mercoledì 29 dicembre 2010

Le poesie del mercoledì: George Gray - Edgar Lee Masters

La prima volta che ho letto questa poesia credo avessi 17 o 18 anni ed ero ossessionata da Cesare Pavese.

Come molti sanno, fu grazie a lui che Fernanda Pivano conobbe L'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, dalla quale rimase tanto incantata da volerla tradurre in italiano "per uso personale", come si suol dire: quel suo manoscritto, tenuto in un cassetto della sua scrivania e nascosto con pudore, finì poi nelle mani di Pavese, che convinse Giulio Einaudi a pubblicarlo.

Lunga è la lista di intellettuali, poeti, musicisti e persone comuni (se mai è pensabile usare un simile aggettivo per le persone) che negli anni questa straordinaria raccolta di poesie ha sedotto e turbato.

Forse proprio le parole di Fernanda Pivano possono aiutare a capire le ragioni di tanta fascinazione:

Non c'è dubbio che per un'adolescenza come la mia, infastidita dalla roboanza dell'epicità a tutti i costi in voga nel nostro anteguerra, la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso, rivolto a piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e impastati soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza; e col tempo l'esperienza si approfondì, individuando, coi temi di quel contenuto, il mondo che lo ispirava: la rivolta al conformismo, la brutale franchezza, la disperazione, la denuncia della falsa morale, l'ironia antimilitarista, anticapitalista, antibigottista: la necessità e l'impossibilità della comunicazione. In questi personaggi che non erano riusciti a farsi "capire" e non avevano "capito", dal loro dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile, scaturiva un fascino sempre più sottile a misura che imparavo a riconoscerli; e per riconoscerli meglio presi a tradurli, quasi per imprimermeli nella mente.

Tante le voci di questo cimitero di collina che mi emozionano e mi parlano (e negli ultimi tempi trovo sempre più vera quella di Dorcas Gustine).

Ma quella di George Gray rimane, da sempre, quella che più sento mia.
Oggi, come al tempo dei miei 17 anni, mi ricorda quanto e che cosa si rischi a non vivere la propria vita.


****

George Gray

Tante volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l'amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l'ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell'inquietudine e del vano desiderio -
è una barca che anela al mare eppure lo teme.

martedì 28 dicembre 2010

Di maratone culinarie, di eleganza natalizia e di una crema da spalmare al caffè

Esattamente come l'anno scorso, anche quest'anno non sono riuscita a scrivere il post pre-natalizio con tutte le ricette delle varie conserve che ho deciso di regalare.

E dire che, rispetto a quella del 2009, la produzione di quest'anno è stata quasi industriale (chiedete alla Spia quanti chili di cioccolata e burro e litri di panna ed etti di nocciole e uvetta l'ho mandato a comprare negli ultimi giorni): credo di aver sfornato almeno una ventina di teglie di biscotti e preparato una trentina di vasetti di ogni genere.

Sono praticamente rimasta chiusa in cucina per 3 giorni.

E poi la mattina del 25, prima di salire su un treno che mi portasse a Roma, di corsa a preparare etichette, biglietti, pacchi, sacchetti.

E dove mettere tutta quella roba evitando indesiderate esondazioni di sciroppo, olio d'oliva e creme?
Credo di essere stata l'unica persona in tutta Italia ad essere andata a un pranzo natalizio con il carrello della spesa dell'Ikea (un'elegantona, ne converrete).

Ovviamente di fare fotografie non se n'è nemmeno parlato: ho fatto tutto talmente di corsa che l'ultimo dei miei pensieri è stato quello di immortalare i risultati delle mie fatiche.

Della produzione su scala industriale di regali mangerecci di quest'anno restano dunque poche testimonianze, per non dire pochissime.

A voi scegliere di credermi o sospettarmi di millantare imprese mai compiute.

Intanto ecco una crema da spalmare che pare abbia riscosso grande successo.
Praticamente è quasi una ganache, e dunque è molto semplice, talmente semplice che mi pare non sia quasi una ricetta (il che è probabilmente vero).

L'ho trovata in Je fais mes pâtes à tartiner, grazioso libercolo scritto da Rachel Khoo e pubblicato da quei furboni della Marabout.
Ne riparleremo.

Per ora, ecco qui la pâte au chocolat noir-moka.

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100 gr di cioccolato fondente al 70%, tagliato a pezzetti (per me 150)
100 gr di cioccolato al latte, tagliato a pezzetti (per me 50)
140 ml di panna liquida
50 gr di burro, tagliato a dadini
60 ml di caffè forte
un pizzico di sale

Scaldate in un pentolino la panna, il sale e il caffè.
La panna non deve bollire.

Versatela sui due cioccolati e sul burro, attendete qualche istante, poi amalgamate.

Ecco.
Finito.
Non un grande sforzo, vero?

Se regalate questa crema, ricordatevi di accludere sull'etichetta alcune informazioni: per esempio che va tenuta in frigo e consumata entro 2 settimane.
Ho l'impressione, però, che non duri tanto a lungo.

Enjoy!

domenica 26 dicembre 2010

Sunday Music: Costruire - Niccolò Fabi

Non conosco molto Niccolò Fabi, per non dire che non lo conosco affatto.

Mi ricordo quando andò a Sanremo la prima volta perché la sua canzone mi sembrò divertente e piuttosto originale nella vetrina generalmente ammuffita e deprimente del festival e perché, ma sì, è sciocco non dirlo, trovai che fosse un gran bel fanciullo, proprio di mio gusto.

Poi, di recente, non ho potuto non sapere del suo dramma, ovviamente.

Qualcuno ha pensato che abbia gestito questo suo dolore tanto personale in maniera discutibile (coinvolgendo i fan, scrivendone su Facebook, rilasciando interviste etc); io non ho un'opinione in proposito, ne so troppo poco per poterne esprimere una - lo ripeto, non è un cantante che seguo.

Mi auguro soltanto che qualunque cosa abbia fatto, non abbia addolorato nessuno e gli sia servita per stare meglio e in pace con la sua coscienza.

Questa sua canzone mi piace molto.

Se avete un attimo di tempo, provate ad ascoltarne le parole: io le trovo bellissime.

Mi sembra una grande consolazione che ci sia qualcuno, ancora, che parli di 'costruire' (un rapporto, un'amicizia, un amore, un legame filiale, un lavoro), che per una volta tanto non canti il fascino della novità, il bisogno ansioso di cambiare, di consumare ogni esperienza e persona con bulimica impazienza ma che, al contrario, celebri la bellezza dell'impegno, la poesia del "giorno dopo giorno", spesso incompresa e soffocata dalla fatica della continuità, dallo sforzo che richiede la cura e il nutrimento, dall'apparente assenza dell'eccitazione di ogni inizio.

Quanta saggezza in questi versi:

nel mezzo c'è tutto il resto
e tutto il resto è giorno dopo giorno
e giorno dopo giorno è silenziosamente
costruire

e costruire è sapere
e potere
rinunciare
alla perfezione


Buona domenica a tutti!

(Grazie a Shiva)




mercoledì 22 dicembre 2010

Le poesie del mercoledì: Ringraziamento - Wislawa Szymborska

Chi non conosce (e non ama, aggiungerei io) Wislawa Szymborska?

Devo alla suocera, qualche anno fa, il mio primo incontro con una sua raccolta di poesie: per me è stato amore a prima vista.

Mi ha subito conquistato la voce di questa poetessa, il suo timbro pervaso spesso di ironia leggera, di umorismo sottile e stralunato, ma anche di tenerezza, nostalgia, passione.

Quelli della Szymborska sono occhi ben aperti sul mondo: c'è molta verità e molta realtà nelle sue poesie, nessuna posa da poeta ispirato, in contatto con dimensioni sublimi e profonde dell'essere cui i comuni mortali, le cui orecchie sono miseramente sorde ai richiami delle muse, non hanno accesso.

Non mancano atmosfere a tratti visionarie, spesso nate da suggestioni semplici, quotidiane; per la Szymborska, meditazioni filosofiche e morali o introspezioni chirurgiche e precise nella propria nebulosa interiorità possono essere fatte anche solo osservando una banalissima cipolla.

Come nel caso di Vivian Lamarque, è stato difficile per me scegliere una poesia, una soltanto.

