mercoledì 30 dicembre 2009

Dell'incapacità di scegliere o della sindrome del "Potevamo" (e di alcuni biscotti [volendo] alla cannella)


La Spia e sua madre non hanno quel che definirei 'un ottimo rapporto'.

O meglio.

La Spia e sua madre hanno un ottimo rapporto, a patto che tra di loro ci siano almeno 333 chilometri, che sono esattamente quelli che, secondo Google Maps, separano la casa dell'una a Milano da quella dell'altro a Firenze.

La Spia e sua madre si sentono regolarmente al telefono. Parlano molto e ridono spesso, si danno reciprocamente consigli (lei viene spesso chiamata per consulti gastronomici - è cuoca sopraffina ma sommamente anarchica; lui viene invece interpellato per le ragioni più varie), si raccontano un sacco di cose, commentano indignati o divertiti notizie di attualità, si scambiano titoli di libri, si segnalano a vicenda film da vedere, musica da ascoltare, spettacoli teatrali cui assistere, programmi interessanti (quando ce ne sono, dato il per lo più desolante panorama televisivo).

La madre della Spia ama sommamente chiamare la Spia e dargli notizie allarmanti che ha letto su un giornale dimenticato in metro da qualcuno o ha sentito durante un programma tv visto a notte fonda con un occhio solo. In entrambi i casi, il ricordo della notizia è vago (sulla metro si distrae per guardare la gente; a notte fonda dormicchia sul divano davanti alla tv e poi si sveglia, guarda 3 minuti di programma e poi si riaddormenta, e poi si sveglia ancora e via così fino a mattina) e i pochi dati buttati giù su un foglietto strappato da qualche parte e annotati con la sua grafia alla Dalì non sono mai molto chiari, ma a lei piace moltissimo, dopo un breve preambolo, tuonare nella cornetta qualcosa del tipo: "Hanno detto che non bisogna più mangiare i mandarini! Sono cancerogeni!".

Questa è la griglia-tipo su cui la madre della Spia, negli anni, si è sbizzarrita a ricamare canovacci sempre diversi (con grande divertimento suo e nostro). Variazioni gustose e che mi sono rimaste impresse sono state (cito a caso):
"Hanno detto che non bisogna surgelare il pane!"
"Hanno detto che non bisogna conservare i cibi nei sacchetti di plastica!"
"Hanno detto che non bisogna lavarsi!"
Chi siano questi 'Hanno detto', cioè le fonti di tali notizie, è sempre cosa assai difficile da appurare. A volte impossibile. Facile da prevedere, invece, la conclusione di ogni nuovo diktat: "E' cancerogeno!".

Quando la Spia e sua madre, invece di parlare al telefono, si incontrano e trascorrono insieme più di 24 ore, sono dolori.
Hanno entrambi la straordinaria capacità di agitarsi a vicenda in modo delirante, portandosi reciprocamente prima alla frenesia e poi all'esasperazione, facendo tutto ciò che sanno irritare l'altro.

Io penso che questo sia il loro modo contorto e involuto di volersi bene, di riconoscersi simili, di fare un po' a pugni per sfogare certe tensioni che risalgono almeno al 1968.

Per chi assista a simili incontri di boxe, lo spettacolo può non essere piacevole.
Ricordo con orrore certe occasioni in passato in cui ho assistito alla creazione delle tipiche, elettriche atmosfere che riescono a prodursi tra i due. Ero sempre molto stupita che non si materializzasse tra le loro teste una nuvolona grigia e pesante di fulmini.

Con gli anni ho imparato a non aver paura di simili tempeste. So che si scatenano periodicamente, che sono terribili a vedersi, ma anche che passano senza quasi lasciare traccia.
Soprattutto ho imparato che non sono affari miei, e il rendermene conto è sempre meravigliosamente confortante.

Io e la madre della Spia abbiamo moltissime cose in comune. La Spia ogni tanto se ne rende conto e ci resta secco. Mi guarda sconvolto e mi dice "Madonna come mi sembri mia madre".
A volte la frase viene pronunciata con una sfumatura di malcelato orgoglio, altre con irritazione o sgomento; altre ancora, e sono la maggior parte, con divertita rassegnazione. La Spia non è certamente il primo uomo che ogni tanto pensa di aver sposato un clone (benché mascherato, benché travestito) di sua madre.

