domenica 28 giugno 2009

Della diversità di stile, o di alcune frittelle di zucchine e di un cheesecake al limone

Qualche sera fa, la Spia ed io abbiamo avuto a cena una coppia di amici che ci piacciono molto.

Erano mesi che pregustavamo questa cena, senza esagerare: i nostri amici sono persone impegnate e con due bei pargoli, dunque la loro è una vita complicata e 'a incastro', e anche una serata in compagnia necessita di un bel po' di organizzazione, senza contare che un raffreddore o un mal di pancia all'ultimo minuto possono far saltare un appuntamento preso anche con lauto anticipo.

Per l'occasione, ho preparato, tra le altre cose, un piatto che è un po' un mio cavallo di battaglia, una di quelle ricette che fai e rifai perché ti piacciono, in primis, e perché sono semplici e mettono d'accordo quasi sempre quasi tutti: le courgette fritters, o frittelle di zucchine, della Nigellona, che trovate in Forever Summer.

Per me sono ottime fatte almeno qualche ora prima di essere servite, e riscaldate dolcemente al forno per un po' prima di essere portate in tavola. Il giorno dopo, però, sono ancora più buone, anche e soprattutto a temperatura ambiente.

Per dessert, invece, ho provato il cheesecake al limone di Delia Smith, tratto dal suo Delia's Complete Cookery Course.

La Smith è una signora per certi versi inquietante, dall'età indefinibile, con una pettinatura rigida come se fosse fatta di cartapesta (quella che a casa mia si chiamerebbe, senza tanti giri di parole, "alla Playmobil") ed un sorriso tirato e molto poco spontaneo. Rappresenta un po' un'istituzione per le donne inglesi, perché ha insegnato a cucinare ad almeno due, se non tre, generazioni di figlie di Albione. Molte di loro hanno proprio questo libro (il più classico dei classici della Smith) nelle loro cucine; una delle mie insegnanti, la cara vecchia Jill, lo aveva ricevuto in regalo dalla futura suocera (e non aveva fatto mai neanche finta di sfogliarlo, teneva a precisare con una certa allegra e orgogliosa insolenza!)

Come mi ha fatto giustamente notare una volta il buon Stefano Arturi (grande e finissimo conoscitore di cuochi e cuoche e libri, oltre che di cucina), è meglio non affidarsi alla Smith se si vuole imparare a fare qualche piatto 'etnico' (che sia indiano, o thailandese o... italiano, sì), ma per certe preparazioni di base e per quella cucina che si può definire britannica, questa cuoca rappresenta ancora un punto fermo.

Nigella Lawson in cucina è estrema, priva molto spesso di qualsiasi finezza, con un debole ammesso con compiacimento per il kitsch e gli eccessi, e uno stile gastronomico sovente improvvisato e un po' 'alla Dio ti strafulmini' (altra espressione della mia famiglia): quando cucina straparla, ciancia per ore e con frasi barocche di consistenze e colori dei cibi, ammicca alla telecamera, indulge in amenità, lecca l'impasto dei muffins, ne versa metà sul tavolo, ne lascia un quarto nella terrina, si scompiglia tutta, si agita davanti al forno con il suo corpo ingombrante e giunonico, ripete sempre che non ha pazienza, che non ha manualità, che è goffa (in effetti, lo è).

Delia Smith, invece, è tutto l'opposto: misurata, calibrata, equilibrata, sempre perfetta. In una cucina asettica come una sala operatoria, probabilmente ricostruita in studio, con una finestra dalla quale si intravede un prato curatissimo e patinato, versa con precisione millimetrica l'impasto nella tortiera, pulisce diligentemente la terrina con l'apposita spatola, è algida, non ammicca a niente e a nessuno, si limita a sorridere quel tanto. Dà le dosi, gli ingredienti, spiega passo passo che cosa bisogna fare, lo mostra con diligenza, con pazienza, come una maestra con degli allievi un po' tonti.

Sono due stili completamente diversi. Sono due modi differenti di cucinare e di fare televisione. Entrambi, temo, artefatti, e frutto di una precisa scelta d'immagine e di marketing (figli, tra l'altro, di due diversi decenni).
Ma tant'è.
Accontentiamoci delle loro ricette. E' già tanto.