Alla fine ho pensato che questa, in questo esatto momento della mia vita, proprio oggi, qui, in questo studio nel quale sto scrivendo questo post, sia quella che mi rappresenta forse di più.


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Ringraziamento


Devo molto
a quelli che non amo.

Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.

La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.

Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l'amore non può darlo,
né riesce a toglierlo.

Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come una meridiana,
capisco
ciò che l'amore non capisce,
perdono
ciò che l'amore mai perdonerebbe.

Da un incontro a una lettera
passa non un'eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.

I viaggi con loro vanno sempre bene,
i concerti sono ascoltati fino in fondo,
le cattedrali visitate,
i paesaggi nitidi.

E quando ci separano
sette monti e fiumi,
sono monti e fiumi
che trovi su ogni atlante.

È merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perché mobile.

Loro stessi non sanno
quanto portano nelle mani vuote.

"Non devo loro nulla" -
direbbe l'amore
sulla questione aperta.


(da Wielka liczba [Grande numero], 1976)

domenica 19 dicembre 2010

Sunday Music: Tears Dry on Their Own - Amy Winehouse

Non c'è molto da scrivere, a parer mio, su Amy Winehouse.

È un genio, io credo.

Un talento vero, potente, originale.

Un personaggio così inusuale e insieme così stereotipato - l'ennesima star dalla vita più che spericolata, perennemente in lotta con la consueta ansia di autodistruzione che al solito si manifesta, ahimé, con le più varie e letali forme di dipendenza.

Sembra incredibile abbia meno di 30 anni e abbia vissuto la vita che finora si è trovata a vivere (o che ha scelto di vivere, a seconda dei punti di vista).

Sembra assurdo che un dono come quello che evidentemente ha non riesca ad esprimersi se non anche attraverso tutta la consueta gamma di abiezioni e abbrutimenti di cui i giornali si affrettano ogni volta, con impietosa dovizia di particolari, ad informarci.

Questa non è forse tra le sue canzoni più rappresentative o più belle, ma è di sicuro tra le mie preferite.

Ci avverto una nota di speranza che, mi piace pensare, possa una volta o l'altra convincere questa talentuosa e tormentata fanciulla che non c'è davvero bisogno di infliggersi ciò che finora si è inflitta.

(Grazie a Francesca)



venerdì 10 dicembre 2010

Del cane pavloviano e di assi nella manica o di un gratin di patate

Mi ha sempre affascinata la strana mistura di complessità e semplicità della Spia.

Per certi versi è un uomo complicato e circonvoluto, con meccanismi e dinamiche nient'affatto prevedibili e scontati.

Per altri, invece, è semplice e comprensibile come un organismo monocellulare dal quale ci si può attendere una precisa gamma di determinate reazioni e non altre, e sempre quelle, e sempre secondo determinati ritmi e tempi e modalità.

Per esempio, un po' come il cane pavloviano, la Spia non può che reagire con un inerme e riconoscente sorriso ogni volta che gli preparo questo gratin di patate, non importa quanto abbia desiderato, fino a un minuto prima, spaccarmi la testa o usarla come bersaglio per tirare a freccette.

(Sia detta per inciso una grande banalità: se anche il vostro amato bene è un po' come la Spia, vi consiglio di procurarvi un paio di ricette di piatti da lui/lei prediletti, da tirar fuori - come assi nella manica - al momento opportuno. Scegliete voi le occasioni, ma sceglietele con saggezza e anche, se posso permettermi di dirlo, con magnanimità: avere simili frecce al proprio arco significa prendersi anche delle responsabilità e non approfittare troppo del proprio potere!).

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Creamy Potato Gratin da Nigella Bites di Nigella Lawson

(per 3 persone, o per una Spia)

600 gr. di patate
160 ml di latte
160 ml di panna
1 cipolla intera, sbucciata
1 spicchio d'aglio, passato allo spremiaglio
1 cucchiaino di sale
burro


Preriscaldate il forno a 240°.

Pelate le patate e tagliatele a fettine spesse circa 1 cm (io ho usato un'affilatissima mandolina); mettetele in una casseruola insieme a tutti gli altri ingredienti, tranne il burro.

Fate sobbollire dolcemente fino a quando le patate non si siano ammorbidite, diciamo 15'-20' - ma molto dipenderà dal loro spessore: tenete presente, però, che non dovete ottenere un puré: le fette devono essere ancora riconoscibili, ma sul punto di sfarsi.
Se vi sembra che latte e panna si siano troppo ridotti, aggiungetene un po', senza esagerare.
(La casseruola avrà un fondo incrostato da far paura ma non fatevi prendere dal panico: lasciatela in ammollo, volendo con poco sapone per lavastoviglie, e pulirla non sarà il delirio che immaginate. È un consiglio di Nigellona, non mio, e funziona).

A questo punto prendete una pirofila, ungetela leggermente con del burro e rovesciateci dentro le patate e tutta la loro crema.
Qualche fiocchetto di burro e in forno per circa 15': in alcuni punti le patate dovranno essere quasi bruciacchiate e la crema dovrà gorgogliare come lava.

Vi consiglio di attendere almeno una decina di minuti prima di avventarvi sopra questa squisitezza: la temperatura è davvero assai prossima a quella di fusione del criceto (come diceva Lorenzo/Guzzanti).


Enjoy!

(Altra parentesi: la prossima settimana sarò nuovamente latitante. Vado a Bruxelles, a bearmi - finalmente - dell'atmosfera natalizia del grande Nord. Sognavo di farlo da molti anni e ora ho deciso e vado! A presto!)


mercoledì 8 dicembre 2010

Le poesie del mercoledì: Senza occhiali intravedo - Vivian Lamarque

(Lo scrivo tra parentesi perché un po' mi imbarazza, anche se mi fa un piacere immenso sapere di avere un posto tutto mio in quel blog bellissimo che è the t-time, ma proprio ieri Tiziana ha pubblicato un lungo, lunghissimo post su di me, nell'ambito di quella sua bella iniziativa che va sotto il nome di perché a me piace con la quale promuove "la creatività femminile" sul web.

Se avete voglia e tempo, andate a leggere qui e capirete bene perché da ieri pomeriggio c'è un sorriso beatamente idiota stampato sul mio faccione miope, faccione che avrete anche il privilegio di vedere, visto che c'è anche una mia foto.
Aaargh, che colpo!
Vi siete ripresi? Bene, adesso se volete e non avete niente di meglio da fare, restate pure qui, sedetevi sulla poltrona - ché forse ne avete bisogno - e leggetevi la vostra poesia del mercoledì).


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Mi è molto difficile scrivere il post di oggi, perché non so quale poesia scegliere.

Persino adesso, proprio in questo momento, non ho ancora deciso.

È così difficile nel caso di Vivian Lamarque, una delle mie poetesse preferite.

In questi giorni, per preparare questo post, ho ripreso in mano il volume della Mondadori che raccoglie tutti i suoi testi di poesia dal 1972 al 2002.

Ogni volta che potevo, quando avevo un momento di tempo, lo sfogliavo: una poesia letta in piedi mentre mescolavo il risotto, un'altra mentre attendevo che scattasse il bollitore per versare l'acqua calda nella teiera, un'altra ancora mentre la Spia si lavava i denti, prima che fosse il mio turno di usare il bagno.

Non so decidere, davvero.

Perché Vivian Lamarque ha una voce particolare che suona evidentemente assai familiare al mio orecchio e praticamente ogni cosa che ha scritto e che scrive trova la strada per arrivare a me.

A volte è una strada brevissima, fulminea, diretta; altre è un sentiero più tortuoso, che a tratti scompare alla vista, sembra perdersi, poi torna ed arriva comunque dove deve arrivare.

Come canta lei la nostalgia dell'amore, dell'amore impossibile, negato, sfuggente, come canta lei il dolore del desiderio non corrisposto, forse nessuno (e le sue poesie dedicate al suo analista sono capolavori, da questo punto di vista).

Ma non aspettatevi parole tetre, pesanti, di intensità morbosa.
Al contrario.
Se aprirete un suo libro vi troverete piume, un'incantevole alchimia di leggerezza, ironia, tenerezza appassionata, goffaggine, entusiasmo infantile, malinconia, umorismo.

Non posso certo copiare l'intero volume, dunque eccovi la vostra poesia di oggi.

È una sola, e nemmeno delle più rappresentative e famose, la prima che mi è capitata sott'occhio stamattina.