Se c'è una cosa che io e mia suocera abbiamo senz'altro in comune è la sindrome del 'Potevamo'.

Ci tormenta entrambe un'orrida propensione a mantrugiarci per tempi eterni e indefiniti nell'indecisione. L'idea di scegliere e di precluderci un'alternativa ci uccide. La prospettiva di dover ridurre ad un numero ragionevole l'infinita gamma di possibilità che la vita ci offre nelle più svariate occasioni ci rattrista e a volte ci fa arrabbiare. Come sarebbe bello poter fare tutto! Non dover mai scegliere! Poter andare quindici giorni al mare e altrettanti a Parigi quando si ha solo una settimana di vacanza e bisogna decidersi per una meta sola.

Abbiamo milioni di programmi, uno più faraonico e complicato dell'altro e vorremmo realizzarli tutti, indifferenti alla voce (quella della Spia) che ci richiama alla realtà nuda e cruda dei fatti e delle leggi della fisica. Quando infine, dopo estenuante agonia, scegliamo, non siamo mai del tutto persuase della bontà della nostra scelta e saliamo sulla diabolica giostra del 'Potevamo'.

Vi faccio un esempio, per chiarire.

Ci sono poche cose al mondo che ci divertono di più dell'idea di organizzare un pranzo o una cena.
Ma quando lo facciamo, la nostra mente comincia a viaggiare a velocità supersonica, sfogliamo decine di libri, elaboriamo almeno 5 diversi menu che poi scomponiamo, ricomponiamo, modifichiamo, cancelliamo, ripeschiamo.

Alla fine, quando decidiamo cosa fare, siamo già stanchissime anche senza aver toccato un mestolo. Ma ci rimane sempre il rimpianto di quello che avremmo potuto preparare e non abbiamo preparato, il sospetto che se avessimo scelto quel primo e quel contorno, che invece abbiamo deciso infine di non cucinare, il menu sarebbe stato ancora più strabiliante, o più equilibrato, o più raffinato.

Quando la Spia sente me o sua madre pronunciare la fatidica paroletta "Potevamo..." (che prelude a frasi di ogni genere, del tipo: "Potevamo fare i cannelloni invece che i tortellini", "Potevamo andare a passeggio invece che al cinema", "Potevamo farci la doccia invece che il bagno" e via così), comincia a innervosirsi. Sgrana gli occhi azzurri ed espira col naso come se fosse un soffione boracifero.

Il mio ultimo "Potevamo" ha riguardato proprio questo blog.

Volevo fare le cose per benino. Pubblicare qualche post pre-natalizio con ricette e foto suggestive (oddio, che parola grossa; qui ne vedete due esempi: in alto la renna Olga, indispensabile ninnolo natalizio che, a dire il vero, fa bella mostra di sé tutto l'anno [regalo della suocera, tra l'altro]; in basso l'alberello in fil di ferro e perline comprato a Lusaka), magari dare anche qualche (non richiesto) consiglio sui regali di Natale da fare con le proprie sante manine.

Invece niente di niente. Tra l'effettivo delirio festivo che mi ha tenuta lontana dalla tastiera e l'indecisione orrenda su che cosa pubblicare ("no, questa ricetta non mi convince" "nooo, quest'altra non è sufficientemente natalizia" "noooo! questa qui non è abbastanza testata!"), ho finito per non fare nulla (manifestazione naturale e comune, anche se non automatica, della sindrome del "Potevamo").

Ed ora che manca un giorno alla fine di questo 2009, vi scrivo la ricetta dei biscotti che ho regalato un po' in giro, dei semplicissimi biscotti che faccio tutto l'anno ma che, con una semplice aggiunta di cannella (ed eventualmente di zenzero) e una 'pucciata' nel cioccolato fuso, fanno la loro porca figura anche come piccolo regalo.

E' tardi, lo so. E' tardissimo.
Siate pazienti. Come la Spia lo è con me e con sua madre.