Ecco allora le frittelle di zucchine:

per 4 persone:

circa 400 gr. di zucchine
2-3 cipolline
125 gr. di feta
prezzemolo e menta freschi
1/2 cucchiaio di menta secca
1/2 cucchiaino di paprika
70 gr. di farina
sale e pepe
2 uova, leggermente sbattute
olio

Grattugiate le zucchine con la grattugia a 4 lati (io uso la parte fine), mettetele dentro un canovaccio, strizzatele in modo da eliminare quasi tutta l'acqua di vegetazione (non usate il vostro canovaccio preferito, se ne avete uno: io uso quello con su Cocco Bill, regalo della nonna Bice - la mitica nonna della Spia, con un sicuro e ineguagliato gusto, benché del tutto inconsapevole, per il kitsch e il trash, inesausta frequentatrice di mercatini rionali e discount).

In una terrina capiente tagliate a rondelle le cipolline, sbriciolate la feta, tagliate a striscioline il prezzemolo e la menta, aggiungete quella secca e la paprika, poi la farina e condite con sale e pepe. Unite poi le uova e infine le zucchine grattugiate.

Scaldate qualche cucchiaio di olio in una padellona bella capiente e versatevi cucchiaiate non troppo grandi di composto, schiacciandole un po' con una paletta, perché si assottiglino e cuociano meglio. Dovranno cuocere più o meno due minuti per lato, o finché non siano belle dorate. Servite con spicchi di limone, se volete.

Ed ecco, invece, il cheesecake:

per una tortiera a cerniera di 20 cm. di diametro, col fondo coperto da carta da forno e i lati leggermente unti (di burro o di olio)

per la base:

110 gr. di biscotti digestive, sbriciolati
50 gr. di burro fuso

per il ripieno:

350 gr. di formaggio fresco (tipo Philadelphia)
4 fogli di gelatina (più o meno 8 gr.)
2 tuorli
60 gr. di zucchero
buccia grattugiata e succo di 2 limoni
150 ml. di panna

Unite il burro fuso ai digestive, spalmate il composto sul fondo della tortiera, premendo bene con un cucchiaio e cercando di creare uno strato il più uniforme possibile. Mettete in frigo.

Seguite le istruzioni per l'utilizzo dei fogli di gelatina: in genere va messa per una decina di minuti in una ciotola con dell'acqua fredda. Poi la si strizza leggermente e la si mette in un pentolino, per farla sciogliere completamente a fuoco dolcissimo. Ho notato, però, che quella che ho usato io tendeva a solidificarsi di nuovo molto velocemente, quindi fate attenzione, aggiungetela al composto subito dopo averla resa liquida nel pentolino, versandola con un colino, in modo da evitare che eventuali grumi finiscano nella crema (sia mai).

Per la crema, giustappunto: io l'ho preparata nel robot da cucina.
Mettete nella coppa il formaggio fresco, le uova e lo zucchero e avviate il motore; poi aggiungete la buccia e il succo dei due limoni. Con il motore acceso, unite la gelatina (attraverso il colino). Montate la panna, non troppo: deve essere soda ma non rigida, ancora morbida ma con consistenza. Aggiungetela al composto e azionate per pochi secondi, giusto per amalgamare.
Versate sulla base di biscotti, coprite con la pellicola e rimettete in frigo per almeno 3 ore, dice la Smith.

Visto che quella sera faceva caldo, l'ho tirato fuori 5 minuti prima di servirlo.

Era perfetto e delicatissimo, e i nostri amici ne sono stati entusiasti. Anche se il lato estetico, come al solito, lasciava un po' a desiderare. Non so, i miei dolci vengono sempre un po' pericolanti, hanno sempre l'aria precaria, come se stessero per implodere o crollare o franare su un fianco da un momento all'altro.

Ne ho di strada da fare per avvicinarmi, anche minimamente, alla perfezione assoluta della Smith (non che ci tenga particolarmente, però, anzi...).

Enjoy!


Nigella Lawson, Forever Summer, Chatto & Windus, London 2002.

Delia Smith, Delia's Complete Cookery Course, BBC Books, London 2005 (1978)
.

