lunedì 28 febbraio 2011

Che cosa combino nella stanza accanto: esperimenti con il rame



Di solito, se mi è possibile, preferisco dedicare le mattine ai lavori di tipo intellettuale (una parola grossa, nel mio caso, ma insomma, come si dice a Roma "famo a capisse").

Se ho qualche libro da tradurre o da leggere e studiare, è in genere di mattina che lavoro con più concentrazione e con migliori risultati.

Nel pomeriggio, invece, sento di aver bisogno non solo di far riposare i già affaticati e sparuti neuroni, ma anche di usare le mani e se non cucino (fare i cosiddetti lavori di casa è raramente un'opzione che contemplo, ahimé) passo qualche ora a lavorare con perle e perline.

Ho la fortuna di avere a disposizione due spazi ben distinti: uno studio con libri, dizionari, computer e tutto quello che può servirmi per leggere, scrivere e studiare e una stanza dove invece posso dedicarmi ai lavori manuali.

In questa stanza, negli ultimi tempi sto facendo esperimenti con il filo di rame.

Mi piacciono le sue diverse sfumature: quella brillante e aranciata che ha naturalmente e quella opaca e più scura che si ottiene semplicemente avvicinandolo a una fonte di calore (nel mio caso, il fornello della cucina) e poi usando, con mano leggera e senza troppe pretese di perfezione, della finissima carta vetrata.

Tra l'altro mi pare che in quest'ultima versione stia bene con praticamente quasi ogni colore.

Sento già che sto per piombare allegramente nel meraviglioso gorgo di una nuova ossessione...

Potete trovare questi ed altri miei esperimenti nel mio shop, proprio qui

domenica 27 febbraio 2011

Sunday Music: The Greatest - Cat Power

Io non credo sia esagerato dire che per certi artisti si può provare un sentimento di gratitudine.

Ci sono certi libri, certe immagini nate dalla fantasia, dal dolore, o dalla gioia di altri, che - lo ripeto, non è un'esagerazione - ci salvano, ci redimono, o semplicemente ci fanno toccare la bellezza del mondo, che è tanto, è tutto - mi verrebbe da dire.

Per Cat Power, anche solo per aver scritto la canzone di oggi, io provo qualcosa che assomiglia molto alla gratitudine. 
A conti fatti, lo è.

Perché questa canzone mi assomiglia molto.

Parla di qualcuno che è costretto ad arrendersi, che è obbligato a liberarsi dell'illusione di essere forte, perfetto, in grado di sopportare qualunque peso e prova, convinto di avere un cervello, come dice un verso, capace di "spiegare qualunque sentimento".

Parla di qualcuno che è costretto ad accettare la propria debolezza, la propria fragilità e che vede la propria armatura di ferro andare in pezzi, cadere a terra, nella polvere, trascinata via dalle acque in piena.

La canzone non lo dice, ma io sento chiaramente che questa spoliazione, questo ritrovarsi nudi, senza corazza, senza quella presunzione di poter dominare con la razionalità la complessa materia dei propri e degli altrui sentimenti, è la prima condizione per potersi ritrovare e per sentirsi più leggeri, e autentici e fedeli a se stessi.

E da lì, per trovare, finalmente, gli altri.

Vi auguro una splendida domenica!









venerdì 25 febbraio 2011

Di modi piacevoli di passare il tempo, di processi mentali erratici e dell'ennesima torta al cioccolato

L'ho detto tante volte: sfogliare ricettari è uno dei modi di passare il tempo che amo di più.

In genere mi siedo al tavolo della cucina, magari con una tazza di tè verde, e con in mente un ingrediente cerco ricette.

La ricerca, che comincia in modo mirato, fatalmente e quasi subito comincia a prendere vie eccentriche e deraglia: di rimando in rimando mi ritrovo circondata da decine di libri, a leggere ricette che con l'idea originale non hanno niente a che fare.

Ma in fondo è sempre stato questo il mio modo di studiare o leggere: non riesco a non creare connessioni (a volte chiare solo a me), a farmi sedurre da intuizioni nate sul momento e dalla voglia di verificarle.

Dunque non vi sorprenderà sapere che mi sono imbattuta in questo dolce mentre cercavo tutt'altro; in effetti volevo cucinare un cavolo rosso.

Faccio fatica a ricostruire i passaggi che mi hanno portato da un cavolo rosso ad una torta natalizia al cioccolato, per non dire che li ignoro del tutto.

Ma nella vita mi pare che accada spesso: che ci si imbatta in qualcosa o in qualcuno in modo apparentemente casuale, seguendo percorsi che appaiono erratici ed imprevedibili, in realtà obbedendo a qualche misterioso e impellente desiderio di imbattercisi.