Ma se volete farvi un regalo, andate a cercare anche le altre, leggetele.
Mi ringrazierete, ne sono certa.


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Senza occhiali intravedo


Senza occhiali intravedo
che quasi quasi mi vuoi bene
infatti pressappoco stai sorridendo proprio a me.
Ma con gli occhiali non si scherza
metto a fuoco perfettamente la tua figura seduta
così moderatamente gentile
e bendisposta nei miei confronti
sorridente per buona volontà.

(da L'amore mio è buonissimo, 1978)

domenica 5 dicembre 2010

Sunday Music: Subdivison - Ani Di Franco

Per anni ho acquistato libri come altre donne acquistano vestiti e scarpe: in maniera compulsiva, sconsiderata, bulimica.

A volte anche solo perché mi aveva colpito la copertina, o perché un'amica di un amico del cugino di un mio amico aveva sentito dire da un amico del fratello del suo ragazzo che quel libro era bello.

Ovviamente ho preso molti granchi nella mia storia di consumatrice di libri.
Di cose francamente e irredimibilmente brutte, per fortuna, me ne sono capitate tutto sommato poche.
Pur facendomi guidare a volte dall'istinto, mi sono sempre mantenuta entro certi limiti per me invalicabili: niente letteratura sentimental-spazzatura, niente best sellers del mese, niente libri presentati in tv in qualche programma orrendo, niente edizioni sciatte e impresentabili.

Anche così, però, qualche delusione l'ho patita. E ci sta.
Ma anche leggere libri brutti o insulsi è istruttivo.
Quanto meno fa capire quali siano i propri gusti in fatto di letture, di cosa si ha bisogno, che cosa si cerca nei libri.
Non è poco.

Poi, da quando sono tornata in Italia definitivamente, ho scoperto che i libri che veramente mi interessa acquistare e possedere sono pochi. Sono soprattutto classici, libri di cucina, manuali pratici, e i testi di pochissimi autori di cui voglio avere tutto.
Per il resto esistono quelle meravigliose e meritevoli istituzioni che sono le biblioteche.

Bene, direte voi. Così risparmierai un bel po' di soldi, anche.
Purtroppo no. Perché adesso invece che libri acquisto musica.

Ah comprare musica, che emozione!
Portarsi a casa propria canzoni da ascoltare e ascoltare e ascoltare, secondo l'umore del momento, le suggestioni del tempo atmosferico, le emozioni che ci si smuovono dentro: che lusso, che ricchezza, che orizzonti infiniti da esplorare.

E quante scoperte entusiasmanti in questi ultimi anni.
Quanti autori nuovi per me, trovati per caso, ma per lo più presentatimi da amici, persone che mi sono vicine, che mi hanno detto: "Ascolta questo e dimmi che ne pensi".

Ma quant'è bello fare ascoltare musica a qualcuno e vedere sul suo viso accendersi la stessa emozione che proviamo noi.
Che modo semplice, magico, di raffinare e moltiplicare in modo esponenziale il proprio punto di vista sul mondo, di risvegliare la propria sensibilità a temi e suggestioni che altrimenti ci sarebbero lontani, estranei e che invece contribuiscono a far di noi esseri umani più completi, più comprensivi, più complessi.
Che modo splendido, immediato, potente di essere vicini.

Buona domenica!







mercoledì 1 dicembre 2010

Le poesie del mercoledì: Io ti amo - Stefano Benni

Il mio primo incontro con Stefano Benni è avvenuto circa 2o anni fa, in un pomeriggio autunnale, su una panchina in piazza Cola di Rienzo, a Roma.

Appena uscita dalla libreria dove avevo acquistato Il bar sotto il mare, per l'impazienza di leggerlo subito mi sedetti sulla prima panchina che trovai e, incurante del freddo, stetti lì a leggerlo fino all'ultima pagina.

Poi partii alla ricerca dei suoi libri precedenti: alcuni li ho amati molto, altri meno, ma in tutti ho ritrovato la voce inconfondibile del loro autore, quell'umorismo a tratti sottile, a tratti perfido, venato di malinconia o virante al surreale, quello sguardo sulla realtà che è a volte tenero, a volte giocoso, e sempre intelligente e vibrante di curiosità.
Così come ho avuto un periodo Woody Allen e uno Oscar Wilde, ho avuto sicuramente anche un periodo Stefano Benni, concluso - ahimé - diversi anni fa.

Nel pieno del mio periodo Benni, uscì - con mia grande gioia - una sua raccolta di poesie, Ballate, uno dei libri cui sono maggiormente affezionata.

Ce ne sono alcune brevissime, che mi piacciono tanto, come La giraffa:

La giraffa ha il cuore
lontano dai pensieri
si è innamorata ieri
e ancora non lo sa

o ancora L'animale più veloce del mondo:

Il giaguaro in gabbia,
prodigio di natura
fa più di centoventi
sbadigli all'ora

e l'arguta L'amante distratto:

- Gina, forse nel nostro amor
cambiò qualcosa?
"Forse... non sono Gina,
mi chiamo Rosa".

Ma riprendendo in mano queste Ballate, non posso non ricordare la voce di un mio amico che, in un altro pomeriggio di qualche anno dopo, su un'altra panchina, mi declamò, stile "Gassmann legge Prévert", la seguente poesia (e a ripensarci, ancora mi viene da ridere):


****

Io ti amo

Io ti amo
e se non ti basta
ruberò le stelle al cielo
per farne ghirlanda
e il cielo vuoto
non si lamenterà di ciò che ha perso
che la tua bellezza sola
riempirà l'universo

Io ti amo
e se non ti basta
vuoterò il mare
e tutte le perle verrò a portare
davanti a te
e il mare non piangerà
di questo sgarbo
che onde a mille, e sirene
non hanno l'incanto
di un tuo solo sguardo

Io ti amo
e se non ti basta
solleverò i vulcani
e il loro fuoco metterò
nelle tue mani, e sarà ghiaccio
per il bruciare delle mie passioni

Io ti amo
e se non ti basta
anche le nuvole catturerò
e te le porterò domate
e su te piover dovranno
quando d'estate
per il caldo non dormi
E se non ti basta
perché il tempo si fermi
fermerò i pianeti in volo
e se non ti basta
vaffanculo

(da Ballate, 1991)

domenica 28 novembre 2010

Sunday Music: Martha - Tom Waits

Oggi voglio farvi due regali.

Il primo è che sarò breve.
Il secondo è questa cosa di Tom Waits.

Sarò breve perché voglio lasciare spazio alle parole di questa canzone, che canta di un amore mai dimenticato.

Tema abusato quant'altri mai, ne convengo.

Ma guardate con quanta semplicità, con poche immagini, Waits riesce a creare una storia e dei personaggi veri, reali.

Non sentite anche voi di voler bene a Tom Frost che cerca dopo più di 40 anni la sua Martha?

Non provate un empito di struggente tenerezza nel pensare a questo signore al telefono, emozionato, sull'orlo delle lacrime per la commozione?

Leggete anche solo l'ultimo verso: quanta poesia in quelle poche parole: And I remember quiet evenings/Trembling close to you...

Non importa quante volte io abbia ascoltato queste parole e questa voce.
Ogni volta finisco per commuovermi.

Ma come si fa a rimanere insensibili quando si sente la voce di Tom Waits, arrochita da milioni di sigarette e sbronze e chissà quante ore di malinconie e solitudine?


****

Martha
- Tom Waits (da Closing Time, 1973)

Operator, number, please:
It's been so many years
Will she remember my old voice
While I fight the tears?
Hello, hello there, is this Martha?
This is old Tom Frost,
And I am calling long distance,
Don't worry 'bout the cost.
'Cause it's been forty years or more,
Now Martha please recall,
Meet me out for coffee,
Where we'll talk about it all.

And those were the days of roses,
Poetry and prose and Martha
All I had was you and all you had was me.
There was no tomorrows,
We'd packed away our sorrows
And we saved them for a rainy day.

And I feel so much older now,
And you're much older too,
How's your husband?
And how's the kids?
You know that I got married too?
Lucky that you found someone
To make you feel secure,
'Cause we were all so young and foolish,
Now we are mature.

And those were the days of roses,
Poetry and prose and Martha
All I had was you and all you had was me.
There was no tomorrows,
We'd packed away our sorrows
And we saved them for a rainy day.