martedì 23 giugno 2009

Una donna diversa di Anne Tyler

Mi trovo in grande difficoltà nello scrivere qualcosa su questo libro.
E' strano, perché ci sono tutti gli ingredienti tipici della Tyler che mi sono sempre piaciuti e che ho sempre considerato essere i suoi punti di forza e i motivi del fascino che la sua scrittura e il suo mondo esercitano sempre su di me.
C'è la storia di una grande famiglia di 'bizzarri', con i suoi tipi 'alla Tyler', un po' spostati, un po' folli, tutto sommati innocui, ma chiusi nella loro bolla, fondamentalmente dei disadattati alla vita, apparentemente incapaci di lasciarsi andare a qualunque emozione autentica e forte e ad uscire dal loro piccolo mondo autoreferenziale per entrare nella realtà degli altri (e chi lo fa davvero, o almeno tenta di farlo, è destinato a morire, o a vivere solo, a vivere una vita di stenti, a conoscere lo squallore, la miseria, o almeno l'incomprensione degli altri membri della famiglia, la distanza da loro, un garbato, sommesso, ma fermissimo ostracismo che tutto il clan, stringendo un patto silenzioso, decide di imporre a colui o colei che ha 'sfidato' la famiglia pretendendo di vivere a modo suo).
C'è una bella casa di famiglia, vecchia e un po' sgarrupata , dove si consumano quelle cene e quei pranzi complicati durante i quali, tra un discorso sul tempo e le solite banalità sui vicini, si comunicano notizie sgradevoli, si prendono decisioni impopolari, si creano conflitti, rotture, riappacificazioni...
C'è anche la storia d'amore lunga una vita, tra un uomo inquieto e gentile, brutale e distante, affettuoso e disarmante e la donna che lo ama anche se gli vorrebbe spaccare la faccia, che lo ama suo malgrado, con ostinazione, con la stessa, invariata intensità da quando ha 16 anni a quando ne ha 65 e oltre, nonostante lui la allontani dall'amatissima famiglia, la trascini per mezza America facendole fare una vita precaria in case squallide e transitorie, le impedisca di mettere radici e di sentire veramente suoi un luogo, una comunità, un gruppo di amici.
C'è la consueta attenzione discreta ma intensa per i sentimenti, la capacità dell'autrice di delineare, con poche parole, scenari sentimentali nei quali ognuno può riconoscersi.
Insomma, c'è tutto quello che dovrebbe esserci per piacermi.
Invece sono arrivata alla fine di questo romanzo con fatica, spesso reprimendo a stento sbadigli annoiati, con la sensazione sgradevole di non essere riuscita ad 'entrare' nella storia, senza sentire nessun trasporto emotivo per nessuno dei personaggi, nemmeno per Justine, la donna del titolo, che pure è tratteggiata con finezza ed è il genere di personaggio che trovo umanamente interessante.
Forse il problema di questo romanzo è che è troppo 'alla Tyler'. Sembra proprio che l'autrice, prima di scriverlo, si sia presa dieci minuti e si sia chiesta: "Vediamo un po', quali sono le caratteristiche principali che fanno dei miei romanzi i miei romanzi?" e, individuatole, le abbia tutte, ma proprio tutte, coscienziosamente riproposte in questo.
C'è una generale sensazione di inautenticità, ecco, di artificiosità, di creazione fatta col famoso bilancino: un po' di questo, un po' di quello, che non manchi niente alla ricetta.
E' questa ruffianeria (ma elegante, nient'affatto sfacciata, anch'essa 'alla Tyler') che mi ha impedito di godermi il romanzo e mi ha lasciato, alla fine, con la sensazione spiacevole di aver perso tempo: qualcosa che non bisognerebbe mai ritrovarsi a provare, quando si parla di libri.

Anne Tyler, Una donna diversa, Ugo Guanda Editore, Parma 2006. Traduzione di Laura Pignatti

martedì 16 giugno 2009

Del cantare troppo presto vittoria. Una doverosa postilla

Moby Dick mi ha beffata ancora...

Le croccanti meringhe di ieri, stamane, appena infilate in bocca, si sono trasformate in enormi, gommose caramellone...

Forse ho tardato troppo a riporle in un barattolo sottovuoto, esponendole al calore e all'umidità mentre con la macchina fotografica immortalavo, insieme a loro, la mia ingenua presunzione di esser venuta finalmente a capo di questa caccia infinita?

O la pecca sta da qualche altra parte?

Me lo aspettavo, però...

Di nuovo in caccia.

lunedì 15 giugno 2009

Del raccogliere le sfide, dell'infanzia perduta, o delle meringhe


In cucina ognuno ha la sua Moby Dick. Una ricetta che ci elude, ci sfugge, che continuiamo a riprodurre senza mai riuscire ad ottenere realmente il risultato cui aspiriamo, con cui intratteniamo uno strano rapporto fatto di desiderio e anche di rancore.

Non importa quanto bene ci vengano altre cose, magari ben più complicate.
Il ricordo di altre soddisfazioni non aiuta a dimenticare che invece, confrontati per l'ennesima volta con l'ennesimo tentativo di riuscire, si è fallito miseramente, come sempre.

