martedì 24 febbraio 2009

Lode e gloria a Stefano Arturi (una postilla)

Chi fosse interessato a leggere qualcosa in più, oltre ai libri, di Stefano Arturi, l'eroe del precedente post, può dare un'occhiata al suo blog Quanto basta sul sito di Marie Claire, o agli spazi da lui curati sul sito Mangiar Bene, che si intitolano Sapori d'avventura e Cucina rapida & economica.
Lettura amena quant'altre mai!

lunedì 23 febbraio 2009

Lode e gloria a Stefano Arturi

Stefano Arturi è un grandissimo figo, partiamo da qui (e non parlo dell'aspetto fisico, per quanto... in questa foto pare un bell'ometto).
Ha pubblicato due libri con la Guido Tommasi Editore, English Puddings (2005) e Pausa pranzo (2007).

Il primo, come si evince dal titolo, è un omaggio,
rispettoso e allegro, a quel settore della gastronomia inglese che chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale e non sia vittima di preconcetti e pregiudizi non può fare a meno di considerare notevole, quello dei dolci.

I desserts inglesi sono ottimi, se ben preparati, ma se si comincia a fare paragoni con quelli italiani, se si considera il trifle una specie di tiramisu, si parte col piede sbagliato. La cucina anglosassone ha una sua tradizione pasticcera autonoma e riconoscibile, che non ha niente da invidiare a quella francese ed italiana, e Stefano Arturi, che per molti anni ha vissuto a Londra, ha imparato a conoscerla bene e ad apprezzarla. Il suo English Puddings è un godibilissimo libro di ricette ma anche, in un certo senso, di antropologia culturale. Si impara a conoscere il mondo inglese entrando da una porta per così dire secondaria, quella della cucina appunto, una di quelle da cui, a mio avviso, bisogna necessariamente passare se ci si vuole avvicinare ad una cultura sconosciuta, o anche a una persona: quante cose si capiscono di un individuo osservando la sua cucina, ciò che prepara e mangia e il modo in cui lo mangia.

A Stefano Arturi piace anche parlare della storia di alcuni dolci, ne rintraccia le origini, facendosi aiutare da testi a suo tempo reperiti alla British Library, che ha studiato e riportato diligentemente in bibliografia. Insomma,
non stiamo parlando del primo stramiciato che passa, ma di una persona seria, che fa il suo lavoro con passione e dedizione, cosa tanto più preziosa quanto rara.

Un'ultima cosa su questo libro: quando andrete in libreria a comprarlo, pronunciate il titolo correttamente: Inglish Puddings, sì, si dice proprio con la 'u', con buona pace di qualche commesso che vi guarderà con sufficienza e magari ripeterà volutamente il titolo pronunciando la parola 'puddings' come se fosse scritta con la 'a', a sottolineare che lui, a differenza vostra, è una persona che l'inglese lo sa bene!

La ricetta di oggi è presa però dal secondo libro di Stefano Arturi, il già citato Pausa pranzo. Io lo scovai un pomeriggio che ingannavo il tempo nella gigantesca libreria della stazione Tiburtina di Roma, nell'attesa di prendere un treno che mi avrebbe portato dai miei genitori. Ero in vacanza in Italia, e in pieno delirio biblio-gastronomico: nei primi dieci giorni del mio soggiorno avevo già acquistato una quindicina di libri di cucina, per lo più enormi e pesantissimi (già paventando la solita scena di panico al momento della partenza, con le mie due samsonite stipate fino all'orlo e pesanti quanto un cassettone della biancheria). Visto che mi era così piaciuto il suo primo libro, quando vidi che ne aveva appena pubblicato un altro, non esitai a comprarlo (e per mia fortuna si trattava di un agile libretto, dalla copertina tutta colorata, altro motivo per amarlo!).

Pausa pranzo è un vero e proprio tesoro. Pieno di ricette facili, per lo più sane (il nostro eroe sa come godersela, ma sa anche che la nostra salute dipende in massima parte da come scegliamo di alimentarci), scritte da qualcuno che ha in mente un pubblico composto di persone normali, che conducono un'esistenza mediamente isterica, e sono costrette ad incastrare più o meno intense sessioni culinarie nel fine settimana o in una serata in cui non vanno in palestra o al cinema e non collassano sul divano in preda alla stanchezza, così da avere pranzo e cena pronti per un paio di giorni ed assicurarsi un minimo di autonomia.