And I was always so impulsive,
I guess that I still am,
And all that really mattered then
Was that I was a man.
I guess that our being together
Was never meant to be.
And Martha, Martha,
I love you can't you see?

And those were the days of roses,
Poetry and prose and Martha
All I had was you and all you had was me.
There was no tomorrows,
We'd packed away our sorrows
And we saved them for a rainy day.

And I remember quiet evenings
Trembling close to you...








venerdì 26 novembre 2010

Di Milano, di suocere e di zaletti


Inutile stare a ripeterlo, l'ho detto e ridetto fino alla nausea (vostra): a me Milano piace un sacco.
Ecco.

Alla faccia delle espressioni talvolta incredule, talvolta di commiserazione, che si dipingono sul volto dell'interlocutore di turno quando mi sente affermare con entusiasmo che io a Milano ci sto bene, benissimo.

Espressioni che diventano di puro sconcerto, quasi sospettose, quando, tra le ragioni di questo mio grande amore, annovero anche il fatto che lì vive la suocera.

La suocera di cui ho parlato tante volte, spesso ingestibile, a volte debordante di euforie inopportune ma capace anche di cupissime apatie, a tratti brusca e scorbutica ma più spesso impacciata e affettuosa, è per me la suocera quasi perfetta.

Soprattutto quando, come regalo di benvenuto, mi fa trovare un vassoio gigantesco di zaletti, i famosi biscotti di farina gialla e uvetta (d'obbligo citare la loro presenza ne La buona moglie, commedia di Goldoni del 1749) che - strano a dirsi - mi piacciono da matti (e lei lo sa).

Dico "strano a dirsi" perché non si tratta del genere di biscotti che abitualmente mi piacciono (intendo dire, ovviamente, quelli enormi con 3 etti di cioccolato e noci o nocciole o mandorle): sono secchi, semplici; eppure, potrei mangiarmene ogni volta un badalucco.

La ricetta, della suocera, non si sa da dove venga.
Me l'ha data al telefono leggendola da un ritaglio di una qualche rivista femminile degli anni '70 che comprava lei, incollato al suo quaderno delle ricette, un raccoglitore gonfio ai limiti del collasso, in cui, da diverse decine d'anni, segna - in modo anarchico e confuso e delirante, l'unico modo che conosca di fare le cose - le sue ricette.

Di solito in questo blog propongo sempre ricette tratte da libri, perché è soprattutto di libri che mi piace parlare e perché, molto banalmente, è soprattutto attraverso i libri che ho imparato a cucinare.

Ma stavolta faccio volentieri un'eccezione.
Questi biscotti sono troppo buoni.


Zaletti della suocera

(per circa 40 biscotti)

150 gr di farina gialla
50 gr di farina 0
50 gr di maizena
100 gr scarsi di zucchero
100 gr di burro
1 uovo intero
75 gr di uvetta (fatta rinvenire in un po' di acqua tiepida)
scorza di limone
1 cucchiaino di lievito
sale

Preriscaldate il forno a 170°.

Il procedimento che ho seguito è molto semplice: si prendono tutti gli ingredienti - tranne le uvette - e si schiaffano nella coppa del robot da cucina.
Si aspetta che si siano amalgamati e si estrae il composto, che sarà molto morbido e piuttosto appiccicoso.

A quel punto lo si trasferisce in una terrina, si aggiungono le uvette strizzate e si mescola ancora.

Avrete sicuramente bisogno di lavorare su una superficie abbondantemente infarinata e forse, come me, dovrete aggiungere anche altra farina all'impasto. Regolatevi voi. Non esagerate, ma fate in modo di riuscire a lavorarlo senza farvi venire una crisi isterica.

Comunque, lavorando sulla superficie abbondantemente infarinata di cui sopra, create dei rotolini di circa 5-6 cm di lunghezza e disponeteli su una teglia foderata con carta da forno a una certa distanza l'uno dall'altro (si espandono in cottura).

Nel mio forno ci hanno messo circa 10'.

Non sono bellissimi?

Enjoy!

mercoledì 24 novembre 2010

Le poesie del mercoledì: abbozzo - Antonia Pozzi

La poesia di oggi l'ho letta una sera, prima di andare a dormire, in questa settimana trascorsa a Milano.

Era molto tardi e fuori pioveva; la casa era immersa nel silenzio.

La lettura di questa poesia mi ha travolta.

Credo anche di averla sognata, quella notte.

Ho un ricordo vago di un buio denso e silenzioso, inquieto, vibrante di una disperata nostalgia, di qualche segreta, misteriosa, dolente attesa.

Sono stata a lungo indecisa se riportarne qui i versi.

Perché l'ultima è un'immagine potentissima e, credo, volutamente ambigua e disturbante nel suo richiamo ad un'intensa esperienza anche sessuale, oltre che sentimentale.

Ho trovato a lungo imbarazzante e fuori luogo condividere queste parole con altri, in uno spazio come questo, che vuole essere leggero e nasce conscio di tutti i suoi limiti: perché questi versi mi sembrano davvero troppo intensi, il segno marcato a fuoco di un desiderio e di uno strazio infiniti, di quelli che chiedono rispetto e silenzio, prima che comprensione.

Ma poi ho pensato che questa poesia esiste, è stata scritta, ed è sopravvissuta ad una storia triste di censure e distorsioni, arrivando infine fino a me, fino a voi.

L'autrice è Antonia Pozzi, una poetessa morta suicida a 26 anni, nel 1938.

Figlia diletta di due genitori colti e benestanti, visse nella Milano altoborghese e aristocratica e nella amatissima casa di montagna di famiglia, a Pasturo.

In prima liceo incontrò l'amore della sua vita, il suo professore di lettere.
L'amore che nacque tra i due fu fieramente osteggiato dai genitori di Antonia, che non ebbe la forza di difenderlo.
Piegandosi al volere soprattutto del padre, scegliendo di agire "non secondo il cuore, ma secondo il bene", Antonia, nel 1933, rinunciò per sempre alla sua "vita sognata".

Da allora ebbe altri amori, studiò, si laureò, scrisse poesie, si dedicò al volontariato, ebbe molte amiche; pur apparentemente conducendo la vita normalissima di qualunque giovane del suo tempo e del suo ambiente, Antonia continuò ad alimentare in sé una forte depressione che alla fine la spinse al suicidio.

La poesia che vi presento è un abbozzo.

Non riesco a immaginare che cosa le manchi, che cosa Antonia Pozzi volesse ancora esprimere attraverso queste parole. Quanta intensità e vita e sofferenza volesse veicolare ancora attraverso di esse.

È triste pensare che non lo saprò mai.


****


abbozzo

Io penso questa sera
alla leggende dell'Uccello di Fuoco -
al suo apparire nel folto -
al suo canto liberatore -

e tutti narrano
del giovane principe
e del sonno dei nemici
e della sua salvezza -

nessuno pensa all'albero oscuro
dove l'uccello apparì
la prima sera -
nessuno pensa alla vita dell'albero
dopo quella sera
senza più la vampa
delle ali magiche -

io sola so
come l'albero viva
di nostalgia e d'attesa -
e intorno veda
la gente che si aggira -
ma nessuna veste variopinta
vale per lui
lo splendore
dell'Uccello scomparso -

l'albero non sa più
per chi sia il suo fiorire -
e per ogni foglia che nasce
si torce nelle intime fibre -
l'albero non sa più
a chi offrire
il suo strazio primaverile -
e attende la notte -
la notte nera senza stelle senza fontane -
l'ora del buio silenzio -
quando dalle profonde radici
in un balenio estremo accecante
sorgerà correrà per il fusto
sino alla cima delle fronde
unico bene suo -
il ricordo infuocato dell'Uccello -

(marzo-agosto 1933)

domenica 14 novembre 2010

Sunday Music: The More You Ignore Me, The Closer I get - Morrissey

Quando mi sento dire: "Come vorrei tornare ai tempi della mia giovinezza!" rispondo quasi sempre con impeto: "Ma neanche pagata!".

Non so la vostra, ma la mia giovinezza, per dirla alla giovane Holden, è stata davvero una giovinezza schifa.

Funestata da timidezze feroci mascherate da snobismo, da accessi di malinconia malmostosa, da malumori incomprensibili (a me per prima), da scomposte euforie, da irrequietezze e inquietudini e soprattutto dalla paura: insomma, una mezza tragedia.