Invano si consultano spasmodicamente tutti i libri di cucina di cui si dispone; si interrogano la mamma, le zie, la nonna, la migliore amica, la vicina di casa, la panettiera, la signora seduta accanto a noi dal parrucchiere, cercando di carpire i loro segreti, i loro trucchi infallibili, nello sforzo di comprendere dove sbagliamo, dov'è che si crea il guasto, qual è il punto in cui deviamo dalla retta via, magari senza accorgercene. Ed è doppiamente frustrante, poi, dopo esserci illusi di aver finalmente capito la natura del nostro errore, evitarlo e ritrovarci, ancora una volta, davanti ad un disastro, magari diverso, ma altrettanto umiliante.

Per anni, la mia Moby Dick sono state le meringhe.

Premetto che non ci faccio follie, neanche per quelle perfette della mia mamma, un capolavoro di ingegneria culinaria, se così posso dire. Perfette cupolette tutte uguali con in cima un aggraziato ricciolo, leggere come piume, farinose il giusto, sempre di una straordinaria, elegantissima e severa sfumatura avorio, come il raffinato, sobrio abito da sposa di una grande sartoria del centro.

Ricordo che le faceva, da casalinga accorta e costretta da un bilancio familiare sempre al limite della precarietà ad evitare come la peste qualunque forma di spreco, quando le avanzavano le chiare dopo aver usato i tuorli per fare la pasta all'uovo.
Le montava con le sue fruste Moulinex acquistate subito dopo sposata, e tutta la cucina odorava di zucchero vanigliato (l'odore che più associo alla mia mamma, insieme a quello della buccia del limone che usava per profumare la crema).

Io ero lì, accanto a lei, seduta sulla sediolina di paglia e legno dove tutti noi fratelli ci siamo seduti, posto cui aveva diritto chi aveva l'onore, la sera dopo cena, di macinare il caffè in chicchi acquistato alla torrefazione Sant'Eustachio, usando il macinino in legno della nonna Olga (in questo consisteva l'onore).
Era mia madre a decidere a chi toccasse ogni sera di sedersi lì, con le ginocchia a stringere il macinino, facendo attenzione a non pizzicarsi la morbida carne delle cosce tra la sedia e il fondo del bell'oggetto appartenuto alla nonna.

Ero lì, in realtà poco interessata a ciò che mia madre faceva, ma desiderosa di approfittare di un'occasione rara: quando montava le chiare, per un momento lei si fermava e ci si poteva parlare un po'; altrimenti era sempre un muoversi indaffarato per tutta casa: impossibile farci il benché minimo discorso, attrarre per non più di un minuto la sua attenzione.

Il mio incaponirmi nel tentativo di riprodurre quelle meravigliose meringhe materne risale esclusivamente a questa sensazione di precaria ma intensa intimità con lei (arrivava poi sempre qualcuno o qualcosa ad interromperla).
Si cucina anche e soprattutto per ritrovare un'atmosfera, un sentimento, una persona amata, oltre che un gusto e un aroma. Almeno questo è valido per me.

Negli anni la mia testardaggine ha prodotto risultati che non esiterei a definire interessanti: c'è stata quella volta in cui le meringhe si sono fuse nel forno fino a creare un unico, sottile strato di materia gommosa e opalescente, che ricordava in modo inquietante gli orologi di Dalì; un'altra, invece, sono collassate su loro stesse, rompendosi tutte lungo una stessa linea di frattura, più o meno a 1/3 della loro altezza; poi è stata la volta delle meringhe fatte di cristallo, bellissime a vedersi ma impossibili a mangiarsi: non appena le ho sollevate con ogni precauzione dalla teglia mi si sono sbriciolate trasformandosi in una polvere beige madreperlata; e di quelle che fuori erano quasi brune e dentro praticamente crude, ancora collose di bianco d'uovo.

Ma oggi, proprio come la mia mamma e come tutte le casalinghe assennate, per utilizzare delle chiare (avanzo di un gelato alla crema di cui parlerò prossimamente), mi sono di nuovo cimentata e, stranamente, sono emersa dall'ennesima sfida soddisfatta.

Certo, sulla superficie di molte appaiono buchini vari, e non ho ancora capito se mi piaccia la consistenza chewy, come dicono gli inglesi, leggermente gommosa che hanno (voluta e desiderata, vista l'aggiunta dell'aceto e della maizena); probabilmente preferisco quella farinosa ma asciutta delle meringhe materne. Ma nell'attesa (forse eterna) di giungere a quei livelli di perfezione, mi pare che quello di oggi sia un ottimo risultato, raggiunto senza troppi patemi.
Non vedo l'ora di chiamare stasera la mia mamma per raccontarle, trionfante, della mia impresa.

