giovedì 28 giugno 2012

Romanzo rosa di Stefania Bertola

Le 4 stelle aNobiiane sono per l'affetto che ho per Stefania Bertola e per la riconoscenza che nutro per lei, che negli anni mi ha regalato ore e ore di sereno, intelligente, spensieratissimo sghignazzo, ma questo romanzo è davvero deboluccio, secondo me.

La Bertola è di solito maestra nel costruire romanzi corali, all'interno dei quali si intrecciano, in maniera quasi sempre surreale e ridicola ma anche perfettamente organica alla storia nel suo complesso, le vicende di molti personaggi, tutti sempre ben delineati e caratterizzati.

Anche questo è in teoria un romanzo corale e i protagonisti sono gli improbabili studenti di un ancor più improbabile corso di una settimana per imparare a scrivere il romanzo rosa perfetto.

Dico in teoria perché, stavolta, la Bertola ha scelto di dare un altro taglio al racconto: ha abbandonato la sua consueta posizione di narratore onnisciente e ha affidato a uno dei personaggi il ruolo di voce narrante e poi ha fatto soprattutto della metanarrativa, divertendosi probabilmente molto a parodiare, in modo intelligente e impietoso (ma è come sparare sulla croce rossa!), il genere letterario del romanzo sentimentale da edicola.

Peccato che così facendo si sia persa per strada proprio i personaggi, che invece sa costruire sempre con grande finezza e mestiere, che in questo caso risultano sfuocati, indistinti, poco più che macchiette con poco spessore.

Per il resto, qualche sghignazzata di gusto la riserva anche questo Romanzo rosa, soprattutto se, come me, anche voi, durante la lunga interminabile estate-senza-vacanze dei vostri 11 anni avete trascorso diverse ore al giorno leggendo i libri Harmony di vostra sorella maggiore.

Riconoscerete tutte le assurde e grottesche convenzioni che regolano l'universo delirante dei cosiddetti "romanzi rosa", che già a 11 anni mi sembravano, a volte (ma solo a volte! ero una discreta zucchina a quell'età), stucchevoli e irreali.

Come dice la cara Oriana, una scivolata ogni tanto, a chi mi ha fatto finora solo tanto tanto bene, si perdona, eccome se si perdona; il prossimo libro della Bertola, però, lo prendo in biblioteca – hai visto mai.


Stefania Bertola, Romanzo rosa, Einaudi 2012.

giovedì 14 giugno 2012

Di assenze e presenze e di un incontro lungamente atteso


Quando ho aperto questo blog, quasi tre anni e mezzo fa (vincendo infinite remore, le solite: la vergogna, il timore del giudizio altrui, la paura di essere una velleitaria e di presumere di me, il terrore che a nessuno interessasse etc. etc. etc.), mi sono ripromessa che avrei scritto solo e soltanto se e quando avessi avuto qualcosa da dire e, soprattutto, la voglia di dirlo.

In questo mio mese e mezzo di assenza, di cose da scrivere ne avrei anche avute. Mi mancava la voglia.
Perché per me scrivere non è immediato; non è un gesto spontaneo, liberatorio, disinvolto. 
È disciplina, riflessione, lavorio mentale, lotta con il mio feroce giudice interiore, ricerca di equilibrio. 
Se non fosse forse eccessivo, direi: è lavoro.

E in questo periodo, di fare questo lavoro, non me la sentivo.
Sono stata distratta dalla vita, potrei dire; e per non esser troppo retorici, dalla bella stagione, dalla lettura (di pagine cartacee e non virtuali), dalle piante di cui cerco di prendermi cura, dal mio tavolo da lavoro; soprattutto sono stata distratta - assai felicemente distratta - dagli amici. 
Amici mai incontrati se non nelle maglie della rete e ai quali finalmente ho dato un volto e una voce (ciao Nela San!); amici cari che sono andata a trovare in Inghilterra.

E proprio lì, nella perfida Albione (per la precisione a Rodmell, nel Sussex), ho finalmente visitato - dopo circa 20 anni che lo desideravo - Monk's House, la casa di campagna di Virginia Woolf ("una casa senza pretese, lunga e bassa, dalle molte porte" la definì lei nel suo diario).

Raccontavo a più di una persona che temevo, una volta lì, di essere travolta dall'emozione e dalla commozione e di trasformarmi - con imbarazzo mio, soprattutto, più che della Spia e degli amici che erano con noi - in una sorta di estintore umano.

Invece no.
La commozione c'è stata, certo. Ma più forte di lei è stata la sensazione, dolcissima, di trovarmi in un luogo amico, noto, familiare.
Quante volte ho osservato con attenzione le foto di quel suo studio/capanno da giardino, la sua "stanza tutta per sé" con vista sui prati; di quel salotto verde ("verde nilo", direbbe mio padre) con le sedie disegnate dalla sorella Vanessa; della camera da letto monacale con la libreria dietro il letto, la grande finestra dalla quale si vede il glicine, il caminetto con le mattonelle dipinte, il paralume decorato...

E quante volte ho immaginato il giardino? Con gli iris piantati da Leonard durante i bombardamenti tedeschi, la chiesetta al di là del muro, la vasca con le ninfee, il grande prato teatro di interminabili partite estive a bocce (una grande passione di Virginia, che nei suoi diari si lamentava di dedicarle troppo tempo, a scapito della scrittura)?

In ogni centimetro quadrato di quel luogo ho sentito - non appannato dalla presenza pure costante di turisti, come me, armati di macchine fotografiche e silenziosi, quasi in soggezione, ancora, di fronte allo spettro della sua morte tragica e romanzata - la presenza viva di quello spirito inquieto e geniale che tra quei fiori e quelle mura trovò spesso riposo e ristoro e amicizia e molte ore di beate letture e scrittura.

Non sono una grande fotografa, lo sapete; ma vi lascio comunque con alcune immagini di quel giorno.
Mi piacerebbe che, anche se maldestramente, riuscissero a comunicarvi un po' della mia emozione e della mia gioia.