lunedì 15 giugno 2009

Del raccogliere le sfide, dell'infanzia perduta, o delle meringhe


In cucina ognuno ha la sua Moby Dick. Una ricetta che ci elude, ci sfugge, che continuiamo a riprodurre senza mai riuscire ad ottenere realmente il risultato cui aspiriamo, con cui intratteniamo uno strano rapporto fatto di desiderio e anche di rancore.

Non importa quanto bene ci vengano altre cose, magari ben più complicate.
Il ricordo di altre soddisfazioni non aiuta a dimenticare che invece, confrontati per l'ennesima volta con l'ennesimo tentativo di riuscire, si è fallito miseramente, come sempre.

Invano si consultano spasmodicamente tutti i libri di cucina di cui si dispone; si interrogano la mamma, le zie, la nonna, la migliore amica, la vicina di casa, la panettiera, la signora seduta accanto a noi dal parrucchiere, cercando di carpire i loro segreti, i loro trucchi infallibili, nello sforzo di comprendere dove sbagliamo, dov'è che si crea il guasto, qual è il punto in cui deviamo dalla retta via, magari senza accorgercene. Ed è doppiamente frustrante, poi, dopo esserci illusi di aver finalmente capito la natura del nostro errore, evitarlo e ritrovarci, ancora una volta, davanti ad un disastro, magari diverso, ma altrettanto umiliante.

Per anni, la mia Moby Dick sono state le meringhe.

Premetto che non ci faccio follie, neanche per quelle perfette della mia mamma, un capolavoro di ingegneria culinaria, se così posso dire. Perfette cupolette tutte uguali con in cima un aggraziato ricciolo, leggere come piume, farinose il giusto, sempre di una straordinaria, elegantissima e severa sfumatura avorio, come il raffinato, sobrio abito da sposa di una grande sartoria del centro.

Ricordo che le faceva, da casalinga accorta e costretta da un bilancio familiare sempre al limite della precarietà ad evitare come la peste qualunque forma di spreco, quando le avanzavano le chiare dopo aver usato i tuorli per fare la pasta all'uovo.
Le montava con le sue fruste Moulinex acquistate subito dopo sposata, e tutta la cucina odorava di zucchero vanigliato (l'odore che più associo alla mia mamma, insieme a quello della buccia del limone che usava per profumare la crema).

Io ero lì, accanto a lei, seduta sulla sediolina di paglia e legno dove tutti noi fratelli ci siamo seduti, posto cui aveva diritto chi aveva l'onore, la sera dopo cena, di macinare il caffè in chicchi acquistato alla torrefazione Sant'Eustachio, usando il macinino in legno della nonna Olga (in questo consisteva l'onore).
Era mia madre a decidere a chi toccasse ogni sera di sedersi lì, con le ginocchia a stringere il macinino, facendo attenzione a non pizzicarsi la morbida carne delle cosce tra la sedia e il fondo del bell'oggetto appartenuto alla nonna.

Ero lì, in realtà poco interessata a ciò che mia madre faceva, ma desiderosa di approfittare di un'occasione rara: quando montava le chiare, per un momento lei si fermava e ci si poteva parlare un po'; altrimenti era sempre un muoversi indaffarato per tutta casa: impossibile farci il benché minimo discorso, attrarre per non più di un minuto la sua attenzione.

Il mio incaponirmi nel tentativo di riprodurre quelle meravigliose meringhe materne risale esclusivamente a questa sensazione di precaria ma intensa intimità con lei (arrivava poi sempre qualcuno o qualcosa ad interromperla).
Si cucina anche e soprattutto per ritrovare un'atmosfera, un sentimento, una persona amata, oltre che un gusto e un aroma. Almeno questo è valido per me.

Negli anni la mia testardaggine ha prodotto risultati che non esiterei a definire interessanti: c'è stata quella volta in cui le meringhe si sono fuse nel forno fino a creare un unico, sottile strato di materia gommosa e opalescente, che ricordava in modo inquietante gli orologi di Dalì; un'altra, invece, sono collassate su loro stesse, rompendosi tutte lungo una stessa linea di frattura, più o meno a 1/3 della loro altezza; poi è stata la volta delle meringhe fatte di cristallo, bellissime a vedersi ma impossibili a mangiarsi: non appena le ho sollevate con ogni precauzione dalla teglia mi si sono sbriciolate trasformandosi in una polvere beige madreperlata; e di quelle che fuori erano quasi brune e dentro praticamente crude, ancora collose di bianco d'uovo.

Ma oggi, proprio come la mia mamma e come tutte le casalinghe assennate, per utilizzare delle chiare (avanzo di un gelato alla crema di cui parlerò prossimamente), mi sono di nuovo cimentata e, stranamente, sono emersa dall'ennesima sfida soddisfatta.

Certo, sulla superficie di molte appaiono buchini vari, e non ho ancora capito se mi piaccia la consistenza chewy, come dicono gli inglesi, leggermente gommosa che hanno (voluta e desiderata, vista l'aggiunta dell'aceto e della maizena); probabilmente preferisco quella farinosa ma asciutta delle meringhe materne. Ma nell'attesa (forse eterna) di giungere a quei livelli di perfezione, mi pare che quello di oggi sia un ottimo risultato, raggiunto senza troppi patemi.
Non vedo l'ora di chiamare stasera la mia mamma per raccontarle, trionfante, della mia impresa.

