venerdì 30 luglio 2010

Di un tempo bizzarro, di tempi incerti e di un'insalata


Son giorni strani, questi, da queste parti.

Giorni in cui l'afa e la calura umida che in genere, in questo periodo dell'anno, opprimono senza nessun garbo questa città e i suoi abitanti sono state sostituite da piogge, temporali e da una brezza fresca che a tratti fa venire voglia di infilarsi un maglione di cotone e un paio di calzini.

Io non mi lamento affatto di questo tempo bizzarro, anzi.

E sto pensando di farmi, per cena, una bella zuppa di legumi.

Ma prima, un'insalata tra le mie preferite.


per 4 persone:

Watermelon, feta and black olive salad
da Forever Summer di Nigella Lawson
(con qualche piccola modifica)

1 cipolla rossa di Tropea
2 cucchiai di aceto (io ho usato quello di mele)
4 cucchiai di olio d'oliva
700-800 gr. di anguria
125 gr. di feta
prezzemolo
menta
50 gr. di olive nere
sale e pepe


Tagliate assai finemente la cipolla.
Se avete una mandolina, usatela, evitando di affettarvi qualche polpastrello (o capita solo a me?).

Disponete gli anelli in una ciotola, aggiungete i due cucchiai di aceto e i 4 di olio, mescolate, coprite con della pellicola e lasciate riposare per circa 2 ore (meglio un'ora in più che in meno).

Quando siete pronti, pulite l'anguria dai semi (io odio farlo e in genere lascio questa incombenza alla Spia), tagliatela in pezzi non troppo grandi e mettetela nella ciotola in cui poi la servirete.

Aggiungete anche la feta - a tocchetti o semplicemente sbriciolata-, le foglie di prezzemolo, quelle di menta e le olive nere, che avrete denocciolato al momento e tagliato a metà.
Vi sconsiglio vivamente di usare le olive già denocciolate: nel migliore dei casi sono molto meno saporite di quelle con il nocciolo; nel peggiore sono semplicemente orrende.

Infine unite gli anelli di cipolla, resi trasparenti e lucidi dalla marinatura, salate (con mano leggera, c'è già la feta), pepate, mescolate delicatamente e portate in tavola.

Non sarei onesta se vi dicessi che questa insalata piacerà a chiunque.
Non sarà così.

È un piatto che suscita reazioni estreme, o almeno questo è ciò che ho notato io, non quei commenti gentili ma ambigui ("Ha un sapore complesso", oppure "Interessante...") che si accompagnano a piluccamenti tentennanti e incerti.

All'inizio aspettatevi qualche occhiata perplessa da parte di chi se la troverà in tavola, e anche qualche netto e fermo rifiuto preconcetto ("No, grazie, io prendo l'insalata di pomodori").

L'anima curiosa che invece l'assaggerà e la troverà di suo gradimento ne sarà entusiasta e se ne mangerà una tonnellata.

Se vi incuriosisce, provatela.

La cucina è uno di quei pochi luoghi al mondo in cui seguire la propria curiosità può portare tutt'al più, se proprio va tutto storto, a uscire all'ultimo minuto per andare a mangiare al ristorante - e magari viene fuori pure una serata carina e simpatica - oppure a prendersi del bicarbonato per digerire prima di andare a dormire (oddio, volendo può portare anche a bruciare o a far esplodere la cucina stessa o l'intero palazzo, oppure invece che al ristorante si può finire in ospedale per una lavanda gastrica, ma non siamo catastrofisti - per una volta).

A me questa consapevolezza fa sentire bene.
Un po' come saltare nel vuoto sapendo che sotto c'è una rete sicura, in caso di caduta.

Di questi tempi incerti e oscuri, una consapevolezza preziosa come l'oro.

Enjoy!

domenica 18 luglio 2010

Dell'entusiasmo, di ricerche e di una torta estiva


Chi mi conosce sa che una delle mie caratteristiche più evidenti è la mia capacità di entusiasmarmi davvero per poco.