Il libro è pensato per chi voglia emanciparsi dalla disumanizzante abitudine di frequentare certi squallidi bar sotto l'ufficio, in cui si paga un occhio della testa per ingoiare, di malumore e di corsa, orridi panini sintetici, squallide insalate insapori e inodori, paste scotte condite con sughi pronti pieni di conservanti. Non a caso, l'ironico sottotitolo è Come stare lontano dai bar e vivere felici.

L'Arturi è anche prodigo di consigli circa la spesa e propone sempre almeno un paio di abbinamenti interessanti, indicando cibi che si sposano bene con il piatto del quale dà la ricetta. Sembra sciocco, invece un simile accorgimento risolve tante penose indecisioni (oltre a regalare esperienze assai gratificanti!).

Last but not least, questo autore ha un approccio sanamente pragmatico e leggero ed un senso dell'umorismo che personalmente trovo delizioso ed agisce su di me da potente antidepressivo: leggere un paio di pagine scritte da lui mi rimette subito in sesto. Insomma, non so se si è capito, a me questo tipo garba parecchio!


La torta che ho fatto qualche giorno fa, di carote e polenta, è una delle mie preferite. È buffo pensare a come due ingredienti di partenza non proprio eccitanti per me possano poi invece dar vita ad uno dei dolci che più mi piacciono in assoluto. È facile facile, si fa tutto nel robot da cucina. Non vi aspettate qualcosa di soffice tipo pan di spagna: si tratta di una torta 'umida', dalla consistenza piuttosto massosa. Mi rendo conto che questi non sono forse gli aggettivi più adatti per invogliare chiunque a provare questa ricetta, ma se manterrete una sana apertura mentale e seguirete il mio consiglio non ve ne pentirete!
Ecco a voi le dosi:

120 gr. di burro
400 gr. di carote
un pizzico di sale
120 gr. di zucchero (meglio se di canna)
la scorza grattugiata di un'arancia
un pizzico ciascuno di cannella, cardamomo e zenzero (ma anche la sola cannella va benissimo) io in genere uso solo la cannella, e ne metto quasi un cucchiaino, mi piace molto
il succo di un limone (io lo sostituisco con parte del succo dell'arancia di cui ho usato la scorza)
50 gr. di farina 00
100 gr. di farina per polenta (io uso quella taragna)
2 cucchiaini di lievito per dolci

Sciogliete il burro.
Pelate le carote, tagliatele in due tre pezzi e mettetele nella coppa del robot da cucina. Azionate brevemente. Aggiungete sale, zucchero, scorza d'arancia, spezie e succo ed azionate ancora. Buttate dentro le farine e il lievito e azionate. Infine il burro, ed azionate ancora.
Versate l'impasto (piuttosto consistente) in una tortiera da 20-22 centimetri imburrata e spolverata di polenta e mettete in forno preriscaldato a 180 gradi per un'oretta (quando sarà pronta, la torta sarà leggermente staccata dalle pareti della tortiera, i bordi saranno di un'intensa sfumatura dorata e la vostra cucina profumerà in maniera inebriante di arancia e cannella).
Come dice giustamente l'Arturi, questo dolce è molto più buono il giorno dopo. Io in genere lo preparo la sera, così è pronto per essere gustato la mattina dopo a colazione.

Emjoy!

mercoledì 18 febbraio 2009

Gratin di porri e patate


Andare a fare la spesa, scrivevo nel precedente post, è un compito (ingrato) che tocca sempre alla Spia, a parte qualche rara eccezione. Ci sono giorni in cui sono io a sacrificarmi e a recarmi al vicino supermercato, in genere portandomi dietro un orrendo carrellino (o meglio, carrellone) comprato all'Ikea, tanto comodo e capiente quanto squallido.