Io almeno la penso così - e tanto più riferendomi a questa torta, che è diventata LA torta di quest'inverno.

Non è poi, in fondo, il discorso che si faceva a proposito della bellissima Amore a prima vista di Wisława Szymborska?



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Christmas-spiced chocolate cake da Nigella Christmas di Nigella Lawson (con diverse e sostanziali modifiche)


(per una tortiera di 23 cm di diametro)

150 gr di cioccolata fondente
150 gr di burro
4 cucchiaini di caffè solubile
4 uova
150 gr di zucchero
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
100 gr di farina di mandorle
1 cucchiaino di cannella in polvere
un pizzico di chiodi di garofano in polvere
buccia finemente grattugiata di un'arancia

per il topping:

il succo di un'arancia
15 gr di burro
1 cucchiaio di zucchero
1/4 di cucchiaino di cannella in polvere
50 gr di mandorle a lamelle


Preriscaldate il forno a 180°.
Imburrate e infarinate la tortiera.

A bagnomaria sciogliete il burro, il cioccolato e i 4 cucchiaini di caffè liofilizzato e mettete da parte.

Montate le uova, lo zucchero e l'estratto di vaniglia fino ad ottenere un composto bianco e spumoso.

Con mano leggera aggiungete la farina di mandorle, le spezie, la buccia grattugiata dell'arancia.
Versate il composto nella tortiera e fate cuocere per circa 35'-40': tenete presente che si tratta di una torta morbida, dunque il famoso stecchino non potrà uscire del tutto pulito.

Tirate fuori dal forno la torta e lasciatela raffreddare su una gratella.

Nel frattempo, in un padellino, tostate appena la mandorle a lamella e mettete da parte.

In un pentolino fate invece scaldare il succo dell'arancia, il burro, lo zucchero e la cannella.
Cuocete per circa 1 minuto, poi aggiungete le mandorle e mescolate.

Versate tutto sopra la torta, che nel frattempo sarà leggermente collassata al centro - niente paura, va bene così.

Servite, eventualmente, con della panna montata aromatizzata con del Cointreau.

Enjoy!

(Dimenticavo: se usate il succo di un'arancia rossa, le mandorle del topping finiranno per assumere una sottile sfumatura rosata che una mia amica ha dichiarato essere "très chic").


mercoledì 23 febbraio 2011

Le poesie del mercoledì: Amore a prima vista - Wisława Szymborska

In un post di qualche tempo fa, ricordate?,  ho riportato una poesia di Wisława Szymborska.

La mia lettura della bella edizione dell'Adelphi che raccoglie tutti i volumi da lei finora pubblicati prosegue, a spizzichi e bocconi, l'unica modalità - pare - che per me vada bene di leggere poesia. 

Ma quelli di oggi sono versi che conosco e che amo da tempo.

Mi piace immensamente l'idea che un incontro possa essere in qualche modo il prodotto di una sorta di benevola congiura cui partecipa nientemeno che il cosmo tutto.

Che esista un armonioso e sapiente disegno che ci porta ad avvicinarci, senza che ce ne accorgiamo, a quelle mani, a quel profilo - e non a un altro.

E come non convincersi, guardando quegli occhi e ascoltando quella voce, che non fossimo destinati da sempre, prima o poi, ad incontrarli e ad amarli?


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Amore a prima vista

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l'incertezza è più bella.

Non conoscendosi, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano - 
una volta un faccia a faccia
in qualche porta girevole?
uno "scusi" nella ressa?
un "ha sbagliato numero" nella cornetta?
- ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio tempo
il caso giocava con loro.

Non ancora pronto del tutto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando una risata
con un salto si scansava.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o lo scorso martedì
una fogliolina volò via 
da una spalla a un'altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, forse già la palla
tra i cespugli dell'infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
su cui anzitempo
un tocco si posava su un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.


(da La fine e l'inizio, 1993)




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Wisława Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), a cura di Pietro Marchesani, Adelphi 2009.


domenica 20 febbraio 2011

Sunday Music: Signora Bovary - Francesco Guccini

Il mio fidanzato di quando ero al liceo (quello con velleità da pianista che dormiva beati sonni davanti ai film francesi) frequentava un gruppo assai eterogeneo di gente; penso di aver incontrato poche persone in vita mia circondate, come lo era lui, da una massa di conoscenti tanto disparati.

Credo che ciò dipendesse dalla sua concezione molto elastica dell'amicizia che io, sedicenne legnosa ed estremista, trovavo inconcepibile e indifendibile.