Ovviamente l'uso della siringa con la quale produrre quei serici e lucidi mucchietti di glassa è qualcosa che ogni volta mi fa quasi perdere il lume della ragione, ma non sono l'unica ad avere un rapporto quanto meno conflittuale (per non dire nevrotico) con questo accessorio da cucina: una cuoca grandissima come Sophie Grigson preferisce, per i miei stessi motivi, utilizzare due cucchiai da minestra, che impegna in una sorta di coreografia, modellando la meringa fino a creare delle forme perfette, leggermente allungate. Non possedendo, ahimé, altrettanta manualità, opto sempre per il male (si fa per dire) minore e combatto la mia piccola battaglia con la siringa.

Di solito finisco per spalmare meringa un po' ovunque, dal piano della cucina ai vicini fornelli, dal grembiule ai capelli agli occhiali, e a spararne parte anche sui muri (e una volta anche su un gatto di passaggio, la golosissima Linda che, lungi dal sentirsene offesa, si è leccata ringraziandomi con sonori ron ron).

Anche oggi non sono stata da meno. Alla fine avevo le mani appiccicose e sporche e la cucina era un delirio, ma sulle due placche da forno erano disposti dei graziosi affarini, alcuni dei quali effettivamente somiglianti a delle meringhe.

La ricetta di oggi l'ho presa da Modern Classics Book 2 di Donna Hay, di cui vi ho parlato anche qui. Personalmente la trovo un'altra conferma (per altro per me superflua) dell'affidabilità delle sue ricette.

per circa 45 meringhe:

4 chiare d'uovo (150 ml) (la Hay consiglia di misurarle accuratamente cosa che, secondo lei, assicura la perfetta riuscita della meringa)
225 gr. di zucchero (io ho usato un bellissimo zucchero di canna, fine e dorato, del commercio equo e solidale)
2 cucchiaini di maizena
1 cucchiaino di aceto bianco (io ho usato dell'aceto di mele)

Preriscaldate il forno a 150°.
In una ciotola perfettamente pulita e asciutta cominciate a montare con le fruste le chiare d'uovo (cui si può aggiungere il tradizionale pizzico di sale) e continuate fino a quando non siano 'a neve ferma'.

Aggiungete poi gradualmente lo zucchero, sempre montando con le fruste, piano piano, senza fretta. Intrattenetevi in solitarie meditazioni o mentali colloqui con la vostra mamma nel frattempo (o con chi volete), non abbiate premura.

Quando tutto lo zucchero sarà stato incorporato perfettamente, aggiungete i due cucchiaini di maizena e quello di aceto e date un'ultima montata con le fruste, perché tutto sia amalgamato.

Foderate due leccarde con carta da forno e disponetevi mentalmente alla creazione delle meringhe: utilizzate la siringa o i due cucchiai. Scegliete voi di che morte morire. Se invece vi piace dedicarvi a questo genere di attività, godetevi l'istante, rifinite ogni meringa come se foste un ebanista: la vostra cura e la vostra attenzione non potranno che giovare al risultato finale.

Mettete nel forno ventilato per circa 30', trascorsi i quali spegnete tutto, lasciando dentro le meringhe, fino a quando non siano completamente asciutte.

Mangiatele appaiate e 'cementate' da una ganache al cioccolato, sbriciolatene alcune in una tazzina di gelato, fatene un sol boccone con un bel ciuffo di panna montata sopra, oppure gustatevele da sole, nature.

Qualunque sia la vostra scelta, mentre assaporate l'esterno croccante e leggerissimo che rivela poi l'interno morbido, zuccherino e leggermente gommoso, sentitevi avvolti dalle materne attenzioni cui ogni essere umano ha diritto, le uniche cui possiate sempre e ragionevolmente aspirare: quelle che scegliete di concedere a voi stessi.

Enjoy!

domenica 14 giugno 2009

Truciolo di Sándor Márai

Ho letto anni fa questo libro, prestatomi da una conoscente, e ne serbavo un bel ricordo. Quando l'ho visto in biblioteca non ho resistito alla tentazione di rileggerlo e non sono stata delusa.

La storia di questo cagnetto bastardo, goffo e scordinato, impulsivo e passionale, e del suo avvicinarsi al mondo, degli umani e non solo, è raccontata con grande e finissima ironia, con partecipazione, tenerezza e non un filo di sentimentalismo (facilissimo caderci dentro con tutte le scarpe quando si sceglie come proprio soggetto un batuffolo di bastardino che all'inizio della storia è così piccolo da entrare nella tasca di un cappotto).

Molti sono gli spunti intelligenti e stimolanti offerti al lettore, che lo inducono a riflettere sul rapporto con il mondo animale con cui molti di noi condividono la quotidianità, sul rischio che il nostro amore, sincero sì, ma spesso ottusamente insensibile e cieco alla reale essenza di questo mondo, lo snaturi e lo condanni ad una particolare forma di schiavitù, fatta di prigioni dorate, istinti addomesticati, sottili e spesso inconsapevoli prevaricazioni.