Non c'è volta che lo usi in cui non mi sovvengano gli sguardi a metà tra lo schifato e il commiserevole che, quando ero più giovane, rivolgevo alle signore del mio quartiere che si trascinavano dietro un carrello della spesa. Oggi sono io, probabilmente, ad attirare simili sguardi da parte di qualche adolescente che, più che per andarsi a comprare una lattina di coca cola light e un tubo di pringles, non ha mai messo piede in vita sua in un supermercato per fare la spesa.

L'unico modo che conosco per adempiere il compito senza farmi venire un attacco di squallore (i supermercati mi deprimono alquanto) è andarci organizzatissima: lista e penna alla mano, a testa bassa parto dal reparto frutta e verdura e sistematicamente percorro tutti i corridoi, procedendo con metodo e velocità. Svicolo col mio carrellino tra anziani e carozzine con neonati urlanti, eseguendo (non sempre) eleganti gincane in quel percorso a ostacoli che può essere un supermercato nell'ora di punta.

Ma benché mi sforzi di attenermi alla lista, non c'è volta in cui non mi faccia sedurre da qualche acquisto imprevisto. Un giorno può essere una pianta grassa a pochi euro (la mia bella kalanchoë blossfeldiana, per esempio; mai acquisto fu più saggio e dispensatore di grazia e bellezza, per me), ma di solito si tratta di qualche cosa da mangiare, che non era in programma.

Spesso l'acquisto imprevisto avviene al reparto frutta e verdura. Mi faccio trascinare dall'ispirazione del momento e finisco per infilare nel carrello due teste di radicchio rosso (pur sapendo che alla Spia non piace e che io stessa lo trovo troppo amaro), oppure tre kiwi, che compro in preda a tentazioni salutiste e poi restano sul portafrutta ad osservarmi con malinconico rimprovero ogni volta che faccio colazione e a loro preferisco dei wafers (finché non me li mangio, in preda ai sensi di colpa e irritata con me stessa, con molto meno gusto e piacere di quello che avevo illusoriamente immaginato quando li ho comprati), o ancora quattro porri enormi, che poi non so bene come cucinare.

Proprio per via di un paio di porri affetti da gigantismo che da tempo languivano nel cassetto del frigorifero destinato alle verdure, per entrare nel quale erano già stati sottoposti a parziale mutilazione, oggi a pranzo ho deciso di provare una ricetta semplice e nient'affatto esotica, ma che mi ha dato grande soddisfazione: un gratin di patate e (guess what?) porri.

L'ho trovato su un altro libro di Rachel Allen (ricordate la biondina irlandese negativo di Nigella Lawson?), il primo da lei pubblicato, Rachel's Favourite Food. Come per quasi tutti i libri di esordio, si vede bene che l'editore non ha voluto scommetterci troppo: ha un aspetto che definire austero è dire poco, una grafica spartana, poche fotografie e alcune illustrazioni stile anni '50 che trovo di una bruttezza quasi insopportabile. Però, come scrivevo riferendomi a questa autrice, a un'apparenza non pretenziosa si accompagna un solido contenuto e tanto basta.

Fino a qualche giorno fa, questo smilzo volume era posato sul mobiletto del bagno e veniva da me diligentemente studiato (con tanto di annotazioni e post-it segnalibro) ogni mattina.
Io sono quella che Umberto Eco definirebbe probabilmente una lettrice 'policronica', vale a dire che leggo più libri contemporaneamente e quindi ne ho di sparpagliati per tutta casa, tutti in lettura.

A ciascuno di loro corrisponde un luogo preciso e un determinato momento della giornata e al libro di cucina (qualunque esso sia) spetta di diritto la sessione mattutina in bagno (non contano le consultazioni voluttuose da cui trarre ispirazione o semplice conforto, che invece avvengono, di solito nel pomeriggio, sul tavolo bar della cucina, con me appollaiata
sullo sgabello come un pappagallo sul trespolo, che mi beo).

Al romanzo di turno va il comodino e la lettura dopo pranzo. Insieme a lui, sempre sul comodino, il libro che in teoria dovrebbe traghettarmi verso sonni sereni (quasi sempre un self-help book, da cui dovrei trarre ispirazione e stimoli per migliorarmi... dovrei...) e che dunque viene letto solo la sera prima di addormentarmi. Sulla scrivania in sala, affiancato da un quaderno per gli appunti, il saggio (che può essere di vario argomento) che leggo nel pomeriggio.