Sosteneva, in sostanza, che fosse meglio avere amicizie diversificate, con le quali condividere solo alcune attività: con Tizio, per esempio, si andava al cinema; con Caio in palestra; con Sempronio si parlava di politica, mentre di libri era più interessante discorrere con Pinco Pallino etc etc. 

Seguendo con inflessibilità questo principio, si era creato negli anni una rete di rapporti piuttosto superficiali ma che soddisfacevano ogni suo bisogno di condivisione. 
L'importante era non mescolare le carte, non pretendere di affrontare con Caio l'analisi della situazione politica italiana o di trascinare Pinco Pallino in palestra: insomma, non chiedere troppo e non farsi chiedere troppo.


Io trovavo assurda questa, per così dire, compartimentazione delle amicizie: mi sembrava il prodotto di un opportunismo e di una superficialità agghiaccianti, soprattutto perché di quelle persone raramente il mio fidanzato aveva vera stima.
Questo sistema, però, per lui funzionava alla perfezione e gli garantiva quel che più gli stava a cuore: una quasi continua disponibilità di compagnia (era una persona che aveva quasi un timor panico della solitudine e che non amava indulgere in qualunque forma di introspezione).

Venendo da una buona famiglia, frequentava tutto un giro di giovani rampolli della Roma bene eredi di primari, notai, antiquari con cui ogni tanto organizzava feste in qualche magnifico attico o settimane bianche in località alla moda.


Aveva, però, anche la passione per la moto e dunque diversi giorni alla settimana si incontrava con un gruppo di centauri, tra i quali molti erano i figuri semi-loschi (per non dire mezzi criminali, dato che passavano gran parte del loro tempo a truccare moto e motorini o a ricrearne di nuovi con pezzi sottratti nottetempo ad altri) con cui si divertiva a fare su e giù, con la moto, lungo la strada tutta curve che dalla collina dell'osservatorio astronomico scende fino alla piazza dove si trova il nuovo palazzo di Giustizia.


Ogni pomeriggio, poi, portava a spasso il suo chow chow e si ritrovava in una piazzetta del quartiere insieme ad altri cinomuniti, un gruppo che in parte coincideva con quello dei già citati centauri e in parte con quello dei tifosi della Roma (con cui, ovviamente, andava allo stadio o guardava le partite in televisione), ma non del tutto.

Infine, dilettandosi col pianoforte, frequentava un giro di musicisti in erba, quelli che io chiamavo con un certo disprezzo "i maniaci" o "gli autistici": per lo più silenziosi e poco comunicativi, si risvegliavano solo ed esclusivamente quando si parlava di musica e quando cominciavano non la finivano più. Impossibile discorrere con loro di qualsiasi altra cosa.


Per quanto maniaci e autistici, io preferivo senz'altro i musicisti ai giovani rampolli, ai centauri, ai cinomuniti,  e soprattutto ai tifosi della Roma: quanto meno, a frequentarli, c'era da conoscere e da ascoltare - non sempre, ma spesso - bella musica.

Devo a una serata a casa di uno di loro, un elemento singolarissimo e a modo suo affascinante (un certo Fabrizio, grande virtuoso della chitarra che soffriva di vari e misteriosissimi disturbi psicosomatici ed era lunatico oltre ogni dire - cioè molto più di me) il mio primo incontro con questa canzone di Francesco Guccini.

Io amo molto il Guccini irriverente e clownesco, creatore di divertissements irresistibili (penso ad esempio a I fichi o a La fiera di San Lazzaro) e amo anche quello irruento ed energico, il violento e indignato castigatore dei suoi grandi classici che ancora oggi infiammano le folle dei suoi concerti.

Ma quello che preferisco è senz'altro il Guccini che canta le storie piccole di un'umanità spesso strozzata dalla solitudine o dall'infelicità, che si arrabatta a sopportare la fatica di vivere giorno dopo giorno una vita dagli orizzonti fatalmente limitati; un'umanità per la quale Guccini mi sembra sappia trovare sempre parole di rara delicatezza e tatto e poesia e provare vera, fraterna e misericordiosa comprensione.

Buona domenica!









mercoledì 16 febbraio 2011

Le poesie del mercoledì: Emily Dickinson

Da qualche giorno leggo le poesie di Emily Dickinson.

Le leggo dopo pranzo, quando in casa regna una strana atmosfera sospesa: la Spia e le gatte sonnecchiano, ognuno nel suo posto preferito per la siesta pomeridiana ed io sono sola, e in silenzio.