Basta che mi arrivi la cartolina di un amico o che dal giornalaio ci sia la rivista che aspettavo perché la mia giornata viri irrimediabilmente al bello.

Trovare frutta o verdura particolarmente buona e saporita quando vado a fare la spesa o giungere alla soluzione di un problema pratico che magari mi assillava da un po' sono altri motivi più che sufficienti perché per tutto il giorno mi si stampi un sorriso soddisfatto sulla faccia (con grande, affettuosa e a volte sarcastica incredulità della Spia, persona di maggiori e più profonde inquietudini, di quelle che possono trovare una momentanea requie solo grazie a un piatto di fumanti spaghettini al pomodoro).

Essere rientrata finalmente in possesso di una cucina del tutto funzionante è stato per me motivo di somma gioia, una gioia che però ho dovuto attendere di celebrare (ho avuto un periodo un po' vivace dal punto di vista, diciamo così, lavorativo e ho frequentato i fornelli molto poco, direi proprio il minimo sindacale).

Ieri pomeriggio, dopo settimane di insalate e mozzarelle, couscous alle verdure e piatti di bresaola, ho finalmente deciso di festeggiare una serie di eventi fausti facendo una torta.

Volevo cimentarmi con qualcosa di nuovo e ho dunque passato una buona mezz'oretta cercando tra i miei libri di cucina una ricetta adatta (per me esistono poche attività tanto appaganti quanto questa: starmene in piedi davanti alla mia Billy rossa, o appollaiata sullo sgabello della cucina, a sfogliar libri e a confrontare ricette).

Ovviamente avrei voluto fare uno di quei dolci tipicamente invernali con ganache al cioccolato, frutta secca, spezie e arance e una parte di me non trovava niente di strano in tutto ciò.
Infine è prevalso quel che si potrebbe definire buon senso (evidentemente ce l'ho anche io), anche se non è stato facile trovare qualcosa che andasse bene per la stagione e che mi ispirasse il giusto.

Poi, finalmente, ho avuto un'illuminazione: era parecchio tempo che avevo voglia di cimentarmi con un tipico dolce inglese, la Victoria Sponge Cake (che altro non è se non la versione albionica del pan di Spagna), che viene in genere farcita con marmellata e panna montata e poi ricoperta da un leggero strato di zucchero.

Volevo una ricetta il più semplice e rapida possibile, dunque ho optato per l'All in One Sponge di Delia Smith, che è una versione assai eterodossa di quella originale.

Dopo una breve ricerca, svolta consultando il mitico Mrs Beeton's Household Management - il manuale per antonomasia della perfetta padrona di casa dei tempi vittoriani - e, ovviamente, English Puddings del caro Stefano Arturi, sono infatti giunta alla conclusione che la versione originale non preveda l'uso di burro, ma soltanto di farina, uova, zucchero, scorza di limone ed estratto di vaniglia (o di mandorla, o un po' di brandy).

Questi ingredienti danno una torta leggerissima ma che, a quanto pare, si conserva molto poco; ecco perché, in tutte le versioni 'moderne' che ho potuto mettere a confronto, è presente il burro.

La procedura spiccia e poco elaborata di Delia Smith mi ha molto soddisfatta, ma in futuro vorrei provare comunque le due versioni 'arturiane', leggermente più complesse (le trovate nel suo libro su citato, alle pagine 24-26; mi piace soprattutto il fatto che la tortiera venga imburrata e, anziché infarinata, inzuccherata).

Il risultato finale è piaciuto moltissimo alla Spia (e ciò ci ha alquanto rallegrati) e anche a me (cosa nient'affatto ovvia, dati i miei gusti).

Certo, niente a che vedere con il pan di Spagna della mamma, morbido, alto, soffice, leggerissimo.

Per quello ci vuole ben altro...


All in one sponge
di Delia Smith (da Delia's Complete Cookery Course)

per due teglie da 18-20 cm. di diametro, imburrate e infarinate e con un fondo di carta da forno

110 gr. di farina autolievitante, setacciata
1 cucchiaino di lievito per torte
110 gr. di burro, a temperatura ambiente
110 gr. di zucchero
2 uova, grandi
1 cucchiaino di essenza di vaniglia

Preriscaldate il forno a 170°.