Come si evince da queste righe, sono la persona più abitudinaria e casalinga che ci sia. Un giorno scriverò a lungo sulla mia passione per i rituali quotidiani, ma non ora, ora torniamo alla ricetta (questa mia orribile tendenza ad aprire parentesi infinite, tonde, quadre e graffe, e a divagare senza posa...).

Non si tratta di un piatto fancy, come direbbero gli inglesi, cioè stuzzicante, un po' particolare. È, al contrario, un'onesta pietanza invernale, casalinga, di quelle da mangiare con un po' di prosciutto crudo o un po' di formaggio
(o come contorno a qualche robusto piatto di carne), una fetta di pane e qualche noce a completare il pasto. Magari non il tipo di ricetta che può venire in mente quando si hanno ospiti a cena e li si vuole un po' stupire, ecco. Ma è buona e facilissima e la cucina di tutti i giorni, lo si sa, è fatta proprio di piatti così.

Ecco dunque le dosi (per 6):


50 gr. di burro
300 gr. di porri (due affetti da gigantismo), lavati e tagliati a rondelle di circa 1/2 centimetro
3 spicchi d'aglio, schiacciati con lo spremiaglio o tagliati molto finemente
2 cucchiaini di timo o rosmarino
1 kg di patate (più o meno 6, dipende dalla grandezza), sbucciate e tagliate a fette di circa 1/2 cm.
350 ml di panna (io ho usato panna e latte, perché a corto della prima)
sale e pepe

Mettete in una padella il burro, i porri, l'aglio e il timo o il rosmarino (io ci ho messo il timo perché lo preferisco e perché ne ho una pianta in terrazza; quella di rosmarino in veranda si è da tempo lasciata morire) e fate cuocere a fuoco lento e col coperchio finché i porri non siano trasparenti e morbidi (almeno 5 minuti, direi, meglio ancora 7-8, io preferisco sempre abbondare con la cottura).

Intanto, in una pentola di acqua bollente, scottate per 4-5 minuti le fette di patata. Scolatele e adagiatele in cerchi concentrici e leggermente sovrapposti in una tortiera imburrata. Salatele e pepatele, copritele con i porri, versate sopra la panna e mettete il tutto nel forno preriscaldato a 180 gradi per 45-55 minuti.

Mangiate e godete, lieti della consapevolezza che esistono ancora piaceri onesti e a buon mercato!


Rachel Allen, Rachel's Favourite Food, Gill & MacMillan, Dublin 2004.

giovedì 12 febbraio 2009

Pancakes


A casa nostra, vige una sorta di legge non scritta secondo la quale esiste una rigorosa divisione del lavoro tra me e la Spia.

E' risaputo che tocchi a me stirare e a lui lavare i pavimenti, a me lavare il bagno e a lui pulire la lettiera dei gatti, a me cucinare all'ora di pranzo e a lui andare a fare la spesa.

A chi spetti pensare alla cena, invece, è ancora un punto piuttosto ambiguo: spesso nessuno di noi due ha voglia di spignattare e quindi o si finiscono gli avanzi, o si imbastisce un pasto un po' 'alla selvaggia' (mio padre direbbe che mangiamo come gli ottentotti). Io opto quasi sempre per un'insalata, o un uovo sodo, qualche oliva nera, una fetta di pane, un po' di formaggio se ce n'è.

I primi anni della nostra convivenza era lui a cucinare. Tornava dall'ufficio non prima delle due-due e mezzo e mi trovava, in genere seduta sul divano, o qualche volta, con assoluta sfacciataggine, al tavolo della cucina (che avevo avuto, però, il buon gusto di apparecchiare), in attesa di vedermi preparato un pranzo. Nonostante tutto, non mi ha mai picchiata né insultata, e non ho ancora capito se non lo ha mai fatto per il grande amore che ha per me o per l'assoluta mancanza di energia fisica e mentale che azioni del genere gli avrebbero indubbiamente richiesto, in un momento della giornata in cui aveva a malapena la forza di togliersi le scarpe.

