiche, che passa gran parte delle sue giornate solo come un cane, ossessionato dalle parole anche nel sonno, e la cui principale relazione, per mesi, è con un libro, un computer e svariate tonnellate di dizionari (i profani non immaginano di quanti tipi ne esistano).

Chi traduce narrativa (perché è di questo che si parla qui; la traduzione saggistica è, in parte, un'altra cosa e, anzi, tanto per sgombrare il campo di ogni possibile equivoco, chiarisco subito che io per ora ho tradotto solo testi di astrologia), chi traduce narrativa, dicevo, è davvero chiamato, a mio parere, ad assumersi responsabilità non da poco. Si fa mediatore e canale di trasmissione tra due mondi: quello dell'autore e quello di un pubblico che altrimenti non potrebbe leggere, godere, vivere libri scritti in idiomi stranieri e che resterebbe dunque tristemente all'oscuro dell'esistenza di testi meravigliosi e fondamentali.

Per questo fa tanta più rabbia ritrovarsi tra le mani libri tradotti in modo sciatto, superficiale, disattento, nati dal poco amore - in parte comprensibile - per un mestiere che invece, per quanto sottopagato e vilipeso, può davvero far molto per la diffusione della cultura e della passione per la lettura. Un testo tradotto e rivisto male (perché un libro mal tradotto che arriva in libreria è anche e soprattutto un libro mal rivisto, o rivisto con la stessa sciatteria, superficialità e disattenzione con cui è stato tradotto) nuoce a tutti: all'autore che l'ha scritto, che vede la sua creatura, partorita spesso con appassionato e doloroso accanimento, stravolta dal pressapochismo e dall'incuria altrui; al traduttore che lo traduce, che si priva della possibilità di redimere la fatica del suo mestiere nella bellezza e nel senso di umile orgoglio che può provare nel farsi prezioso mediatore e, soprattutto, al lettore che, a parte rari casi di assoluta insensibilità, invece di esser messo in condizione di avvicinarsi con piacere e con passione ad una nuova occasione di conoscenza e di bellezza e, prima di tutto, ad un altro essere umano (l'autore), ne viene brutalmente allontanato.

Da accanita e ossessiva lettrice (e da traduttrice), non dimentico mai il debito di gratitudine che porto ai tanti eremiti nevrotici che mi hanno permesso, negli anni, di leggere testi che altrimenti mi sarebbero rimasti ignoti. Anche perché spesso i traduttori sono anche i promotori di un libro: lo hanno letto, se ne sono innamorati, lo hanno proposto a qualche casa editrice e ne sono poi diventati traduttori. È grazie anche al loro amore per un libro e all'ostinazione con cui, spesso, se ne sono fatti padrini, a dispetto dell'indifferenza o dell'ignavia delle case editrici (soprattutto quando si tratta di testi coraggiosi, importanti), che anche noi veniamo presi da passione e da amore per quel libro. Uno splendido, e a volte assai faticoso, circolo virtuoso.

Il traduttore è chiamato dunque a svolgere un compito paradossale: in parte ricrea il testo, perché comunque lo fa rinascere in un idioma diverso da quello in cui è stato pensato e generato e per farlo attinge alla propria esperienza, non solo linguistica, ma anche personale, di vita; in parte, invece, si nasconde, si rende invisibile, si concentra tutto nell'ascolto della voce del 'suo' autore: cerca di ricrearla, di riprodurne la cadenza, il timbro, le particolarità, come un imitatore che di un personaggio studi la postura, il modo di camminare, i tic, gli intercalari, le espressioni tipiche.

Si tratta di un'operazione complessa, che richiede sensibilità, umiltà, disponibilità e una certa assenza di protagonismo. Un'operazione che può insegnare una nuova forma di rispetto e di attenzione: per un testo, in primis, ma anche e soprattutto per l'essere umano che a quel testo ha dato vita.
La traduzione è per me, oltre che un lavoro disperante e bellissimo che assai di rado e in modo del tutto discontinuo mi dà qualche soldo, soprattutto una disciplina quasi spirituale. Come dice Emanuela Bonacorsi (uno dei traduttori-autori di Il mestiere di riflettere): (...) basta una svista, un errore oppure un abbaglio, una stanchezza, un narcisismo per piegarsi a inseguire un vagheggiamento che non appartiene al testo, ed ecco perpetrato il tradimento.