In una ciotola capiente, setacciate (di nuovo) la farina e il lievito, tenendo alto il passino - per permettere alla farina di essere abbondantemente aerata.

Poi, molto semplicemente, unite gli altri ingredienti e, usando preferibilmente le fruste elettriche, amalgamateli perfettamente.

Se il composto fosse un po' troppo secco, aggiungete 1 o 2 cucchiaini di acqua tiepida (io li ho aggiunti) e mescolate.

Dividete il più equamente possibile il composto tra le due tortiere, livellate la superficie e fate cuocere per circa 30', trascorsi i quali tirate fuori le due tortiere e attendete 30 secondi.

Passate una spatola tutto intorno alle due torte per facilitare il loro distacco, rovesciatele su una gratella, togliete delicatamente la carta da forno e lasciate completamente raffreddare.

Solo allora potrete farcirle come più vi aggrada e cospargerle - volendo - di zucchero a velo o semolato: io ho optato per uno strato di marmellata di frutti di bosco e uno di panna montata (125 ml), perché mi sembrava che l'abbinamento fosse molto inglese e molto estivo.
Ma deve essere buonissimo anche il lemon curd (con cui ho farcito, tempo fa, una semplicissima torta allo yogurt; ne riparleremo) e, ovviamente, una qualche bella ganache al cioccolato - ma non ditelo all'Arturi.

Enjoy!

sabato 10 luglio 2010

Di antenati e di famiglie mai avute e della prozia Lina

Qualche tempo fa vi avevo presentato brevissimamente la mia prozia Lina, inquieta viaggiatrice ed accumulatrice (probabilmente compulsiva) di oggetti di ogni sorta.

Mi ero ripromessa di tornare a parlarne, una volta o l'altra, benché, a ben guardare, non siano molte le cose che so di lei.

Non so molto della mia famiglia, a dire il vero, né di quella materna né, tanto meno, di quella paterna.

Per motivi troppo complessi (e noiosi) e la cui natura mi è chiara solo in parte, sono stata cresciuta da un uomo e una donna che in qualche modo avevano chiuso, molti e molti anni prima che io nascessi, quasi ogni rapporto con i loro parenti.

Da qui una pressoché assoluta mancanza, nella mia infanzia e nella mia giovinezza, di un legame costante, affettuoso, al limite anche opprimente, con una 'famiglia'.

Zii e cugini di parte paterna (quelli di parte materna erano in Veneto e li vedevo, se possibile, ancora di meno) sono sempre stati per me persone incontrate assai di rado e in compagnia delle quali ho sempre provato un misto di imbarazzo e timore reverenziale.

Adesso mi viene da sorridere pensando alla bambina che ero, sempre a disagio e in soggezione di fronte a questi parenti 'esotici', che abitavano a Roma come noi ma in un quartiere di 'signori' e avevano case bellissime, arredate dall'architetto, che profumavano di mobili d'antiquariato, potpourri alle spezie contenuti in lucide boules d'argento, antichi lini preziosi e cera per parquet.

E che umiliazione ogni volta nel confrontare i miei vestiti dismessi dai miei fratelli maggiori e quelli delle mie cugine, sempre alla moda e provenienti dai migliori negozi della città.

Ho dei vaghi ricordi della prozia Lina, che è morta pochi anni dopo la mia nascita.

Anzi, non sono nemmeno sicura che i miei ricordi non siano in realtà soltanto reminiscenze di foto che le furono scattate in tardissima età, da me intraviste in qualche album a casa delle mie zie.

Come che sia, l'immagine che ne ho è quella di una donna alta e curva, sempre vestita di nero e con un infinito filo di perle al collo, i capelli grigi raccolti sulla nuca da innumerevoli e minuscole forcine, ed orecchini di diamanti ai lunghi lobi delle orecchie.


Eccola qui, insieme alla sorella minore Olga (la mia nonna paterna) e al fratello Umberto.