Non credo si possa restare indifferenti ai versi di Emily Dickinson.
Hanno una tale qualità di originalità, unicità, individualità che non li si può leggere scrollandoseli poi di dosso come se niente fosse.


Non voglio dire che debbano piacere a tutti, anzi (di cosa si potrebbe dire una cosa del genere, tra l'altro?).


Ho letto alcune sue poesie che mi hanno lasciata frastornata e confusa: non ho capito, non ho sentito che cosa volessero esprimere.
Pure, ho capito e sentito benissimo che sono il frutto di una sensibilità potente, originalissima, irripetibile (cosa che forse si potrebbe dire di ogni sensibilità; pure, pare evidente che per alcune ciò sia più vero).

Anche così, non capendo e non sentendo, la suggestione delle loro parole è stata intensa e mi è sembrato di scorgere, di sfuggita, un bagliore, il riflesso fuggevole e ipnotico di qualche strano reame cui finora non ho avuto accesso e della cui esistenza e misteriosa, straniata bellezza, però, non posso dubitare.


E certo, il personaggio Emily Dickinson non può non colpire e sedurre.
Che cosa spinge una giovane donna a chiudersi in una stanza e a non uscirne che in un paio di occasioni in circa 30 anni?


Quale disciplina, quale feroce desiderio di essere fedeli a se stessi possono indurre a fare una scelta tanto drastica, tanto estrema, tanto assurda - in fondo?
Oppure, quale paura del mondo, quale impossibilità, quale fragilità estrema e irredimibile?

Pure, dalla sua stanza chiusa, Emily Dickinson visse a modo suo un'esistenza piena: non solo una vita interiore e creativa di rara potenza e intensità, ma anche una vita di relazione, di scambio e di comunicazione con gli altri.


Mi chiedevo, ieri pomeriggio: non avrà mai sentito la tentazione di abbandonare quel suo eremo in cui nessuno l'aveva confinata? Di venir meno alla sua scelta optando per una vita meno estrema, più incline al compromesso?Non avrà mai sentito pesarle addosso come un macigno la solitudine?


Poi ho letto questa poesia e mi è sembrato di avere avuto una risposta.


****


Sola, non posso essere -
poiché schiere - mi visitano -
compagnia senza traccia -
che elude chiavi -


Non hanno vesti, né nomi - 
non almanacchi - né climi -
ma case diffuse
come gnomi - 


Il loro venire, è annunciato
da messaggeri interiori - 
il loro andare - non lo è -
poiché non vanno mai -




****




Emily Dickinson, Poesie, a cura di Massimo Bacigalupo, Mondadori 1995.



lunedì 14 febbraio 2011

Che cosa combino nella stanza accanto: una collana rossa

È cosa risaputa che io abbia inclinazioni animiste, che tenda cioè a credere che anche gli oggetti abbiano una loro sensibilità (ne ho parlato, per esempio, qui). 


È una cosa che mi viene dall'infanzia, da quando trovavo grande conforto nell'immaginare che - per esempio - il tavolo, la sedia, la vecchia radio a cassettone che era nella mia camera, il giradischi arancione e la tazza della colazione fossero, invece che semplici oggetti muti e indifferenti, miei alleati ed amici.

Intrattenevo con loro lunghe e per lo più silenziose conversazioni, attribuendogli sentimenti e idiosincrasie e persino una certa libertà d'azione (come quella volta che il pentolino del latte cadde "inspiegabilmente" dalla credenza: non era stato sistemato al posto giusto e non era a suo agio lì dove si trovava, tutto qui).


Mi facevano molta pena tutti gli oggetti che per qualche ragione mi sembravano esclusi o emarginati, magari perché spaiati: l'ultimo cucchiaino da caffè di un vecchio servizio ormai andato perso; l'unico bottone di madreperla sopravvissuto ad una camicia che da tempo era stata trasformata in straccio per la polvere; un vecchio orecchino di mia sorella che aveva perso il gemello chissà dove. 


Tendevo a conservare tutti questi derelitti in qualche mia scatolina segreta, tutti insieme, perché si facessero compagnia e si sentissero meno infelici - secondo il ben noto principio del "mal comune etc etc" - che oggi, detto per inciso, mi lascia piuttosto perplessa, ma che da bambina trovavo giustissimo.

A dire il vero non sono cambiata molto da questo punto di vista.

Sebbene sia diventata più selettiva nel mio accumulare oggetti apparentemente inutili (per non dire che son diventata spietata nell'eliminarli), pure ho una particolare predilezione per gli "spaiati".