Chiunque viva con un animale in casa sa che genere di intensi, appassionati rapporti affettivi si sviluppino con esso, e quanto però sia facile, da parte nostra, abusare della nostra superiorità e 'costringerlo' a ripudiare in parte la propria natura, in nome dell'amore esclusivo e incondizionato che spesso prova per noi e del bisogno che ha delle nostre cure.

Il protagonista di questa storia, Truciolo, è un cane impetuoso, vivacissimo e curioso, che manifesta il suo entusiasmo per il mondo in modi spesso scomposti e inconsulti; ama appassionatamente il suo padrone, ma si rifiuta di abdicare alla propria 'diversità' e 'animalità', si ribella al tentativo umano di ridurlo ad una versione addomesticata e più gestibile di se stesso.

Si vorrebbe far qualcosa perché la storia non si avvii alla sua naturale conclusione, si vorrebbe intervenire nella scena, terribile e risolutiva, in cui tutti i nodi vengono al pettine e uomo e animale si affrontano, prendendo atto, con rabbia, della reciproca e ineluttabile incapacità di comprendersi e accettarsi realmente per quello che sono.

Invece si assiste impotenti all'unica fine possibile, sostenuti dall'asciutta commozione che l'autore riesce a trasmettere con incredibile maestrìa.

Una delle frasi più belle, a mio avviso, è proprio nell'ultima pagina:

"(...) non amiamo tanto ciò che è bello, buono e virtuoso, ma piuttosto tutto ciò che è represso, imperfetto, irrequieto, e che protesta digrignando i denti - tutto ciò che non è virtù e accondiscendenza, ma è invece imperfezione e ribellione".


Sándor Márai, Truciolo, Adelphi Edizioni, Milano 2002. Traduzione di Laura Sgarioto e Krisztina Sándor


venerdì 12 giugno 2009

Della consolazione, del cogliere le occasioni, o di un'altra tarte tatin (alle melanzane)


Per fortuna che è finalmente arrivata la cosiddetta bella stagione. E che comincia ad essere facile e assai soddisfacente nutrirsi di sole verdure. Talmente facile e talmente soddisfacente che ritengo un delitto non approfittare tutti i giorni di questa bella abbondanza.

So di essere in controtendenza, ma a me la carne piace proprio tanto. La consumo al massimo due volte alla settimana, però mi devo controllare, mi devo ripetere a mo' di mantra che è meglio mangiarsi un bel piattone di biete con olio e limone piuttosto che un pollo arrosto o un'arista di maiale.

In estate, però, la cosa è diversa. La varietà delle verdure presenti è tale e tanta che bisogna proprio essere degli incontentabili rompiballe per non trovare qualcosa che soddisfi in pieno i propri appetiti. E la carne riesco a dimenticarmela anche per giorni e giorni, senza sentirmi deprivata o, peggio ancora, senza sentire che in fondo sto optando per pasti di 'seconda scelta', per così dire.

Una delle mie cene preferite, in estate, è una tegliona di verdure miste al forno (peperoni, cipolle, melanzane, patate, zucchine e pomodori) accompagnate da un semplicissimo cous cous; o ancora un piatto di peperoni in padella con un pezzetto di formaggio o anche solo del buon pane; zucchine trifolate con mozzarella di bufala; e che dire dell'intramontabile caprese? Cinque minuti netti e ci si conquista, a prezzi assai modici, un po' di felicità e di consolazione necessarie ad affrontare le molte brutture di questi tempi per molti versi avvilenti in cui ci tocca vivere.

Qualche giorno fa, in preda all'entusiasmo per la tatin al pomodoro, ho provato un'altra ricetta simile, che però utilizza le melanzane. L'ho trovata su un vecchio numero di Marie Claire idées un trimestrale di cucito, maglia e lavori manuali che trovo assolutamente irresistibile (utile anche per rispolverare il mio sempre agonizzante francese), le cui pagine traboccano letteralmente di quella eleganza apparentemente un po' surreale e inconsapevole (in realtà, sospetto, studiatissima e perseguita con razionale tenacia) che io associo automaticamente allo spirito d'oltralpe (insieme a tante altre e svariate caratteristiche, ai miei occhi non sempre particolarmente appetibili; ma questa, come si suol dire, è un'altra storia...).