Delle due sorelle, Lina fu sempre considerata la meno attraente e per questo le fu consentito di studiare e di diventare maestra.

Benché i miei bisnonni non fossero entusiasti all'idea di avere una figlia 'lavoratrice', probabilmente pensarono che un'occupazione come quella, per la quale Lina mostrava grande passione e che si addiceva comunque ad una signorina di buona famiglia, potesse rivelarsi un' àncora di salvezza nel caso in cui la loro primogenita fosse rimasta zitella.

Ecco una delle mie foto preferite: Lina è in primo piano a destra, durante una lezione di disegno e pittura nel collegio in cui fu educata, ma io sono sempre stata attratta dalla ragazza dietro di lei, col capo chino e quell'espressione concentrata e assorta, che si indovina essere stata assai graziosa.

La sua più avvenente sorella, Olga, venne invece cresciuta in funzione di un buon matrimonio: le fu garantita una minima istruzione, le fu imposto un po' di pianoforte (a Lina il liuto) e le furono insegnati i lavori femminili (anche se da sposata preferì sempre avere le sue ricamatrici e le sue sarte).

Ma soprattutto fu rifornita di uno splendido guardaroba e gettata sul mercato delle frequentazioni giuste.

Olga si sposò a 15 anni, con un uomo (mio nonno) che aveva quasi il doppio della sua età e che lei non aveva scelto.

Di sicuro Ferdinando adorò Olga dal primo momento in cui la vide e i genitori di lei acconsentirono di buon grado al matrimonio.

Quanto a lei, sembra fosse solita ripetere alle sue figlie che non bisogna mai sposarsi con l'uomo che si ama, ma con un uomo cui si vuol bene sì.
E a giudicare dalle foto che ho visto dei miei nonni, non ho motivo di dubitare che, col tempo, Olga avesse imparato a voler bene a quell'uomo che le era stato imposto.

Lina intanto aveva tante amiche, insegnava, fece il suo dovere di crocerossina durante la prima guerra mondiale (eccola qui in una foto in studio con il fratello), e alla fine, quando tutti la pensavano ormai destinata ad una vita da zitella, si sposò. Con un uomo di cui non so nulla, a parte il nome, che da piccola mi facevo ripetere dal mio babbo come una sorta di buffa filastrocca: Bernardino Bernardoni. Un omino piccolo di statura ma polputo, che assomigliava vagamente a Alfred Hitchcock, a quanto pare di buon carattere e molto paziente - benché con un filo di innocua bizzarria - che quando la rese vedova la lasciò addolorata il giusto, ma soprattutto libera di viaggiare.

Non credo che Lina si sia mai spinta al di là delle frontiere italiane, se non per recarsi in Francia e in Svizzera. Per lo più girò tutta l'Italia, acquistando ovunque cartoline e souvenir in quantità industriali.

Dei suoi libri a me ne sono arrivati solo un paio: una grammatica e un manuale di pronuncia di lingua inglese, con i suoi appunti e gli esercizi diligentemente svolti. So che studiò da sola anche il tedesco (il francese lo aveva imparato da giovane, quando questa lingua era ancora bagaglio obbligato di qualunque educazione rispettabile).

Di lei rimane anche un nastro - ormai temo inascoltabile perché troppo vecchio -, registrato da mio padre una sera, in cui la si sente raccontare ai miei due fratelli maggiori la fiaba del grillo e la cicala.

Lina doveva essere davvero molto anziana, a giudicare dalla voce, assai gracchiante ma senza il minimo accenno di incertezza e con un meraviglioso accento lucchese, appena appena appannato dai molti anni trascorsi a Roma.

Nella disinvoltura con cui racconta la sua favola , cambiando le voci a seconda dei personaggi, rispondendo sicura alle domande dei miei fratelli, si sente quanto Lina - che di figli non ne ebbe mai - abbia vissuto sempre per e con i figli degli altri.

Peccato non averla conosciuta, non aver mai potuto sedere con lei in giardino a leggere un libro o a chiacchierare e non averla mai sentita suonare il liuto.