I biscotti sono comunque buonissimi, indipendentemente da quando decidiate di farli.


da Feast di Nigella Lawson

per 25-30 biscotti

90 gr. di burro
100 gr. di zucchero
1 uovo
1/2 cucchiaino di estratto naturale di vaniglia
200 gr. di farina
1/2 cucchiaino di lievito per dolci
1/2 cucchiaino di sale
(1 cucchiaino di cannella, facoltativo)

Secondo il mio sistema - che dovreste ormai conoscere - mettete tutti gli ingredienti secchi nella coppa del robot da cucina, azionate per una decina di secondi, poi unite l'uovo.

Quando sta per formarsi la cosiddetta palla, tirate fuori l'impasto, dategli due-tre 'smucinate' (termine tecnico ad indicare delle rispettose ma vigorose manate, atte a permettere all'impasto stesso di assumere una qualche compattezza e forma), appiattitelo, avvolgetelo nella pellicola e mettetelo in frigorifero per almeno un'oretta.

Preriscaldate il forno a 180°.

Con il mattarello, stendete l'impasto fino a che raggiunga uno spessore di circa 1/2 cm.

Usate i vostri stampini per biscotti preferiti (ricordate che se decidete di usarne di diverse dimensioni dovrete stare attenti alla cottura: quelli più piccoli cuoceranno, ovviamente, prima di quelli più grandi).

Fate cuocere per 8-12 minuti (la solita storia del 'ogni forno è diverso' e bla bla bla). I biscotti dovranno essere piuttosto pallidi, con i bordi appena dorati.
Fate raffreddare su una gratella.

Sciogliete una tavoletta da 100 gr. di cioccolato fondente e intingetevi i biscotti.
Man mano che li depositate sulla consueta gratella, sotto la quale avrete messo un foglio di carta da forno per raccogliere eventuali sbrodolamenti, mangiatene qualcuno.

Se non lo faceste, dopo averli tutti regalati ai vostri amici, potreste ritrovarvi anche voi a pensare malinconicamente: "Potevamo mangiarne qualcuno..."

Enjoy!

venerdì 18 dicembre 2009

Everyman di Philip Roth

Al centro di questa meditazione sulla vecchiaia e sulla morte, è l'ennesima incarnazione dell'autore, un pubblicitario di successo pluridivorziato e con tre figli, due nati dal primo matrimonio - che non lo hanno mai perdonato per averli abbandonati insieme alla loro madre - una che lo adora, Nancy, avuta con la seconda moglie, la tenera Phoebe. La storia che leggiamo è quella delle vicissitudini mediche del protagonista, la cui vecchiaia viene funestata da una lunga serie di disturbi e operazioni chirurgiche e dalla malattia e dalla morte delle persone che lo circondano.

Altro personaggio chiave è il fratello maggiore del protagonista, Howie, il suo doppio perfetto: atletico, sanissimo, uomo di successo che ha saputo costruirsi una fortuna in modo onesto, senza sacrificare all'impresa l'amore fedele per la moglie e il rapporto intimo e felice con i figli e con il fratello amatissimo.

L'Everyman del titolo fa riferimento a una rappresentazione allegorica quattrocentesca, un classico della prima drammaturgia inglese, che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte, recita il risvolto di copertina.

Così come davanti alla morte non esistono i singoli individui, nella loro straziante e forse inutile unicità, ma solo l'umanità tutta, la vita tutta, destinata a passare sotto la sua falce, il protagonista di questo romanzo non ha nome, è una maschera, è l'uomo comune, dotato della sua dose di pregi e difetti, debole di fronte alle tentazioni, incline alla menzogna e al sotterfugio, spesso inconsapevole, per egoismo, per cecità, di far soffrire chi lo ama, non immune da un sentimento meschino come l'invidia (nei confronti di Howie, che lo adora), ma anche capace di provare genuina compassione nei confronti dei suoi simili, di albergare sentimenti di protezione e tenera sollecitudine verso la figlia tanto amata, di trovare una momentanea sospensione estatica, all'indomani della pensione, nella grande passione della sua vita, la pittura, che però, dopo una breve parentesi idilliaca, lo abbandona, appannata anch'essa dall'incombere della malattia e dalla morte e, prima ancora, dalla desolante solitudine che accompagna il declino del protagonista.