Nella vetrina rossa dove conservo tutti i materiali che uso per fare i miei orecchini, ce ne sono molti di questi cani sciolti: rimasugli e avanzi di altre realizzazioni cui non ho trovato ancora un utilizzo e che rimangono lì, in qualche bustina o scatolina - ho un debole per i contenitori di ogni foggia e misura - in attesa di poter diventare parte di qualcosa.

Qualche giorno fa, dunque, mi sono accorta che avevo voglia di fare qualcosa di rosso, una collana per la precisione, proprio utilizzando molti di questi "orfanelli" e alcune perline di vetro rosse che un tempo erano infilate in una collana con una lunga storia: ricordate l'amico ritardatario della tragicomica cena di questo post? Ecco, quella collana me la portò lui da Damasco, ma poi mi si ruppe (la storia non è in effetti poi tanto lunga, a ben pensarci).

Volevo che fosse una collana asimmetrica e un po' bislacca, che portasse anche nella forma l'impronta di tutti i suoi elementi spaiati e singoli.

Ci ho messo un bel po' per arrivare a un risultato che mi soddisfacesse, ma alla fine, ieri pomeriggio, credo di esserci riuscita.

Ora,  guardandola adagiata sul mio collo, mi sento un po' come una benefattrice: non più sole, tutte queste perline si fanno una bella compagnia, e grazie a me.

Adesso mi piacerebbe trovarle un nome a questa collana: è da almeno una settimana che ci parlo, sarà prima o poi il caso di darglielo.


Magari potete pensarci voi.
Nel frattempo, la potete trovare ovviamente qui.

domenica 13 febbraio 2011

Sunday Music: La banda dell'ortica - Enzo Jannacci

La Spia mi prende spesso in giro perché, lui escluso -  ovviamente - in fatto di uomini ho gusti, a suo parere, piuttosto eccentrici.

In effetti, chi mi conosce conosce anche la mia passione per alcuni rappresentanti del sesso maschile che notoriamente non rientrano nelle classifiche degli uomini più desiderabili del pianeta.

Nella mia personale lista, infatti, ai primi posti non si piazzano né Johnny Depp (per quanto...) né tanto meno Brad Pitt, ma nemmeno il già più simpatico George Clooney.

Non starò qui a far l'elenco degli uomini improbabili che popolano la mia fantasia, molti dei quali, tra l'altro, deceduti (ho un debole per gli attori del vecchio cinema americano). Posso dirvi, però, che Enzo Jannacci è uno di questi (e questo vi dirà molto e vi indurrà a pensare che, tutto sommato, la Spia ha forse dei buoni motivi per rimanere perplesso di fronte ai gusti della donna che lo ha scelto come suo compagno) e quando canta questa canzone, poi, lo trovo assolutamente irresistibile.

Trovo irresistibile la sua ironia stralunata, la sua pudica tenerezza, quel suo modo di fare che lo fa sempre assomigliare a qualcuno appena caduto qui sulla terra da qualche pianeta lontano e assurdo, e quella spudorata e scatenata goffaggine nel modo di muoversi sul palco mentre canta a squarciagola. 

Ogni volta che lo vedo in tv o lo sento cantare, mi viene in mente un'espressione che trovo bellissima, che la suocera usa per descrivere qualcuno che le sta molto simpatico ma l'è minga trop giüst, e anzi, proprio per questo le piace: è un sacramento di uno.

Posso essere anche di pessimo umore o arrabbiata con lui; la Spia lo sa che basta che da dietro gli occhiali mi sorrida e accenni a canticchiare "perché a vederci non vedeva un'autobotte, però sentirci ghe sentiva un accident" e può chiedermi (quasi) qualunque cosa.

Buona domenica! 
(Ci vediamo in piazza?)











venerdì 11 febbraio 2011

Della maturità, dell'arte di arrangiarsi e di un'insalata di broccoli

Ho più volte parlato del programma di rieducazione alimentare che porto avanti da anni per "rimediare" a certi traumi della mia infanzia.

Ne ho più volte parlato perché ne vado scioccamente ma indubbiamente fiera: se c'è una qualità che da tempo associo all'età adulta è proprio una sempre maggiore disponibilità, apertura, fiducia nei confronti dell'esperienza, che essa porti a conoscere persone, luoghi, libri, voci o sapori nuovi, o a rivalutarli, liberandosi il più possibile di pregiudizi nati dall'ignoranza o da brutti ricordi e mai seriamente messi in discussione. 