Quanto devo essere stata indigesta a quel tempo.
Complicata, circonvoluta, rigida, apodittica, desiderosa di attenzioni e insieme terrorizzata ogni volta che qualcuno me le concedeva: nascondevo le mie insicurezze dietro una lingua biforcuta, le mie malinconie dietro la lunaticità, la mia timidezza dietro silenzi supponenti.

Ogni tanto ripenso a quei poveri disgraziati che ebbero l'infelice idea di trovarmi attraente e di venirmelo a dire e a quelli, ancora più disgraziati, che fui io a trovare attraenti (e dovettero sviluppare doti medianiche per capirlo, perché ovviamente non ero assolutamente in grado di esprimere i miei sentimenti).
Si saranno ripresi dall'esperienza?
Me lo auguro.
Se ne incontrassi qualcuno per la strada, prima ancora di dirgli "Ciao, come va?" credo chiederei subito scusa.
Di qualunque cosa.

Ci son due cose, però, che salvo di quel periodo: le letture e la musica.

Tanta, diversa, ascoltata in modo caotico, appassionato, ossessivo, ignorantissimo, seguendo solo il mio piacere e il mio gusto, da sola o in compagnia, cantata a squarciagola o mugolata durante le mie frequenti e irrequiete passeggiate di allora.

Tra i miei grandi amori dell'epoca, accanto a Mozart e ai Cure, a Beethoven e Guccini, anche il grande Morrissey, prima come leader degli Smiths, poi come solista.

Quante volte avrò ascoltato questa canzone allora?
E non sono ancora stanca di ascoltarla.

Buona domenica!


P.S. (La prossima settimana sarò latitante, felicemente latitante: sarò a Milano. A presto!)








mercoledì 10 novembre 2010

Le poesie del mercoledì: Gli odori dei mestieri - Gianni Rodari

Anche Gianni Rodari - per quanto strano possa sembrare - è stato per me una scoperta dell'età adulta.

Per me, le scoperte che si fanno fuori tempo, così come le esperienze che si fanno in ritardo, hanno spesso in sé un che di malinconico: da una parte, forse, le si apprezza di più, con maggiore consapevolezza; dall'altra, le si vive, fatalmente, con minore abbandono.

Poi, siccome sono un po' una piaga, per quanto felice sia di aver finalmente fatto l'esperienza, non posso impedirmi di rimpiangere tutto il tempo che ho vissuto senza viverla.

La bambina che sono stata, spesso solitaria e silenziosa, affascinata dalle parole e dagli infiniti giochi che con esse si possono giocare, sarebbe stata ben felice di trascorrere ore ed ore con Gianni Rodari (guardatelo in questa foto di gioventù; non vi fanno tenerezza quel viso cosparso di efelidi e quegli occhi tristi, ma dall'espressione ferma e seria?).

Invece quella bambina ha dovuto aspettare un bel po' prima di incontrare questo genio, di cui ovviamente aveva sentito parlare, ma che nessuno le aveva fatto conoscere.

Ci ha pensato la Spia che, piuttosto sconcertato dal fatto che da piccola non avessi mai letto neanche una sua filastrocca, decise di mettersi d'impegno a colmare questa mia lacuna.

La sera, a letto, mi leggeva una sua favola, o una poesia.

Ora, voi non potete saperlo, ma se c'è una cosa bella, bellissima, che ha la Spia è la voce.
Bassa, piena, rassicurante, pacata, con una erre arrotata quel tanto che basta a darle una sfumatura d'interesse in più senza trasformarla in un insopportabile birignao snob.

Tra le mie filastrocche preferite, sicuramente questa.

(Per la Spia: perché non ricominci a leggermi Rodari?)



****

Gli odori dei mestieri

Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri,
sa d’olio la tuta dell’operaio,
di farina sa il fornaio,
sanno di terra i contadini,
di vernice gli imbianchini,
sul camice bianco del dottore
di medicine c’è un buon odore.
I fannulloni, strano però,
non sanno di nulla e puzzano un po’.


(da Filastrocche in cielo e terra, 1960)

****

Metti un finocchio a cena... Buon appetito, Mr. B!


Come preannunciato domenica, ecco dunque il mio piccolo contributo a quella che a me pare una giustissima causa.

Non ho voglia di rammentare o commentare ulteriormente il fatto che ha originato questa sacrosanta ondata di indignazione.

Vorrei però ricordare quel che ha detto Nichi Vendola nella sua videolettera di qualche giorno fa: quanta gratuita sofferenza possono aver provocato quelle poche parole irresponsabili dette con tanta incosciente leggerezza (e per giustificare un comportamento che chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale non potrebbe non definire inaccettabile, quanto meno da parte di chi, ahinoi, riveste un ruolo istituzionale di primo piano in questo disgraziato paese)?

Fine della riflessione.

Per l'iniziativa di oggi, all'inizio avevo pensato ad una delle mie insalate preferite: finocchi crudi con arance ed olive nere. Ma di arance italiane neanche l'ombra in giro (giustamente) e allora ho optato per questo altro piatto che è stata una vera rivelazione.

Tratta dal bel Pausa pranzo del giovane e baldo Stefano Arturi - libro che vi invito caldamente a sfogliare la prossima volta che andate in libreria: è davvero generosamente ricco di idee - questa ricetta si chiama Finocchi bruschi al vapore.

Sia lontana da voi ogni immagine di piatto triste e avvilente, di quelli che non sfigurerebbero sul vassoio dove vengono serviti i pasti in ospedale: verdura cotta e priva di ogni sapore e appeal.

Sappiate che poche persone al mondo sono più prevenute di me nei confronti delle verdure cotte, dunque fidatevi.

Se vi piacciono i sapori forti e non avete paura di sfoggiare per una giornata un alito da sera (la battuta è della Spia, prendetevela con lui), la prossima volta che comprate dei finocchi provate a prepararli così.

(Tra l'altro: a me piaceva anche - e molto - che per l'iniziativa di oggi i finocchi fossero bruschi: ne avrebbero ben donde, col trattamento poco amichevole che gli è stato spesso e volentieri riservato fino ad oggi, mi pare).



Finocchi bruschi al vapore

per 2-4 persone


2 finocchi
3-4 filetti di acciughe

2 cucchiaini di capperi (ben dissalati)
mezzo spicchio d'aglio
scorza di limone grattugiata

un limone affettato molto sottilmente
(io non l'ho messo)
prezzemolo tritato

succo di limone
(o aceto, se preferite)
olio

pecorino

Cuocete i finocchi al vapore.

Io, che non amo le verdure troppo tenere, li ho fatti cuocere per circa 10'. Qualche minuto in più, però, non credo potrebbe far loro male. Regolatevi voi, insomma.

Quando saranno pronti, metteteli ad asciugare su un canovaccio pulito.

Riducete in poltiglia i filetti di acciughe, tritate i capperi e schiacciate l'aglio con lo spremiaglio.

Riunite questi ingredienti in una ciotolina.

Aggiungetevi la scorza di limone grattugiata, il prezzemolo tritato, del succo di limone (o l'aceto), un paio di cucchiai di olio d'oliva (o di più, se non temete - come me - di ingrassare).

Condite i finocchi ancora tiepidi con questa vinaigrette.

Se potete, aspettate una mezz'oretta prima di mangiarli. Il sapore ne guadagnerà.

Prima di servirli, aggiungete delle scaglie di pecorino.

Enjoy!


P.S. (Spero di non dover partecipare ad altre iniziative del genere. E non perché non mi piaccia essere coinvolta, ma perché significherebbe che abbiamo forse cominciato a vivere in un paese governato da gente un po' meno imbarazzante).

domenica 7 novembre 2010

Mercoledì 10 novembre: Metti un finocchio a cena... Buon appetito, Mr. B!

Di solito non sono particolarmente entusiasta di partecipare a iniziative 'collettive' in rete: rifuggo i vari contest organizzati ogni 2 per 3 su ogni possibile alimento, piatto, menu e mi espongo solo quando davvero ritengo sia doveroso farlo, come in questo caso.

Non saprei trovare migliori parole di quelle che ha usato Gaia de La gaia celiaca, che cito testualmente:

Siamo un gruppo di blogger che si son trovate a condividere un'idea comune, e cioè che non se ne può più delle espressioni insultanti nei confronti degli omosessuali del nostro Presidente del Consiglio, che manifesta una volta di più atteggiamenti sessisti ed omofobi.
Il culmine tre giorni fa, quando ha dichiarato “meglio essere appassionati di belle ragazze che gay.” E quante volte ha offeso profondamente anche tutto il genere femminile?