La prima volta, seguendo la ricetta, ho utilizzato un rotolo di pasta sfoglia comprato al supermercato (non credo mi cimenterò mai nella sua realizzazione a mano, a meno che non decida di applicarmici come ad una forma di esercizio spirituale o di meditazione); la seconda ho invece preparato la pasta brisée già utilizzata per la tatin al pomodoro (per prepararla guardate qui) . In entrambi i casi il risultato è stato ottimo. Scegliete voi. Le prime due foto sono della prima tatin con pasta sfoglia, la terza è dell'esperimento con la brisée (l'occasione per papparsela è stata un'altra riunione organizzativo-godereccia del nostro GAS).

Ecco qui la ricetta, leggermente diversa dall'originale, per una tortiera di più o meno 30 cm. di diametro:

3 melanzane (io ho usato quelle lunghe, non quelle cosiddette 'globose', più tondeggianti e ciccione)
1 spicchio d'aglio
succo di limone
pomodori secchi sott'olio
50 gr. di pinoli, tostati due minuti in padella
rosmarino o timo
4 cucchiai di olio di oliva
1 cucchiaio di zucchero di canna scuro
1 rotolo di pasta sfoglia o pasta brisée.

Se decidete di usare la pasta brisée, fatela e mettetela in frigorifero.

Intanto occupatevi delle melanzane.

Lavatele, tagliatele e a fette spesse più o meno un centimetro, mettetele in un colapasta con del sale grosso e lasciatele 'spurgare' (termine orrendo) per una mezz'oretta, trascorsa la quale lavatele appena (non le inzuppate, però: usate pochissima acqua e aiutatevi con le dita per rimuovere i grani di sale), asciugatele con dello scottex o un canovaccio pulito.

In una bella padellona mettete i 4 cucchiai di olio, l'aglio tagliato a fettine sottili sottili: quando ne sentite il profumo (celestiale), aggiungete le melanzane, sale e pepe e un po' di succo di limone (non esagerate: secondo la ricetta originale bisognava aggiungere il succo di mezzo limone: io l'ho fatto la prima volta e sia io sia la Spia abbiamo avuto l'impressione che, mangiando la torta, le gengive ci si ritirassero dai denti; basta molto ma molto meno, giusto per dare un'idea di limone, regolatevi voi). Quando le melanzane sono diventate trasparenti e leggermente dorate, trasferitele in un piatto e lasciatele lì.

Intanto tirate fuori la pasta brisée (o la sfoglia) e la vostra tortiera. Ungete quest'ultima con un cucchiaino di olio, spolveratela di rosmarino o timo, aggiungete qualche pomodoro secco sott'olio sgocciolato tagliato a pezzetti con un paio di forbici (anche qui, regolatevi voi: io li adoro e tendo sempre ad usarne con magnanimità, ma tenete presente che se usate quelli secchi e molto saporiti rischiate di sentire solo loro; se invece ne usate di semi secchi e dal sapore più blando potete anche esagerare un po' come faccio io), poi i pinoli e lo zucchero di canna.

Indi cominciate a disporre le fette di melanzane seguendo un disegno concentrico. E' un lavoro meno alienante di quello da fare con i pomodorini della tarte tatin, dunque se ne può apprezzare la rilassante metodicità e monotonia (almeno, io la apprezzo: metto il pilota automatico e per qualche minuto mi astraggo nei miei deliri). Infine, coprite con la pasta, 'rimboccandone' ben bene il bordo in eccesso, ripiegandolo e comprimendolo un po'.

Se usate la pasta brisée, mettete nel forno preriscaldato a 180 gradi per 30'-40' (la pasta deve essere bella dorata); se usate quella sfoglia, il forno è meglio metterlo a 190 gradi e bisognerà attendere circa 25' (ma queste, come al solito, sono indicazioni di massima: i forni sono creature bizzarre e assolutamente uniche e singolari): anche la sfoglia dovrà essere di un bel dorato intenso e piuttosto gonfia.

Tirate fuori dal forno, lasciate raffreddare un po' la tortiera, poi, con fare deciso e disinvolto, oplà!, rovesciate la tatin sul piatto di portata e servite. In realtà, come molte torte rustiche, questa è assai più buona il giorno dopo, riscaldata in forno perché la pasta (sia brisée sia sfoglia) riprenda un po' di croccantezza. Anche se la volete mangiare subito dopo averla fatta, vi consiglio di attendere una decina di minuti: la pasta forse sarà leggermente più morbida, ma il sapore ne avrà certamente guadagnato.

Enjoy!

(Sei contenta Rita?? :-)

mercoledì 10 giugno 2009

Carnet de correspondences di Julie Andrieu

In teoria, questo è il libro di cucina che cercavo da anni e che ho trovato in una splendida libreria di Bruxelles, Tropismes (qui il link al loro sito) durante la mia recente e bella vacanza in terra belga.