A me pare infatti che sia invece propria della giovinezza una certa qual chiusura, una tendenza a trarre presto e in modo spesso apodittico (per non dire spietato) certe conclusioni, su basi a volte fragili ai limiti dell'inconsistenza. E quant'è vero questo per il cibo! Ci si crea un proprio gusto a volte sulla base di un’unica esperienza, dimenticando che invece infiniti sono i modi in cui si può declinare un sapore ed infinito il gruppo delle variabili che incidono sul processo (dalla freschezza e qualità degli ingredienti alla mano di chi cucina al proprio stato d’animo etc etc).

Il mio programma di rieducazione alimentare (che negli ultimi due anni ha subito un'accelerazione e un'intensificazioni notevoli, grazie all'esperienza del gruppo d'acquisto) mi spinge sempre a cercare nuovi modi di mangiare cose che non mi sono mai piaciute e vi assicuro che non faccio parte di chissà quale setta religiosa che impone ai suoi adepti severe pratiche volte alla mortificazione dei sensi.

Chi mi legge da un po’ non sarà sorpreso di sapere che in questo mio programma occupano un posto di rilievo i broccoli e che sono sempre alla ricerca di nuovi modi di cucinarli e mangiarli.

Qualche giorno fa, con poco tempo per prepararmi un pranzo, mi sono ricordata di una ricetta che avevo letto nel mitico Pausa pranzo del mio diletto Stefano Arturi, un’insalata che avevo segnato come possibile esperimento.

Mi mancavano diversi ingredienti e volevo farne un condimento per del cous cous, dunque ho dovuto modificarla non poco e arrangiarmi (non me ne voglia l’ottimo Arturi; ma voi andate pure a vedere l'originale: la trovate a pag. 95 del libro su citato).

Detto fatto, in poco più di dieci minuti affondavo la forchetta in questa prelibatezza.


Insalata di broccoli pseudo-arturiana con cous cous

(ingredienti per una papera sperimentatrice e di modesti appetiti)

60/70 gr di couscous
un broccolo di piccole dimensioni
un cucchiaino di capperi sotto sale, ben dissalati
6/8 olive nere (se le avete taggiasche meglio ancora)
2 pomodori secchi
1 acciuga sott'olio
1 cucchiaino di uvetta
un po' di scorza di limone
sale
pepe
una punta piccolissima di cumino in polvere e di paprika dolce
aceto balsamico o succo di limone
olio
pecorino

Per preparare il couscous seguo di massima questa procedura: lo peso, lo metto nella ciotola capiente in cui poi lo mangerò, ci verso su un volume uguale di acqua  calda (non bollente): dunque per 60/70 gr. di couscous, uso più o meno 60/70 ml di acqua.
Copro con un piatto e lascio lì per 10-15'.


Tornando ai broccoli.
Separate le varie cime, tagliatele (a me piacciono abbastanza piccole) e non buttate il gambo: spellatelo, rimuovendone tutta la parte esterna fibrosa, e tagliatelo a tocchetti. Aggiungete anche lui alle cime - povero caro, ché se no si sente un emarginato e non voluto bene - e mettete tutto in un cestino per la cottura a vapore. Se avete tagliato tutto abbastanza minutamente ci vogliono meno di 10' perché il broccolo sia cotto ma non sfatto (a me ce ne son voluti 7).


Nel frattempo, in una ciotola mettete i capperi ben dissalati, le olive, i due pomodori secchi e l'acciuga - io taglio tutte queste robe qui con le forbici - poi le uvette e se volete un po' di buccia di limone grattugiata fine.
Condite con sale (non eccedete: tra acciuga, pomodori secchi, olive e capperi sarà saporito comunque), pepe - io ci metto anche un pizzico di gomasio perché mi sta simpatico -, le spezie, succo di limone o aceto balsamico - ho provato con tutti e due, separatamente e anche in contemporanea (mi ero distratta e ho usato entrambi) e il risultato mi è piaciuto comunque - olio d'oliva.
Mescolate ed amalgamate per bene.


Quando il couscous è pronto, sgranatelo bene con una forchetta (o con le mani, se volete, cercando di rompere delicatamente tutti i possibili grumi che potranno essersi formati), aggiungete i broccoli e compagnia bella, assaggiate, rettificate di sale/pepe/olio/succo di limone o aceto balsamico, unite delle scaglie di pecorino fatte col pelapatate e, finalmente!, mangiate.


Enjoy!

mercoledì 9 febbraio 2011

Le poesie del mercoledì: Sandro Penna - Felice chi è diverso

Di Sandro Penna conosco poco e per questo, qualche tempo fa, sono andata in biblioteca e ho preso in prestito il testo della Garzanti che raccoglie l'intera sua produzione poetica.