Ricordiamo che è la stessa
Carta dei Diritti fondamentali dellUnione Europea a condannare, all'articolo 21, “qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso, la razza, il colore della pelle, l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali”.

Se l'Italia fosse un paese più civile, l'omofobia sarebbe un reato, come raccomanda l'Unione Europea nella
risoluzione del 18 gennaio 2006.

Ci è sembrato troppo.


Abbiamo deciso che era giunto il momento di fare qualcosa, di esprimere il nostro dissenso con i mezzi che abbiamo come food-blogger: la parola, l'ironia, mestoli e padelle.

Abbiamo preso spunto dalla manifestazione organizzata per oggi pomeriggio, sabato 6 novembre, da Arcigay Firenze, che ha per slogan “porta un finocchio per Silvio”. Spiegano gli organizzatori: “regaleremo i finocchi al Presidente Berlusconi che, con quest’ennesima dichiarazione pubblica, riteniamo abbia raggiunto i limiti della decenza e della civiltà”.


Speriamo che Arcigay non se ne abbia a male se ci ispiriamo a loro promuovendo l'iniziativa
Metti un finocchio a cena... - Buon appetito Mr. B.!

Chi è sconcertato quanto noi dovrebbe pubblicare mercoledì 10 novembre una ricetta a base di finocchi, esponendo il banner dell'iniziativa, spiegando nel post le ragioni della propria partecipazione e comunicandoci l'adesione fra i commenti a questo a post.
Valgono anche le ricette già pubblicate, non è un vero e proprio contest, è un'iniziativa di dissenso.

Tutti potranno comunicare la propria adesione con un commento a questo post e sull'analogo post che troverete sul blog di
Madama Bavareisa. Vi invitiamo ad esporre il banner dell'iniziativa

Metti un finocchio a cena

Codice da incorporare:



Risultato:
Metti un finocchio a cena
Sono invitati a partecipare anche i blogger non food, secondo le stesse modalità: non pubblicheranno una ricetta ma un intervento nel merito.

Mi raccomando, accorrete numerosi, sarà bello vedere moltissimi finocchi a cena nelle case dei food-blogger e non mercoledì 10 novembre, un'ironica, corale e rumorosa manifestazione di indignazione.



Chiunque volesse partecipare segnali la sua adesione a Gaia o Madama Bavareisa.

A mercoledì, dunque!

Sunday Music: Trio pour Piano, Violon et Violoncelle en la mineur - Maurice Ravel

La mia passione per il cinema francese risale al 1992, quando al cinema vidi Un coeur en hiver, di Claude Sautet.

Fu una folgorazione.

Scoprii un nuovo amore - e capii due o tre cose fondamentali sul mio fidanzato di allora che, mentre io vivevo un'esperienza che oserei definire trasformatrice e catartica, si addormentò seraficamente sulla poltrona (probabilmente sognando la sua moto).

Scoprii di amare quella particolare sensibilità, quello stile, quel mondo di storie e quel modo di raccontarle che solo i cineasti di scuola francese hanno.

Quel tocco delicato, a tratti ironico, a tratti elegiaco, ma raramente sentimentale, speziato da dialoghi spesso di grande raffinatezza e intelligenza (e un filo di snobismo, diciamolo), anche nel caso di belle commedie spensierate.

E poi scoprii di amare le attrici francesi, se non tutte bellissime (ma molte lo sono) tutte comunque interessanti, con quel fascino indefinibile, quell'eleganza tutta loro, quello stile riconoscibile ovunque che è tipico di quella categoria a parte nell'universo femminile che per me è la 'donna francese'.

Tutte le volte che sono andata a Parigi, oltre a bearmi dell'indubbia magnificenza della città, sono sempre rimasta affascinata dalle donne che camminano per le sue strade: ognuna con un suo personalissimo incedere, un suo singolare modo di indossare il foulard o il cappello, di far dondolare la borsa dal braccio, di sistemarsi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio.
A me sembra che a Parigi non esistano donne banali.

Anche la musica, nei film francesi, è spesso assolutamente di mio gusto.

In Un coeur en hiver, essendo i protagonisti una violinista e un liutaio, essa è fondamentale, direi quasi un personaggio a tutti gli effetti: con la sua presenza segna e commenta lo sviluppo della storia, riflettendo quel complesso gioco di sentimenti che Daniel Auteuil, Emmanuelle Béart ed André Dussollier (quest'ultimo una mia grande passione) sono così bravi ad esprimere con la loro recitazione intensa e al tempo stesso misurata.

E poi, come non innamorarsi di questo Trio di Ravel?

Buona domenica!







mercoledì 3 novembre 2010

Le poesie del mercoledì: Il giorno ad urlapicchio - Fosco Maraini

Sono molto affezionata al libro da cui è tratta la poesia di oggi.

L'ho acquistato l'anno scorso, il giorno in cui, insieme alla Spia, andammo a saldare il conto della clinica dove per 3 giorni aveva agonizzato, prima di morire, il nostro amatissimo gatto.

Avevamo entrambi bisogno, tornando in autobus a casa, di concederci un momento di piacere condiviso, di fare qualcosa di leggero che ci consentisse una breve pausa dallo strazio in cui eravamo immersi da giorni.

Entrammo in libreria e ci rimanemmo un bel po', ognuno nei suoi settori preferiti.
Ne uscimmo con le tasche alleggerite di diverse decine di euro, ben contenti di averle spese (benché alla clinica ci avessero presentato un conto astronomico).

Tra i libri acquistati, La Gnòsi delle Fànfole, di Fosco Maraini.

L'immersione nell'intelligenza colta, stralunata e straripante che trapela da queste poesie 'metasemantiche', il contatto con la vitalità gioiosa dell'autore, con l'irriverente allegria cui fa da giusto contrappunto - talvolta - una raffinata, pudica malinconia, mi fecero un gran bene.

E continuano a farmene, ogni volta che mi faccio il regalo di rileggerle.

Questa poesia in particolare, letta in quel giorno smègio e lambidioso, mi aiutò ad esser certa che altri, carmidiosi e prodigieri, sarebbero presto seguiti.

E così è stato.


****

Il giorno ad urlapicchio

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un frònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m'hai detto "t'amo per davvero".


(da Gnòsi delle Fànfole, 1994)

lunedì 1 novembre 2010

Di madri e figlie, di regine e mestoli e di una ricotta al forno


La mia è, sotto molti punti di vista, una tipica mamma italiana: un'ottima cuoca che ha sempre veicolato attraverso il cibo preparato con le sue mani quelle attenzioni e quei sentimenti di accudimento, amore e protezione che altrimenti non avrebbero trovato altra espressione tangibile (la mia mamma è timida e ha ricevuto un'educazione virante al calvinista).

Come tante madri italiane un po' all'antica, anche la mia è convinta che una donna che non sappia cucinare o che decida di non fare figli non sia praticamente degna di essere considerata una donna a tutti gli effetti: di questi bizzarri esemplari che per lei sono donne mancate spiega ogni mancanza e pecca con l'apodittico commento: "Ma sai, non ama cucinare/non ha voluto fare figli".

Mia madre, pur professando ad alta e lamentosa voce la preoccupazione che noi tre figlie, che non sapevamo bollire un uovo e non mostravamo nessuna intenzione di voler imparare a bollirlo, non avremmo mai trovato un uomo decente disposto a sposarci, per tutta la nostra infanzia e adolescenza non ci ha mai concesso di entrare in cucina e soprattutto di aiutarla a cucinare (e dunque di imparare).

In quello che, evidentemente, ha sempre considerato il suo unico regno e ambito di eccellenza, nell'unico campo in cui non temeva il confronto con noi (più giovani, più intraprendenti, più istruite, più libere), non ci ha mai concesso alcuno spazio.
Tenendo ben stretto in mano il mestolo, come una regina il proprio scettro, ci ha tenute per anni in una condizione di pressoché assoluta ignoranza.

Uscita di casa, dunque, come ho più volte raccontato, non sapevo praticamente cucinare niente di commestibile e per i primi tempi la cosa non mi ha preoccupato.
Poi, quando inopinatamente la curiosità e la voglia di imparare hanno cominciato a farsi sentire, mi sono rivolta soprattutto ai libri e, in seconda battuta, alla mia mamma.