Poi, forse i sensi di colpa, o la curiosità, mi hanno spinto a cucinare qualcosa. Riso. Non avevo libri cui fare riferimento, quindi sono andata a memoria. Una memoria distorta, però, o quella della cuoca della mensa di un ospedale, cui ho avuto accesso per qualche strano fenomeno paranormale che ignoro. La prima volta ho bollito una quantità di riso sufficiente a sfamare almeno una ventina di persone e l'ho condito con dell'olio e del parmigiano. Era praticamente crudo e, per quel che posso ricordare, un'assoluta porcheria, senza remissione. On top of that, ne abbiamo dovuto mangiare per giorni, non finiva mai.
Ci ho messo un po' a capire che 200 grammi sono più che sufficienti per due persone (anche tre, se hanno appetiti modesti): per un bel po' di anni, la battuta tipica della Spia, che si affacciava sul pentolone fumante in cui cuoceva sempre una quantità oscena di riso, era: "Dove ha parcheggiato il pullmann della comitiva? Non l'ho visto in cortile".

Poi, un giorno, mi ha fatto vedere come si cucinava un sugo al pomodoro. Ho imparato, e da allora gliel'ho preparato credo almeno un migliaio di volte. Oggi potrei farlo a testa in giù e bendata. E per fortuna, perché gli spaghettini al pomodoro sono
la coperta di Linus della Spia, la panacea universale cui ricorrere ogni volta che ha bisogno di rassicurazioni circa il fatto che il mondo non è un luogo pericoloso in cui tutti gli vogliono male. Sapergli dunque offrire, velocemente e senza alcuna fatica, un simile conforto, è, in certe occasioni, cosa di vitale importanza.

La sera, comunque, se c'è da cucinare, quasi sempre ci pensa lui. Io vengo presa da grande pigrizia e, se posso, preferisco leggere la posta, bighellonare su internet, pensare a quale libro prendere in prestito in biblioteca o, molto semplicemente, starmene sul divano, come tanti anni fa, quando aspettavo il ritorno della Spia per poter essere sfamata degnamente (si è capito che sono di una pigrizia indecorosa?).

L'eccezione esiste, è ovvio: ospiti a cena, un piatto che desidero preparare io personalmente, o una voglia irrefrenabile di qualche cibo in particolare.

Ancora oggi, però, indipendentemente dall'ora del giorno, ci sono dei piatti che cucina solo la Spia ed altri che cucino solo io.

Sotto la mia giurisdizione cadono gli arrosti, le polpette, la parmigiana di melanzane, la carne impanata, tutte le torte rustiche e quelle dolci (ad eccezione della crostata, che facciamo entrambi) e tutti gli esperimenti, tanto per citare alcuni esempi.

Alla Spia spetta la preparazione della 'minestrina' (rigorosamente con le stelline; l'equivalente per me dei suoi spaghettini al pomodoro), della zuppa di carciofi,
della pasta aglio e olio e di quella cacio e pepe, della frittata col formaggio o delle famose 'patate alla spiona' (cotte in padella con rosmarino, una tonnellata di formaggio e una di prosciutto cotto; anche una scarpa sarebbe deliziosa in questo modo).

Ma, soprattutto, solo la Spia prepara i pancakes, rigorosamente la sera, quando abbiamo voglia di concederci una cena a base di dolci. Non dico che sia salutare, per quanto, il mio morale ne guadagna senz'altro... Forse perché mi ricorda quelle pochissime volte in cui, da piccola, i miei genitori mi concedevano di cenare con pane burro e marmellata, che non era affatto la mia merenda, né tanto meno la mia colazione preferita, ma come cena, per me, era il non plus ultra, soprattutto perché sovvertiva il rito serale della 'cena' ed ero solo io a mangiarla.

Non ricordo ci fosse mai un motivo particolare: come quasi tutte le cose che avevano a che fare coi miei genitori, c'era sempre un'altissima dose di
imprevedibile insindacabilità. Ciò che normalmente veniva considerato una pretesa inaccettabile o un capriccio odioso, e in quanto tale mi veniva negato nove volte su dieci, in una serata niente affatto diversa da tutte le altre, senza che io fossi malata o bisognosa di particolari attenzioni, mi veniva concesso senza problemi.