Ricordavo di lui ciò che ne avevo studiato all'università, qualche etichetta con la quale la critica lo ha sempre classificato ("l'anti Montale", per esempio) e alcuni particolari curiosi della sua biografia.

Ecco che cosa ne dice Giacomo Debenedetti nel suo Poesia italiana del Novecento:

Sandro Penna è nato a Perugia nel 1906. Si è diplomato in ragioneria. Pare che, da principio, abbia anche fatto il contabile o il ragioniere; ma è molto difficile essere sicuri delle notizie che egli dà di se stesso. Nel raccontarsi, nel parlare della propria vita, pare che si consegni con disarmata innocenza all'ascoltatore, meravigliandosi di ciò che gli è accaduto e sicuro che anche gli altri si meraviglieranno, come se quei fatti comuni avessero qualcosa di incredibile o di paradossale. Nello stesso tempo, in quegli accenni sparsi e discontinui che egli dà sul proprio conto, sembra che si sottragga e si mitologizzi. È come dire?, cronistico ed evasivo. Si sa invece, con certezza, che fece per un certo tempo il commesso in una libreria di Milano: questo è sicuro, perché quell'impiego gli fu procurato da Sergio Solmi. Adesso, da molti anni, Penna vive senza un'occupazione fissa. Dopo la guerra se l'è cavata con un po' di borsa nera: sigarette, saponi, vestiario americano ma anche libri, specie le edizioni allora rare della "Pléiade", che amici francesi gli mandavano a prezzi di favore e senza dogana. Civetta con gli editori, a cui promette le sue raccolte, poi tergiversa, le muta, le pubblica in parte presso altri. (...) Ultimo particolare biografico da ricordare è che Penna, ogni volta che lo si incontra, si dichiara affetto da gravissime malattie che a un altro lascerebbero forse pochi mesi di vita. Oltre che gravi, sono anche malattie piuttosto rare nelle loro complicazioni. Citiamo questo fatto che può sembrare pittoresco, perché non costituisce la banale "fuga dalla malattia" che ne sarebbe l'interpretazione psicologica più ovvia, ma perché ci pare una raffigurazione mitologica di quel suo essere nella vita, sottraendosi alla storia, con quel diritto di assenza, di esenzione dalla storia, di non partecipazione alla storia che hanno i malati.


Soprattutto, avevo in mente di lui alcune foto, che lo ritraggono anziano, nella sua casa da barbone di Roma, affollata di cani e giornali, medicine e quadri appoggiati al pavimento; di lui, seduto su un letto-cuccia, perennemente sfatto, in disordine, con uno sguardo insieme avvilito e fermo, spesso assorto, ma con dentro, in alcuni scatti, un guizzo di divertita sfida lanciata a chi lo guarda, come se gli stesse chiedendo "E allora?".

E poi, avevo ben impressi nella memoria alcuni suoi versi indimenticabili, per esempio questi:

Un dì la mia vita era beata.
Tutta tesa all'amore anche un portone
rifugio per la pioggia era una gioia.
Anche la pioggia mi era alleata.

(da Una strana gioia di vivere {1949-1955})

quel "anche la pioggia mi era alleata" soprattutto mi ha sempre incantato: esprimere in così poco quel senso di onnipotenza, di assoluta e inebriante fusione con la vita che si sperimenta quando, per così dire, si vive d'amore, ha del miracoloso.

Sono altri, però, i versi che ho scelto per questo mercoledì.
Son versi famosissimi che da molti anni mi accompagnano ma che forse solo oggi cominciano a mostrarmisi chiari e preziosi e veri, un distillato felice, leggerissimo e insieme straordinariamente denso di una grande, paradossale, irriverente saggezza.
 
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
  
(da Appunti {1938-1949})
  
Sandro Penna è morto nel 1977. 

Nel volume della Garzanti che tutte le raccoglie, la sua ultima poesia, dedicata ad Eugenio Montale, si chiude così:

E io non mi ricordo più chi sono.
Allora di morire mi dispiace.
Di morire mi pare troppo ingiusto.
Anche se non ricordo più chi sono.

(da Il viaggiatore insonne {1977})


Sandro Penna, Poesie, prefazione di Cesare Garboli, Garzanti 1989.
Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Garzanti1993.

domenica 6 febbraio 2011

Sunday Music: Don't forget - Hindi Zahra

Oggi vi lascio con Hindi Zahra, che ho ascoltato per la prima volta proprio questa settimana.

È una cantante marocchina che da quasi vent'anni vive a Parigi e canta sia in inglese sia in berbero.