In pratica, non lo so, perché l'ho acquistato da poco e non ho sperimentato nessuna delle ricette presenti.

E' un libro dove diversi alimenti vengono presentati in ordine alfabetico e per ognuno di essi vengono indicati possibili 'accordi di gusto': quale spezia va bene con il salmone fresco? Quale frutto abbinare ai fagiolini? Sta bene lo zafferano con le cozze? e via così.

A prima (distratta) lettura, il libro, che propone anche alcune ricette a esempio degli abbinamenti proposti, sembrerebbe molto ben fatto.

Rimane ovviamente il dubbio: ma se questa Julie Andrieu ha dei gusti allucinanti e le piace mangiare un'insalata di fagiolini verdi e pesche con mandorle e menta che invece fa raccapricciare i miei ospiti (ma che a me pare ottima, detto per inciso)?

Il rischio sembrerebbe scongiurato dal fatto che la Andrieu (in Italia ancora poco conosciuta, ma presto verrà tradotta per i tipi della Guido Tommasi) sa quel che dice, in genere (per es. il suo La cuisine expliquée à ma mère io lo trovo davvero ottimo, pieno di idee e di ricette).

Per me, che amo spignattare ma sono una dilettante, qualunque sia l'effettiva utilità delle indicazioni proposte, la lettura di questo libro rimane comunque una bella opportunità per una delle mie attività preferite: starmene sul divano a fantasticare di possibili ricette e relativi banchetti.


Julie Andrieu, Carnet de correspondences. Mes accords de goûts, Agnès Viénot Editions, Paris 2009.

lunedì 8 giugno 2009

Non vi lascerò orfani di Daria Bignardi

A me Daria Bignardi piace, in generale.
Non è Miss Simpatia, è vero, ha una voce a volte stridula e sgraziata ('voce di gallina', la prendevano in giro la mamma e la sorella quando si arrabbiava da piccola), però a me il suo modo un po' ruvido di fare non dispiace affatto. Lo preferisco (e di gran lunga) agli atteggiamenti ridondanti melassa e idiozia che spesso dilagano nella televisione cosiddetta di intrattenimento, per non parlare della volgarità imperante che ci viene rovesciata addosso quotidianamente. E poi la trovo intelligente e arguta, sgradevole, alle volte, ma anche tenera, benché di sfuggita e suo malgrado, come se non le andasse troppo ma non ne potesse fare a meno.
A me piace per questo. E poi perché sta al suo posto, non fa programmi che dovrebbero essere una certa cosa e invece per mancanza di idee, di attenzione, di cura risultano essere la bruttissima, la pessima copia di qualcos'altro cui aspirano senza avere il respiro, la forza, la passione per arrivarci.
Mi sono sempre piaciuti i libri autobiografici, i mémoir che parlano di famiglie, case, nonni, cugini, vacanze estive, dimore avite, fidanzati e mariti, tic, manie, modi di dire, espressioni tipiche che diventano col tempo quel 'lessico famigliare' che fa subito 'clan', che identifica chi lo usa come appartenente alla stessa galassia emotiva e sentimentale. Dunque questo Non vi lascerò orfani mi ha incuriosito subito, e quando l'ho trovato in biblioteca l'ho preso volentieri.
Nel complesso, si tratta di una lettura piacevole e a tratti decisamente divertente, condita spesso di ironia e di ruvido, burbero affetto, di pudico e intenso tormento per questo rapporto con una mamma amatissima ma il cui amore è stato pesante come un macigno.
E' un libro scritto col cuore, con grande tenerezza e nostalgia, si sente subito, con sincerità: tutti pregi, ai miei occhi. Ma è anche esile esile (e non parlo del numero delle pagine): si arriva all'ultima pagina immersi in una pacata malinconia, ma anche leggermente insoddisfatti, non del tutto appagati, ancora affamati, e tra le dita ci si ritrova poco, come se per tutto il tempo si fossero soltanto sfiorati fantasmi (e forse è proprio ciò che la Bignardi voleva, bisognerebbe chiederglielo).
Altra pecca, ai miei occhi, è che a volte lo stile di questo libro è davvero un po' troppo disinvolto, tanto da sembrare che l'autrice non l'abbia neanche riletto e l'abbia mandato in stampa così, 'senza guardare', proprio come la sua mamma faceva l'arrosto (che tra l'altro, a quanto pare, le veniva benissimo, proprio perché fatto senza star lì a penarci troppo).
Insomma, un esordio promettente. Con ampi margini di miglioramento.

Daria Bignardi, Non vi lascerò orfani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2009.