Gelosa custode della sua cucina, la mia mamma non lo è mai stata infatti delle sue ricette, ché anzi, anche all'estraneo conosciuto alla ASL o alla commessa del supermercato è sempre ben lieta di svelare il segreto delle sue leggendarie fettine di carne impanata, la ricetta dell'ottima torta moka, le astuzie che accompagnano la lunga e laboriosa preparazione della torta al formaggio.

Farsi dare una ricetta da lei è dunque quanto di più semplice ma anche, al tempo stesso, quanto di più complicato si possa immaginare: bisogna armarsi di pazienza e di un lungo foglio di carta, perché mia madre divaga, apre parentesi tonde quadre e graffe, salta un passaggio che poi recupera a metà ricetta, racconta di quella volta in cui la maionese impazzì, il gelato venne strabiliante, litigò con mio padre per l'arrosto, scambiò il sale con lo zucchero etc etc.

Insomma, se non potete fare a meno di chiederle una ricetta fatelo, ma tenete dei calmanti a portata di mano.

Quel che la mia mamma mi ha insegnato, però, è che chi cucina - che sia una donna o un uomo, aggiungo io - è una persona adulta che sa badare a se stessa e, alla bisogna, anche agli altri; un essere umano più completo di chi invece, magari a 50 anni suonati, dipende ancora da altri per la sua sopravvivenza fisica.
Chi sa metter su un piatto di spaghetti o di minestra e lo fa magari anche con abilità e gusto - aggiungo sempre io - è poi, nel suo piccolo, un benefattore dell'umanità.

E un'altra cosa, anche, la mia mamma mi ha insegnato: che per cucinare bisogna sempre avere in casa alcuni ingredienti di base, un kit essenziale senza il quale diventa davvero difficile prepararsi anche un pranzo frugale.

Questo kit non potrà prescindere da alcuni prodotti fondamentali, ma potrà leggermente variare, a seconda dei gusti e della storia di ciascuno.

Per me, per esempio, esso comprende sicuramente almeno una bottiglia di latte (una casa senza una bottiglia di latte nel frigo mi mette subito una grande tristezza: mi parla di intolleranze alimentari, di regimi dietetici, di rapporti tormentati col materno, di ricordi infantili penosi) e non meno di 250 gr di ricotta. Senza timore di apparire un'esagitata fanatica, io proporrei addirittura la beatificazione di chi ha inventato la ricotta: un formaggio magro, non è una meraviglia?

E se non vi va di mangiarvela così com'è perché non vi dice granché (o uomini e donne di poca immaginazione!), provate a cuocerla in forno.


Baked ricotta da Forever Summer di Nigella Lawson


per 2 persone (o 3 di modesti appetiti):


250 gr. di ricotta (a me piace di capra)
1 albume
timo fresco
scorza di mezzo limone
sale e pepe
olio


Preriscaldate il forno a 180°.

Lavorate la ricotta e riducetela in crema.

Con una frusta, sbattete l'albume: non dovete farne una meringa, dunque adagio: basta che non sia proprio liquido ma acquisti un po' di consistenza. Unitelo alla ricotta.

Aggiungete un po' di timo fresco e la scorza del limone.

Condite con sale e pepe.

Ungete appena con l'olio d'oliva una tortiera (io ne uso una di 20 cm di diametro), versateci dentro il composto di ricotta, livellate con un cucchiaio, aggiungete ancora un po' di timo, zigzagate con altro olio e fate cuocere per circa mezz'ora + qualche minuto di grill.

Non vi aspettate un soufflé: come si vede dalla foto, quel che vi ritroverete nel piatto sarà una mezza frittella.
Ma una frittella che vi darà grande soddisfazione, credetemi, facendovi sentire, al contempo, sani e morigerati.

Praticamente santi.

Enjoy!

domenica 31 ottobre 2010

Sunday Music: Við spilum endalaust - Sigur Rós

I Sigur Rós sono una mia scoperta relativamente recente.

E come accade tutte le volte che conosco qualcosa di nuovo che mi entusiasma, ne sono stata felicemente ossessionata per qualche mese.

Soprattutto da questa canzone.
Un altro lampante esempio, secondo me, di quella particolare sensibilità musicale melanconica ma lieve che sento rappresentare al meglio la mia.

Il fatto di non capire una parola dei testi - cosa che di solito mi indispone - nel caso dei Sigur Rós mi pare, per qualche oscura ragione, quasi un valore aggiunto.

Prima di tutto perché trovo la loro musica così particolare e intensa da credere che parole a me comprensibili potrebbero, in qualche modo, appannare questa sua caratteristica 'alterità'.

Poi perché ho letto che molte delle loro canzoni non sono scritte in islandese (che di per sé non è certo tra gli idiomi più diffusi), ma in una lingua inesistente inventata dal cantante, e questa cosa mi ha fatto subito simpatia: anche io da piccola, come tanti bambini, avevo inventato un linguaggio tutto mio, con cui intessevo lunghissime e silenziose conversazioni con i miei pupazzi.

Qualche giorno fa, invece, ho scoperto questo video amatoriale girato da due ragazze che hanno fatto un viaggio in Polonia nell'estate del 2008 e hanno montato il loro filmino sulle note di questa musica.

Non le trovate adorabili?
Non riconoscete un po' in loro le giovani fanciulle che siete state?

Trovo così commovente quella delicata, incantevole miscela di fragilità e sfrontatezza, candore e pose da vamp, stupidera e malinconia, bronci annoiati e spontaneità, voglia di crescere e desiderio di restare con un piede ancora nel mondo dorato dell'infanzia.

Buona domenica!






mercoledì 27 ottobre 2010

Le poesie del mercoledì: L'amore è una guerra - Ariodante Marianni

Una poesia d'amore.

Forse una delle mie preferite, in assoluto.

Sentite che leggerezza, che ironia, e al tempo stesso che intensità.

L'autore, Ariodante Marianni, è stato anche un pittore e un traduttore finissimo, soprattutto dall'inglese (suo il Meridiano dedicato a William Butler Yeats).

Questa sua foto mi ha fatto sempre una grande simpatia, forse per gli occhi azzurri e ridenti, per l'espressione mite dello sguardo o per quel ciondolo un po' incongruo sul collo fragile di vecchio signore.

Forse anche per quell'aria lontanissima da certi atteggiamenti enigmatici, un po' teatrali, cari ad altri più noti poeti (penso a qualche celeberrimo ritratto di Montale, pervaso di un'atmosfera raggelata, onirica): questa foto ha invece tutta l'aria di essere stata scattata su una panchina, in un parco cittadino, in una bella mattinata di primavera.

Secondo me, sulle ginocchia, Marianni aveva posato un quotidiano e forse un taccuino, con infilata dentro una matita, per disegnare o per segnare due versi lì per lì.

Un signore tranquillo, con parole come queste ad agitarglisi dentro.


****
- L'amore è una guerra -


L'amore è una guerra, vuoi convincermi
con qualche tregua, con qualche armistizio,
e io devo essere un cattivo soldato,
se vengo a te allo scoperto, senza difese,
a te che sai combattere bene e colpisci
duro, ogni volta (ne porto i lividi
per giorni). Così elaboro tattiche,
complicate strategie: ma a che servono?
Come ti vedo alzo le braccia, sventolo
un bianco sorriso; e non ti piace, lo so.
Ma forse è questa la mia inconsapevole
rappresaglia: eludere i tuoi piani,
sventare gli attacchi, rendere inutili
le armi, toglierti, insomma, ogni gloria.

(da Stato d'allerta, 2002)

martedì 26 ottobre 2010

Di ere geologiche, di fenomeni carsici e (finalmente!) di uno shop on line

Mesi fa ho scritto un post sul mio felice ma anche tormentato rapporto con la creatività e la manualità.

Mi ero ripromessa, dopo averlo scritto, di vincere le infinite resistenze che mi impedivano di mostrare, ogni tanto, i risultati delle mie scalmanate e spesso scriteriate incursioni in quel mondo, ma a tutt'oggi, come forse si sarà notato, non l'ho mai fatto.

