venerdì 2 ottobre 2009

Dei giochi dell'infanzia, di un kit di sopravvivenza e di una torta al cioccolato


Da piccola, ricordo che giocavo molto spesso da sola.
I miei due fratelli maggiori, quando io andavo alle elementari, stavano per concludere il liceo. Finito, per loro, il tempo di giocare.
Dalla sorella che mi precede mi separano tre anni, che adesso non sono niente, ma durante la mia infanzia hanno rappresentato un baratro incolmabile tra noi due. Neanche lei è stata mai la mia compagna di giochi, se non da adulta (e rendo grazie al cielo per questo).
Amici nel quartiere non ricordo di averne mai avuti fino alla prima media, quando divenni l'amichetta del cuore della mia compagna di banco, una ragazzotta ruspante e assai poco sofisticata che un mio (perfido) fidanzato avrebbe visto bene, da grande, alla fiera del croccante di qualche paese dei castelli romani, con un camioncino munito di generatore e macchina per fare lo zucchero filato.

Sono stata dunque una bambina solitaria, con una fervida, oserei dire ipertrofica, fantasia.
Non so dire se questa familiarità con la solitudine sia un bene o un male in assoluto.
La mia modesta opinione è che sia necessario, anche da bambini, abituarsi a stare da soli, purché si riesca, quando è il momento, a uscir fuori dallo spazio individuale nel quale si è abituati a vivere, per potersi concedere la meravigliosa esperienza della condivisione. La quadratura del cerchio, obietterete voi.
Non è così immediato questo passaggio, ne convengo, ma sono sempre stata fiduciosa circa la possibilità di imparare a farlo, con gli anni, l'esperienza, l'amore per gli altri e degli altri e l'amore di sé.

Nell'infanzia, i miei giochi erano quasi esclusivamente mentali e silenziosi (a casa non erano ammessi schiamazzi, urli e 'scalmanamenti').
Intrattenevo conversazioni affettuose con gli oggetti che per qualche motivo mi erano simpatici (in particolare una sediolina impagliata, divenuta poi possedimento inalienabile del gatto Nando, e la rotella nera con i manici bianchi che mia madre, subito dopo ogni gravidanza, usava per fare gli addominali la mattina) e compivo quotidianamente una serie di gesti che avrei imparato, da adulta, a classificare come gli atti scaramantici e apotropaici, dalla funzione rassicurante, tipici degli ansiosi: classici erano, tra gli altri, non camminare nel corridoio oltrepassando con il piede le giunture tra le grosse mattonelle di graniglia del pavimento e posare la tazza della colazione in modo da sovrapporla esattamente ad una macchia tondeggiante (forse una vecchia bruciatura) sul tavolo di formica verde della cucina.

Un altro gioco bellissimo era chiudermi in bagno e fare la Signorina Buonasera, l'annunciatrice della RAI: cercando di guardare il meno possibile il TV Sorrisi e Canzoni che tenevo in mano e puntando gli occhi sul portasciugamani di fronte a me, sussurravo (per non farmi sentire dagli altri) con voce impostata e un rassicurante sorriso sulle labbra i programmi televisivi della giornata.
Sempre dal bagno mi piaceva moltissimo osservare per ore la casa del Generale, un signore decrepito che viveva con la sua governante al piano terra di un'elegante palazzina dall'altra parte del cortile e passava spesso le sue giornate tra il giardino e il salotto che su quel giardino si affacciava, sempre seduto su una poltrona, le ginocchia coperte, estate come inverno, da un plaid. Ne immaginavo il passato, la famiglia (della quale non c'era traccia), le abitudini.
Nel palazzo accanto, invece, la mia casa preferita era quella di un'anziana professoressa di inglese in pensione, che ogni pomeriggio, nel suo femminilissimo studio, su una poltrona accanto ad un sécrétaire dai mille cassetti dove immaginavo, un tempo, avesse tenuto i compiti in classe dei suoi allievi, leggeva per qualche ora alla luce di una lampada con un paralume di seta rosa antico. Per lei fantasticavo un marito ormai defunto ricchissimo e galante e orde di adoratori che tentavano inutilmente di espugnare il suo algido e soddisfatto cuore di vedova.

Avevo inventato, poi, dei giochi di carattere 'linguistico': scomponevo ogni parola in blocchi sillabici da mettere in ordine alfabetico, creando così una lingua tutta mia.
Questo gioco mi piaceva moltissimo, perché gli attribuivo anche la magica capacità di farmi capire se qualcuno fosse buono o cattivo. Se il suo nome e il suo cognome, scomposti secondo le mie regole, risultavano essere già perfettamente in ordine alfabetico, la persona era indubbiamente buona, altrimenti no. Ovviamente, vi lascio immaginare in quale dei due gruppi mi inserissi io.

Non mi vergogno a dire che ancora adesso mi viene spontaneo, in certi momenti in cui sono sovrappensiero, giocare a questo gioco.
Ascoltando parlare qualcuno, posso inavvertitamente ritrovarmi a scomporre ogni singola parola che dice, finendo poi per perdere completamente il filo del suo discorso, passando, nella migliore e più benevola delle ipotesi, per una persona distratta e assente; nella peggiore, per una maleducata o una demente.