E dunque, stasera pancakes! Dopo essere stati al cinema di pomeriggio (Revolutionary Road, niente male, niente male), non immagino cena migliore, accompagnata per me da tè verde e per la Spia dall'immancabile coca cola.

L'importante è che lo sciroppo d'acero sia assolutamente sul tavolo, con buona pace del caro vecchio Michele Serra, che io considero una sorta di oracolo infallibile, ma che sui pancakes, per i quali ha un'avversione, non ci ha mai capito niente.


Ecco dunque la ricetta della Spia per 8-9 pancakes:

150 gr. di farina
50 gr. di burro
50 gr. di zucchero
200 ml. di latte
1 c
ucchiaino di lievito
sale
2 uova (separate)

Fondere il burro in un pentolino.
Riscaldare il latte (non bollirlo!).
Unire al latte il burro e i due tuorli.
Mescolare lo zucchero, la farina, il sale e il lievito ed aggiungerli al composto di latte, burro e tuorli.

Montare a neve gli albumi e unirli agli altri ingredienti.
Friggere piccole quantità di pastella su una padella molto calda o leggermente unta di burro, girando da entrambe le parti ogni pancake.

Servire con abbondante sciroppo d'acero (che deve essere, come si diceva, assolutamente sul tavolo) e, volendo strafare, con un po' di panna appena montata (o liquida, se siete pigri come me e non volete aspettare).

Buona notte!

giovedì 5 febbraio 2009

Blog di 'perlinomani' francesi e negozi di Firenze...


Ieri ho trascorso tutto il pomeriggio su Internet, alla ricerca di blog di 'perlinomani'. Ho scoperto che esiste un nutrito gruppo di signore e signorine francesi (sempre loro!) che hanno creato una vera e propria consorteria; alcune di loro si conoscono anche, mi sembra di capire, si attribuiscono premi a vicenda e si scambiano carinerie sui rispettivi blog.

A leggerli, a volte, fanno anche un po' ridere: hanno il gusto un po' sdolcinato che a volte assume il carattere francese e quindi è tutto un trionfo di bisous, mimi, chouette, mignon e via dicendo.

Ogni tanto queste perlinomani si mandano per posta dei regali, ma la cosa non è così semplice come appare: si decide che cosa si crea e per chi, si formano le coppie e poi si manda la propria creazione a chi deve riceverla. Quindi Tizia e Caia si scambiano un anello, Sempronia e Ipazia si inviano un bracciale e così via, e sui rispettivi post trova spazio la foto del regalo ricevuto e la consueta valanga di j'adore!, ça c'est mignon!, tu es adorable! etc. etc.

A parte questo aspetto un po' melenso, queste signore d'oltralpe mi mettono in soggezione.
Raramente ho visto gioielli più belli, elaborati (a volte fin troppo), raffinati, curati e ben fatti. Sembrano tutte opere di professioniste, quando invece si tratta di semplici appassionate. Anche le foto dei vari profili personali mostrano spesso visi sorridenti di segretarie di dentisti, bibliotecarie, casalinghe, commesse di mercerie, qualche volta anche 'stagionate' e dall'aria simpaticamente campagnola, ritratte durante viaggi organizzati.

Alcune di loro sono particolarmente generose: non fanno difficoltà a mettere in rete gli schemi delle loro creazioni. Ma anche solo guardare le foto è una fonte di grandissima ispirazione; inoltre c'è una ricca messe di informazioni su altri blog sparsi per il mondo che queste signore ritengono di particolare utilità e bellezza (mi sembra che vadano forti anche le ungheresi).

Insomma, alla fine, ieri sono rimasta per ore incollata al pc, cosa che in genere mi lascia di cattivo umore (penso sempre che avrei potuto leggere, o cucinare, o fare qualcosa di più creativo che farmi ipnotizzare da quel serpente incantatore che è la rete).
Ed ho aggiunto una quantità assurda di loro blog alla lista dei miei preferiti, perché intendo seguirli con assiduità, benché la visione di tali e tanti capolavori al tempo stesso mi esalti e mi abbatta.