Peccato non aver avuto mai accesso ai suoi ricordi, non aver mai sentito nessuna delle sue storie, non averle potuto chiedere come fosse davvero il suo Bernardino, e chi fosse invece quell'Amedeo che, molti anni prima che lei diventasse la signora Bernardoni, le aveva inviato diverse cartoline.

Dentro di me, inconsapevole ma presente, vive anche la memoria di questa signorina nata nell'800.

Mi piace credere che certi miei pensieri inusuali o certi strani déja-vu, certe emozioni forti che provo di fronte ad alcune immagini o paesaggi visti per la prima volta o suscitate in me da musiche mai sentite siano in realtà modalità inedite di comunicazione scelte dai miei antenati per parlare con me.

È un pensiero confortante, che fa sentire meno soli.

mercoledì 7 luglio 2010

Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams

Devo ammettere che non ho mai avuto quella che definirei una grande passione per la fantascienza, anzi.
Direi piuttosto di essere stata sempre indifferente a questo pur nobilissimo genere letterario e cinematografico, trovandolo indicibilmente noioso e lontano dalla mia sensibilità, con buona pace di un mio fidanzato dell'università che perse i suoi migliori anni cercando di farmi cambiare avviso in proposito e di farmi leggere questo libro - senza riuscirci, ovviamente (allora).

Ho dunque cominciato a leggere questo libro armata di tutti i pregiudizi del caso e, ora lo posso confessare, soltanto perché mi è stato regalato da una carissima amica, su consiglio di una persona coltissima, del cui gusto e della cui intelligenza nessun individuo sano di mente potrebbe dubitare (sì, lo so, sono una snob).

Naturalmente mi sono dovuta ricredere. E chi mi conosce bene sa che non esiste, per me, cosa migliore che ritrovarmi a dire "Ohibò, mi ero sbagliata al riguardo" - quando si parla di libri, ché in altri campi mi secca terribilmente ammettere di non averci visto giusto - (però lo faccio, se devo farlo).

Mi piace essere sorpresa e smentita, mi piace essere presa in contropiede e ritrovarmi tra le mani un testo su cui non avrei mai scommesso la proverbiale lira e avere voglia di non lasciarlo più fino a lettura ultimata, leggendo in quel modo un po' nevrotico che ho quando un libro mi piace, per cui in parte mi affretto perché voglio finirlo, in parte invece invento i pretesti più idioti per procrastinare il momento in cui dovrò voltare l'ultima pagina e comincerò subito a sentirmi orfana.

Sono sempre stata affascinata da quegli autori che riescono a costruire interi mondi, in sé perfettamente compiuti e autonomi e coerenti, con le loro leggi, la loro lingua, la loro storia e geografia ("Ma allora dovrebbe piacerti anche la fantascienza!", diceva, esasperato, il mio fidanzato di cui sopra): so di giocarmi ogni pur minima credibilità affermando che ho amato molto la saga di Harry Potter per questo motivo, ma che non sono riuscita comunque a finire Il Signore degli anelli, che pure, per le stesse identiche ragioni, avrebbe dovuto incatenarmi alle sue pagine e invece non ci è riuscito (nonostante sia evidente a tutti la sua intrinseca superiorità letteraria rispetto alla serie della Rowling).

Ci è riuscita, invece, questa Guida galattica per gli autostoppisti, che mi ha letteralmente trasportata nell'universo fantastico e surreale costruito dall'esuberante e folle immaginazione dell'autore e che è un libro veramente e totalmente delirante, pervaso di un gusto dell'assurdo e dell'invenzione incredibilmente fresco, infantile, entusiasmante e di quell'umorismo tipicamente britannico che sa essere connubio perfetto di raffinata intelligenza e sottigliezza, ma anche capolavoro di meravigliosa, semplice, pura, rilassante idiozia.

Pensate ai Monty Python, alla faccia di John Cleese o di Micheal Palin e al loro modo di farvi ridere: non è fantastico trarre la stessa innocente e sana goduria da un libro? Io penso proprio di sì.



Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, Mondadori 1996, traduzione di Laura Serra.