Ovviamente l'uso della siringa con la quale produrre quei serici e lucidi mucchietti di glassa è qualcosa che ogni volta mi fa quasi perdere il lume della ragione, ma non sono l'unica ad avere un rapporto quanto meno conflittuale (per non dire nevrotico) con questo accessorio da cucina: una cuoca grandissima come Sophie Grigson preferisce, per i miei stessi motivi, utilizzare due cucchiai da minestra, che impegna in una sorta di coreografia, modellando la meringa fino a creare delle forme perfette, leggermente allungate. Non possedendo, ahimé, altrettanta manualità, opto sempre per il male (si fa per dire) minore e combatto la mia piccola battaglia con la siringa.

Di solito finisco per spalmare meringa un po' ovunque, dal piano della cucina ai vicini fornelli, dal grembiule ai capelli agli occhiali, e a spararne parte anche sui muri (e una volta anche su un gatto di passaggio, la golosissima Linda che, lungi dal sentirsene offesa, si è leccata ringraziandomi con sonori ron ron).

Anche oggi non sono stata da meno. Alla fine avevo le mani appiccicose e sporche e la cucina era un delirio, ma sulle due placche da forno erano disposti dei graziosi affarini, alcuni dei quali effettivamente somiglianti a delle meringhe.

La ricetta di oggi l'ho presa da Modern Classics Book 2 di Donna Hay, di cui vi ho parlato anche qui. Personalmente la trovo un'altra conferma (per altro per me superflua) dell'affidabilità delle sue ricette.

per circa 45 meringhe:

4 chiare d'uovo (150 ml) (la Hay consiglia di misurarle accuratamente cosa che, secondo lei, assicura la perfetta riuscita della meringa)
225 gr. di zucchero (io ho usato un bellissimo zucchero di canna, fine e dorato, del commercio equo e solidale)
2 cucchiaini di maizena
1 cucchiaino di aceto bianco (io ho usato dell'aceto di mele)

Preriscaldate il forno a 150°.
In una ciotola perfettamente pulita e asciutta cominciate a montare con le fruste le chiare d'uovo (cui si può aggiungere il tradizionale pizzico di sale) e continuate fino a quando non siano 'a neve ferma'.

Aggiungete poi gradualmente lo zucchero, sempre montando con le fruste, piano piano, senza fretta. Intrattenetevi in solitarie meditazioni o mentali colloqui con la vostra mamma nel frattempo (o con chi volete), non abbiate premura.

Quando tutto lo zucchero sarà stato incorporato perfettamente, aggiungete i due cucchiaini di maizena e quello di aceto e date un'ultima montata con le fruste, perché tutto sia amalgamato.

Foderate due leccarde con carta da forno e disponetevi mentalmente alla creazione delle meringhe: utilizzate la siringa o i due cucchiai. Scegliete voi di che morte morire. Se invece vi piace dedicarvi a questo genere di attività, godetevi l'istante, rifinite ogni meringa come se foste un ebanista: la vostra cura e la vostra attenzione non potranno che giovare al risultato finale.

Mettete nel forno ventilato per circa 30', trascorsi i quali spegnete tutto, lasciando dentro le meringhe, fino a quando non siano completamente asciutte.

Mangiatele appaiate e 'cementate' da una ganache al cioccolato, sbriciolatene alcune in una tazzina di gelato, fatene un sol boccone con un bel ciuffo di panna montata sopra, oppure gustatevele da sole, nature.

Qualunque sia la vostra scelta, mentre assaporate l'esterno croccante e leggerissimo che rivela poi l'interno morbido, zuccherino e leggermente gommoso, sentitevi avvolti dalle materne attenzioni cui ogni essere umano ha diritto, le uniche cui possiate sempre e ragionevolmente aspirare: quelle che scegliete di concedere a voi stessi.

Enjoy!

4 commenti:

  1. la prima cosa che ho pensato è quante cose si potrebbero fare con le meringhe disastrate, usando la loro polverizzazione insieme a ricotte e creme....

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  2. o be', le possibilità sono infinite!

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  3. ciao Duck, ti leggo da poco ma il tuo blog mi piace da pazzi! sabato ho fatto una cena seguendo le tue ricette ed è stata un gran successo, grazie! Ho fatto anche le meringhe e sono venute buonissime! Non mi sono mai venute le meringhe in vita mia!! Unico dubbio a quanti gradi metti il forno? Grazie mille Elisa

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  4. @ Elisa: ciao Elisa e grazie per avermi fatto notare che ho bellamente dimenticato di indicare la temperatura del forno! Sono 150°, secondo la ricetta, ma saprai anche tu che ogni forno è un mondo a sé, dunque vigila.
    Mi fa piacere se sabato sera hai riscosso successo. Grazie per essermelo venuta a dire. A presto!

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