Il mestiere di riflettere è una raccolta di brevi testi, a metà tra il saggio e il mémoir, scritti da alcuni noti traduttori italiani. Ognuno ha il suo stile, il suo taglio particolare: ironico, intimista, autobiografico, tecnico, meditabondo, astratto. Tutti hanno in comune questo tormentato interrogarsi su quel confine scivoloso e ambiguo che esiste, appunto, tra traduzione come operazione 'neutra' e traduzione come operazione, invece, 'creativa'. Tutti oscillano tra il desiderio di rivendicare il proprio personale, artistico contributo e il bisogno di riconoscersi strumento flessibile, il più possibile trasparente e non invasivo, della voce altrui.

Non tutti questi testi sono a mio parere interessanti; alcuni li ho anzi trovati privi, per me, di stimoli e spunti di riflessione. Ho amato invece, moltissimo, quello di Giuseppe Iacobaci, così personale e 'scoperto' e disarmato nel confessare senza mezzi termini la straniante miscela di insicurezza, paura, euforia, eccitazione e angoscia che ogni nuovo testo (soprattutto se molto amato) porta con sé.

A chi fosse interessato, per questioni professionali o di puro masochismo intellettuale, a leggere qualche altra riflessione 'dall'interno' sul mestiere della traduzione, sentirei invece di consigliare l'ottimo Gli autori invisibili di Ilide Carmignani, una raccolta di interviste a famosi e autorevoli traduttori italiani (ma anche a chi di traduzione si è occupato 'tangenzialmente' ma con maestria, come Claudio Magris o Cesare Cases).

Difficile dire, tra le molte interviste, quale io prediliga, ma quella a Delfina Vezzoli (traduttrice, tra le altre cose, dei romanzi di David Leavitt, di Underworld di Don De Lillo, de Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, tanto per citare alcune delle sue fatiche) è senz'altro tra le mie preferite.

Ai giovani che abbiano la pazza idea di diventare traduttori, la Vezzoli consiglia di farsela passare, prima di tutto.
Qualora però la passione, il sacro fuoco e la volontà masochistica di condannarsi ad una vita quasi di stenti siano superiori a qualunque considerazione razionale e pratica, bisognerebbe almeno che non si leggessero nel dettaglio i codicilli del contratto di traduzione perché "È un contratto di lavoro a cottimo, preindustriale: non fateci caso, altrimenti la tentazione di maciullare il testo invece di tradurlo potrebbe essere travolgente. La gente dell'editoria per fortuna è molto migliore dei contratti che stila".

Verissimo.
Secondo me è anche per questo che esistono ancora molti eremiti nevrotici sfruttati ai limiti dell'indecenza che amano appassionatamente questo mestieraccio infame e meraviglioso.


Autori Vari, Il mestiere di riflettere. Storie di traduttori e traduzioni, Azimut 2008.

Ilide Carmignani, Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria, Besa 2008.

lunedì 3 maggio 2010

La mia cucina, il lunedì mattina

La cara Wenny ci vizia settimanalmente con splendide foto del suo giardino fiorito.

Io non ambisco a tanta bellezza e perfezione, non ne ho i mezzi (la mia macchina fotografica va praticamente a pedali, io come fotografa faccio più che pietà e di giardini, qui, nemmeno l'ombra).

Però, quasi senza accorgermene, da qualche tempo ogni settimana mi ritrovo a comprare un mazzo di fiori.

Per anni non ne ho voluti. Il fidanzato che mi chiamava 'animista sincretica', avendomi un giorno omaggiata di un bellissimo mazzo di rose, si sentì dire che non mi piacevano i fiori recisi. Concluse filosoficamente che, dati i miei gusti, mi avrebbe fatto cosa più gradita regalandomi una dozzina di salsicce (e non aveva torto, tutto sommato).

È che per anni non ho potuto sopportare la malinconia che mi trasmettevano dei fiori che, per quanto bellissimi, sapevo comunque destinati prima ad un triste, ineludibile appassimento, poi alla pattumiera.

Forse perché sto invecchiando, forse perché ora i fiori me li compro da sola e la cosa mi dà tutta un'altra soddisfazione, adesso accetto di buon grado che anche loro, come tutto, prima o poi comincino a deteriorarsi e finiscano in ultimo per raggiungere le bucce di patate e i fondi del caffé nel contenitore dell'umido, pronti per nutrire altri fiori di là da sbocciare.

La bellezza e la serenità che mi trasmettono fino a quel momento valgono sicuramente il senso di lieve mestizia che mi prende quando per l'ultima volta li tolgo dal vaso.

Spero piacciano anche a voi quanto piacciono a me.

Enjoy!