Al di là dei gusti personali, ho molta strada da fare prima di giungere a simili vette di perfezione. Per ora, mi limito a realizzare piccole cose, come per esempio questo anello - fotografato in bagno!

Non si sa quanti problemi mi crei il mio rapporto nevrotico con la macchina fotografica. Fondamentalmente non la so usare, e non ho la pazienza di leggere le istruzioni (ammesso che riesca a ritrovarle), quindi, invece di esplorare le sue possibilità, mi limito a spostarmi per la casa, alla ricerca della migliore luce e delle migliori condizioni per scattare una fotografia decente.

Comunque, l'anello si trova in The Beader's Palette, libro senza autore della casa editrice Ondori, che è giapponese ma ha pubblicato alcuni testi anche in inglese, come questo.
L'ho ordinato presso la Paperback Exchange Bookstore di Firenze, dove lavora la mia amica Lelia (grazie Lelia per la collaborazione!), un posto molto grazioso e molto cosy in pieno centro, proprio dietro il Duomo, l'unico ormai
a Firenze (o quasi, per quel che ho visto) dove si possano comprare libri inglesi o americani.

L'ho acquistato tramite loro perché mi davano la certezza che sarebbe arrivato e in breve tempo: tutto vero, il servizio è assolutamente affidabile e la cortesia di casa, valeva la pena di spendere qualche euro in più.

Il libro in sé non è dei migliori, ma le foto sono belle e gli schemi, benché disegnati con mano tremolante e un po' infantile (avrebbe potuto farli mia nipote Martina), sono chiarissimi. Inoltre, ci sono alcuni anelli davvero notevoli, uno in particolare di cui cercavo da tempo lo schema (non è quello della fotografia!): l'avevo visto al dito della gentilissima signora giapponese che lavora nel negozio che ho sotto casa presso il quale spesso mi rifornisco di materiali.

Il negozio si chiama Agomago ed è stato uno dei motivi per cui ho deciso di prendere in affitto l'appartamento in cui ora vivo con la Spia (non scherzo!). Un posto così sotto casa, ma quando mi sarebbe ricapitata una simile fortuna?

Agomago è nato da e per appassionate di patchwork e quindi ha un'incredibile scelta di tessuti, fili, aghi, libri (molti giapponesi, bellissimi!) e tutto quello che serve per realizzare
con questa tecnica trapunte, borse, pannelli e quant'altro, oltre ad organizzare corsi più volte l'anno. Ma è anche un luogo di incontro. Molte volte, clienti e amiche si ritrovano in negozioL'ambiente è piacevolissimo, luminoso e tutto arredato in legno, con gran gusto. Insomma, è un posto dove si va e si sta volentieri. Io, ovviamente, passo ore a scegliere cristalli e conterie o gomitoli di lana.

Qui ho comprato, appunto, le perle color crema dell'anello (quelle rosa antico, misura 8, le ho comprate a Lusaka): erano in offerta e vendute in uno scatolino, ma non so di quale marca siano. Pur essendo di plastica, sono fatte bene: speriamo solo che non si 'spellino'.


La tecnica è semplicissima, ed è intuibile (spero) anche dalla semplice osservazione di questa foto: si parte infilando in un metro circa di filo di nylon una perlina rosa, una perla color crema ed una perlina rosa, quindi un'altra perla color crema in cui si fanno passare, incrociati, entrambi i capi del filo. E così si va avanti fino a raggiungere la larghezza adatta al dito, quindi si passa di nuovo uno dei due capi del filo nella prima perlina rosa infilata e si ricomincia. In questo modo, la seconda fila di perle e perline si troverà sfalsata rispetto alla prima. Giunti all'altezza della prima perla color crema sia della prima sia della seconda fila (sono incolonnate), si procede con altre tre 'combinazioni' (ognuna composta da una perla color crema e due perline rosa), quindi si fa un nodino con i due capi del filo che vanno poi infilati a zigzag per un po' di perline prima di essere tagliati.
L'anello è terminato!



The Beader's Palette, Ondori, Tokyo 2003.