Essendo io assai ignorante di musica, non vi so dire che genere faccia, né se si iscriva in una particolare corrente o scuola.

Mi pare però che la sua sia una scelta di garbata contaminazione di sonorità jazz, etniche, folk, blues.


Quel che posso dirvi per certo è che mi piace e che ho avuto qualche difficoltà a scegliere quale delle sue canzoni farvi ascoltare.


Poi ho deciso.

Questa Don't Forget mi ha letteralmente ipnotizzata.

Il che vuol dire che se capitaste mai da queste parti, mi sentireste senz'altro canticchiarla o mugolarla mentre pasticcio in balcone con le mie piante grasse o cucino o penso alla nuova collana da fare.

Magari non da me, ma ditemi: non vi piacerebbe sentirvela cantare come ninna nanna, sussurrata dalla voce che vi è più cara?

Buona domenica! 







mercoledì 2 febbraio 2011

Le poesie del mercoledì: Memoria - Natalia Ginzburg

Il 5 febbraio 1944, nel carcere romano di Regina Coeli, moriva Leone Ginzburg.

Me ne sono ricordata qualche sera fa quando, davanti alla libreria, cercavo ispirazione per la poesia di oggi.

Mi è venuto in mente, allora, che ne esisteva una, struggente, che sua moglie Natalia aveva scritto per la sua morte.

L'ho ritrovata in un testo che amo moltissimo, È difficile parlare di sé, delle edizioni Einaudi, la trascrizione fedele di una lunga "Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi" (questo il sottotitolo) con Natalia Ginzburg. Un libro prezioso per chi voglia ritrovare intatta la voce a tratti teneramente spaesata ed esitante, a tratti invece sorprendentemente chiara e ferma di questa grande scrittrice del '900.

La poesia è accompagnata dal racconto Inverno in Abruzzo (raccolto ne Le piccole virtù, sempre di Einaudi, il mio libro preferito della Ginzburg; qui un breve post che ho scritto sull'argomento) e dalla bellissima lettera che dal carcere Leone le scrisse poco prima di morire.

Allora ho ripensato a questa foto, scattata nel 1938, l'anno del loro matrimonio.

Leone aveva 29 anni ed era già un affermato e brillantissimo intellettuale, assai noto ed attivo negli ambienti antifascisti; Natalia una ragazza di quasi 22 anni che aveva appena cominciato a muovere i primi passi nel mondo della letteratura.

Molti amici di lui non seppero spiegarsi la scelta di quella ragazza non particolarmente bella, apparentemente poco brillante e timidissima.
Altri, invece, giunsero alla conclusione che se Leone si era innamorato tanto appassionatamente di lei, dietro il suo aspetto dimesso, la voce flebile e la riservatezza, Natalia doveva nascondere qualche tesoro di valore.

Noi che abbiamo letto i suoi libri e li amiamo possiamo forse immaginare che cosa, di quella ragazza, conquistò Leone Ginzburg; che cosa vide in lei, magari solo in potenza, magari non ancora pienamente espresso e fiorito, ma visibile a chi avesse avuto gli occhi per vedere: forse la sua dirittura morale, la sua onestà intellettuale, la sua straordinaria capacità di esprimere sempre opinioni personali, meditate, autonome, con grande forza e insieme rispetto per tutti gli interlocutori; forse quel suo sguardo limpido sul mondo e sulle cose, privo di pregiudizi, uno sguardo fanciullo e al tempo stesso saggio, sapiente, antico che sapeva abbracciare con la stessa lucida comprensione la vita e la morte, l'amore e l'odio, l'ironia e il dolore.

Ho studiato infinite volte questa fotografia, con grande tenerezza, come se ritraesse una coppia di amici o di giovani zii molto amati.
Ci vedo, sì, una giovane perplessa, ritrosa, poco sicura di sé, ancora acerba ed un uomo dall'espressione seria, concentrata, volitiva.

Ma quel braccio di lui che la cinge, quella mano che le circonda il braccio e che sembra sostenerla, proteggerla, rassicurarla, mi sembra al tempo stesso tenerla vicina a sé, cercare in lei un sostegno, appoggiarsi a quel giovane corpo snello, quasi a sincerarsi che sia davvero lì, accanto a lui, per lui.

E così è stato, fino alla fine.


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Memoria


Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
Ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l'ultima volta. Era il viso consueto,
Solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
Che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
A guardare il suo viso per l'ultima volta.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto.
Se hai paura, nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
Degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra
E guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c'era la sua voce serena.
Allora quando ridevi c'era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s'apriva resterà chiuso per sempre;
E deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.


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