Qualche giorno fa, al telefono, la cara Esmé di Ora di cena mi ha di nuovo dolcemente rimproverata, facendomi giustamente notare che il nome del mio blog è fuorviante, giacché allude a qualcosa che in queste pagine, fino ad ora, non ha avuto - se non per una volta - alcun diritto di cittadinanza.

In realtà, subito in alto e a sinistra è apparsa da qualche tempo una piccola icona in forma di papera, cliccando sulla quale si accede al mio piccolo negozio su Etsy.

Mi fa effetto anche solo scriverne, a dire il vero.
Fino a un paio di mesi fa non avrei mai pensato di poter decidermi a fare una cosa del genere. Invece poi l'ho fatta.

E come sempre accade nella mia vita, ad un processo di preparazione che definirei geologico nei tempi e carsico nelle modalità (con inabissamenti e sparizioni e improvvisi riaffioramenti), è seguito un repentino, vulcanico, ossessivo ed energico passaggio all'azione.

Aprire una cosa modesta come il modestissimo shop che ho su Etsy ha significato doversi occupare di una serie di questioni pratiche e logistiche che per molto tempo mi avevano fatto desistere, inducendomi a rinunciare ancor prima di provare a capire.

Non che mi sia divertita a leggere la policy di Etsy (non complicata ma piuttosto particolareggiata); e quanto a questo non è stato certo più ameno leggere pagine su pagine su come funzioni (e su che cosa diavolo sia, soprattutto) Paypal o la carta prepagata Postepay.

Pure l'ho fatto.
E cosa inaudita, ho capito (almeno credo; almeno spero).

Ma soprattutto, e questa è la cosa davvero importante, per me, ho vinto una mia lunga e incallita abitudine alla timidezza.

Ho messo a tacere, per un po', le infinite, moleste vocine che noi donne conosciamo oh così bene e che parlano di scarsa autostima, sottovalutazione di sé, scarsa fiducia nelle proprie capacità e di un'immotivata, illogica e - se mi si passa il gioco di parole - ridicola paura del ridicolo.

Forse, però, il lato più felice di tutta questa vicenda non è tanto la soddisfazione di aver mosso finalmente i primi passi in una direzione in cui da tempo volevo andare, quanto l'aver toccato con mano l'incredibile fortuna che mi è toccata in sorte.

Ad ogni passo mi sono infatti sentita accompagnata e sostenuta dal confronto affettuoso con tutte le anime pie che rallegrano e animano la mia vita: la Spia, che ha sempre accolto con grande calorosa curiosità ed entusiasmo ogni mio manufatto (e che con grande delicatezza e tatto ha espresso, quando ha creduto, le sue perplessità) e tutte le mie amiche, che fanno parte di quello che io definisco il mio personale e preziosissimo "consiglio di saggi", pazienti ascoltatrici dei miei deliri, inesauste dispensatrici di consigli, incoraggiamenti, buonumore.

Pur tenendo ben presenti i miei limiti e sapendo di essere solo all'inizio, di dover imparare e migliorare molto (prospettiva che, lungi dallo scoraggiarmi, mi sorride assai) , è con una certa gioia, dunque, che vi invito a dare un'occhiata al mio piccolo negozio.

La porta è da questa parte, siete tutti benvenuti!

domenica 24 ottobre 2010

Sunday Music: Perpetuum Mobile - Penguin Cafe Orchestra

Ci sono rapporti che nascono in precisi contesti e soltanto in essi fioriscono e si sviluppano.
Venendo a mancare quella loro particolare cornice, perdono senso e ragione di essere.

Ci sono occasioni speciali, situazioni di vita in cui all'improvviso ci si ritrova vicini a chi, fino a poco prima, ci era completamente estraneo: si instaurano consuetudini e rituali condivisi, si vive insieme un'esperienza circoscritta nel tempo e nello spazio.
Poi ci si separa, magari ci si pensa e ci si ricorda con piacere, ma non al punto da cercarsi ancora, e alla fine ci si perde.

Sono rapporti d'amicizia con la data di scadenza, come le mozzarelle - diceva qualcuno che conoscevo e frequentavo tanto tempo fa.
Lui lo diceva con una nota di disprezzo nella voce.
Io quel disprezzo non l'ho mai capito: sono rapporti umani comunque, meno significativi di altri, certo. Ma se vissuti con schiettezza e rispetto, con piacere e disponibilità, non sottraggono niente a nessuno, anzi, ci rendono senz'altro più ricchi e fanno della nostra vita interiore un paesaggio vivo e mosso e in evoluzione - come tendo a credere debba essere.

E spesso ci lasciano eredità piccole ma preziose: una lettura che si rivela poi fondamentale, una battuta che ci fa sempre ridere anche a distanza di anni, una confidenza di quelle sincere fino alla crudezza che a volte si affidano proprio a persone che si conoscono poco e che ancora adesso ci tocca.

Oppure una musica che ci emoziona ogni volta che la ascoltiamo, non importa quanto tempo sia passato dalla prima volta che ci ha trovati. Che ogni volta ci fa pensare a quella persona che non fa più parte della nostra vita eppure ne fa parte, eccome, e alla quale - mentre le note di quella sua musica risuonano intorno a noi - inviamo sempre un pensiero e l'augurio che la vita, con lei, abbia avuto ed abbia la mano leggera.

(Grazie a Rina)






venerdì 22 ottobre 2010

Regali golosi di Sigrid Verbert

Sigrid Verbert, alias Cavoletto, è una graziosa ragazza molto intraprendente e molto capace, con uno spiccato senso estetico e un gusto sicuro per le cose belle.

È una brava fotografa, se vi piace il genere 'Donna Hay', ed è riuscita a conquistarsi in pochi anni il consenso affettuoso ai limiti dell'idolatria di molti frequentatori della rete che seguono con religiosità il suo blog.

Questo suo libro non poteva non attrarmi; quando leggo le 4 parolette magiche regali fatti a mano mi dispongo immediatamente alla benevolenza. Quando poi questi regali sono commestibili, la benevolenza diventa entusiasmo.

Da questo punto di vista di idee in questo libro ce ne sono, e molte, e sembrano tutte molto molto promettenti. Sotto questo aspetto Regali golosi merita 4 stelle piene (5 gliele darò, se è il caso, solo dopo aver provato qualche ricetta).

Però la simpatica Sigrid dovrebbe evitare di scriversi i testi da sola, secondo me, o dovrebbe affidarsi a qualche editor molto bravo, perché questo libro, e lo dico sapendo che se mi sentono i suoi fans mi scuoiano viva, è scritto davvero male (mi dicono che il primo fosse peggio; bene, non riesco nemmeno ad immaginare come potesse essere).

Anche il suo blog, secondo me, è scritto male (e di fretta: gli errori di battitura abbondano e, sarò pedante, ma insomma bisognerebbe farci un po' di attenzione; quanti minuti ci vogliono per rileggere un post?), ma un blog, si sa, è un luogo in cui si comunica, volendo, un po' alla buona, un po' - come si dice a Roma - alla famo a capisse, e può andare benissimo così se si vuole costruire con i propri lettori un rapporto intimo, familiare, da 'quattro chiacchiere in libertà con amici'.

Se in rete, però, questo tipo di sciatteria non costa nulla e al limite può anche fare simpatia (a me in particolare no, tengo a precisare), in un libro che costa 25 euro la trovo fastidiosa, un vezzo più che l'espressione di uno stile personale informale.

Molte sono le frasi sintatticamente misteriose, per non dire sgrammaticate, e numerosi e goffi anche quelli che evidentemente sono calchi dal francese, che per una signorina belga saranno anche normali ma per un editor italiano non molto (o almeno così dovrebbe essere).

Infine, ma questo è il mio gusto personale, trovo respingente la leziosità imperante, che temo sia una cifra caratteristica della bella Sigrid, ché anche il suo blog è spesso costellato, come questo libro, di obbrobri come pensierino, confezioncina, marmellatina, cremina e di aggettivi come cioccolatoso, goloso, sfizioso, profumoso, coccoloso etc., per non parlare degli onnipresenti emoticon, che almeno in un libro, e soprattutto in un libro come questo, dalla grafica elegante e curata fino allo spasimo, NON vorrei trovare, per cortesia!

Per fortuna nelle ricette l'italiano torna 'normale' e il tono è sobrio.
Non poteva limitarsi a questo e a delle belle foto?
Sarebbe già stato tantissimo.


Sigrid Verbert, Regali golosi, Giunti 2010.