Tra gli altri miei giochi c'era (e c'è ancora) anche quello del kit di sopravvivenza.
Immaginavo di comporne uno mio, personale, con dentro tutto quello che ritenevo essenziale e fondamentale per la mia vita e il mio benessere.
Questo kit si trasformava in continuazione, seguendo puntualmente i miei innamoramenti e i miei entusiasmi e registrando, con spietata puntualità, anche i miei repentini cambiamenti di gusti.
C'è stato un periodo in cui suo elemento essenziale era la nave dei pirati dei Playmobil, insieme a un orrendo portamonete di plastica rosso di Hello Kitty e un altrettanto orrendo paio di zoccoletti di vernice bianca, compratimi (sa il cielo perché) da mia madre, ai quali ero attaccata morbosamente.
Qualche anno dopo, invece, non avrei potuto fare a meno di Camera con vista di Edward Morgan Forster, dei dischi degli Smiths, di uno zaino peruviano beige e grigio e di un paio di pantaloni neri comprati al mercatino dell'usato che portai fino allo sfinimento, fino a quando l'austera professoressa di matematica del liceo mi proibì di presentarmi in classe con indosso 'quegli stracci indecenti', pena una nota disciplinare.

Il kit di sopravvivenza non ha mai compreso solo oggetti materiali, ma anche stati d'animo, sensazioni, atmosfere, ricordi.
La visione, per esempio, di me seduta sul divano, in un pomeriggio autunnale limpido e fresco, che leggo un bel libro con una tazza di tè verde al gelsomino a portata di mano e almeno una gatta mollemente sdraiata accanto a me, ha la capacità di calmarmi istantaneamente: ha la forza del ricordo di tanti e tanti momenti simili e piacevolissimi, da me già vissuti, e dell'anticipazione di tutti quelli che verranno. La gratificazione e la consolazione sono immediate.

Negli anni, il mio kit ha avuto la tendenza a stabilizzarsi: ci sono delle cose che da tempo ne fanno parte e ne costituiscono il nucleo essenziale. Oltre, ovviamente, alle persone cui sono legata, ci sono i libri, le mie due gatte, i lavori manuali cui mi dedico, lo spazzolino elettrico e almeno un litro di latte nel frigo, dovunque io vada.

Ultimamente, si è aggiunta anche questa ricetta di torta al cioccolato.
E' facilissima e riesce sempre: basta seguire le istruzioni e non si può sbagliare, e poi anche solo una fettina ridicola lascia soddisfatti e appagati.
E' una torta che si presta a infinite varianti: può essere farcita, glassata, e all'impasto si può sicuramente aggiungere della farina di mandorle, del caffè, della frutta secca, un paio di cucchiai di liquore e via così.
Io la preferisco così com'è e se ci riesco cerco di mangiarla il giorno dopo, quando tutto il profumo del cioccolato fondente comincia a farsi sentire in modo più intenso e deciso.

da Twelve di Tessa Kiros:

per una torta di 24 cm di diametro

200 gr. di cioccolato fondente
6 cucchiai di latte
100 gr. di burro
4 uova, separate
150 gr. di zucchero
50 gr. di farina
1 cucchiaino e 1/2 di lievito

Preriscaldate il forno a 180°.
Imburrate e infarinate una teglia.
Fate fondere a bagnomaria il cioccolato insieme al latte e al burro.
Montate i 4 tuorli con lo zucchero. Unitevi il cioccolato.
Aggiungete la farina setacciata insieme al levito.
Montate a neve soffice le chiare e aggiungetele delicatamente al composto.
Infornate e fate cuocere per 35', facendo la prova stecchino.
Servite con dello zucchero a velo o con un po' di panna montata non zuccherata.

Enjoy!

7 commenti:

  1. Il mio nome scomposto temo mi renda pessima, ai tuoi occhi.
    Ma... che incanto quella bambina fantasiosa e ricca di sogni, giochi, astrazioni!
    E quel kit di sopravvivenza, straordinaria invenzione: me ne creerò uno per affrontare i mesi di privazioni che mi attendono! Tu ci finirai dentro, di diritto e d'imperio, senza neanche essere interpellata :-)
    Paola

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  2. Che bello! E che onore far parte, proprio io, di un kit di sopravvivenza!
    :-)

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  3. io ormai tendo a ripetermi, temo. ma che piacere entrare qui da te e vedere un nuovo scritto. faccio silenzio tutto intorno e mi predispongo a qualche minuto di vero piacere. grazie.
    se poi vedo anche paola e posso approfittare per salutarla allora sono proprio una donna contenta :)

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  4. sono sempre felice di far da 'sensale'!
    :-)

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  5. Cara Duck, è successo! Questa è la seconda domenica piovosa che, per la gioia del signor valigiesogni, mi chiudo in cucina e preparo il dolce per il tè pomeridiano! Oggi è stata la volta di questa deliziosa quanto semplice torta al cioccolato, domenica scorsa invece è stato il turno della torta al limone e mandorle (terminata il giorno successivo). Il signor valigiesogni ringrazia la Musa ispiratrice!
    Buona domenica, mia cara.

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  6. @ valigiesogni: ma che bella notizia! Sono proprio contenta che tu ti sia cimentata e, mi pare, con un certo successo. Bene bene, la musa ispiratrice ringrazia con grande calore il signor valigiesogni per averla ringraziata! Ciao cara, un abbraccio

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  7. ciao Duck... gironzolavo in rete in cerca di una torta al cioccolato e ho trovato un bellissimo post (oltre alla torta in questione che ora mi annoto).
    Con qualche eco di malinconia x qualche attimo sono tornata bambina...
    Buona giornata :-)

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