Bellissimo, a mio avviso, l'incontro con il vecchio becchino che al protagonista spiega in modo dettagliato la complessa operazione che è poi una sepoltura: nella precisione, nell'attenzione dedicate a un compito tanto ingrato, che quest'uomo svolge (e non è un caso) insieme al figlio (e forte in questo romanzo è l'idea che si continua a vivere attraverso la propria progenie), si respira il civile e sublime rispetto per i propri simili, il desiderio di conceder loro, anche quando ormai sono scivolati nell'oblio e forse non ascoltano e non vedono ciò che si fa per loro e in loro nome, gesti dettati da un'autentica e commovente pietas.



Philip Roth, Everyman, Einaudi 2007, traduzione di Vincenzo Mantovani.

lunedì 14 dicembre 2009

Delle (cosiddette) piccole gioie della vita, del celebrarle e di alcuni muffins


Qualche tempo fa mi sono finalmente liberata della traduzione che mi trascinavo dietro, ridendo e scherzando - si fa per dire - da circa un anno e mezzo, con tutto il suo corollario di nefaste conseguenze per il mio benessere psico-fisico (e per quello della povera Spia).

Mi dispiace dirlo, ma non sono molto contenta del risultato del mio lavoro.
Benché in tutta onestà possa affermare che non avrei potuto fare meglio di quanto ho fatto, la consegna di questo libro non è stata accompagnata da quel senso di soddisfazione mista ad ansia che provo ogni volta che premo il tasto invio e mando alla casa editrice la fatidica mail con il suo corposo allegato (benedetta sia la posta elettronica, che non mi costringe a spedire pacchi e pacchetti).

Detto ciò, ora che mi è concessa una momentanea tregua (con tutta probabilità, infatti, dovrò di nuovo occuparmi di questo stramaledetto libro quando in redazione cominceranno a rileggere la mia traduzione e, inutile dirlo, già pavento quell'istante), cerco di godermi al meglio questa finestra di tempo libero e di ozio, da lungo tempo agognata.

Che la cosa avvenga in prossimità delle feste natalizie è certamente una fortunata coincidenza: mi offre infatti l'opportunità di dedicarmi con agio alla manifattura di regali e biglietti, attività che mi diverte e mi delizia oltre ogni dire. La testa ribolle di idee, le mani la seguono come possono, la casa tutta si trasforma in un enorme, caotico laboratorio ingombro di carte, nastri, gomitoli di lana, fili, perline che le gatte Linda e Matilde mangiano o spargono per ogni dove, costringendomi a trascorrere intere mezz'ore piegata a 90° o carponi sul pavimento a guardare sotto i mobili (e a spaventarmi per la polvere che vi si accumula; ma non soffermiamoci su questo aspetto); la Spia sorride, non si sa se intenerito, rassegnato o come si sorride ai folli, per tenerli buoni nell'attesa che arrivi la neurodeliri.

Per tornare all'argomento di questo post, il giorno in cui ho consegnato la traduzione, pur se tra mille dubbi e perplessità e con uno strisciante senso di incombente tragedia, ho voluto comunque festeggiare l'evento preparando questi muffins, che infatti, in Rachel's Favourite Food at Home di Rachel Allen, risultano come orange and chocolate chip celebratory cupcakes.

Credo sia giusto e sano celebrare anche minimi, microscopici eventi felici della vita quotidiana.
Sono allergica a gran parte delle manifestazioni di ciò che viene sommariamente definito 'pensiero positivo', ma sento che bisognerebbe non sottovalutare mai anche quelle che appaiono come trascurabili e piccole soddisfazioni (a ben guardare non lo sono mai) e assaporare ogni minimo momento di respiro, bellezza e serenità ci venga concesso, per fermarci un attimo e pensare che in fondo la vita non è poi sempre e comunque una rottura di palle, come a volte ci fa perversamente comodo credere che sia.

Al contrario, a me pare che, a chi sappia scorgerle e goderne, essa offra infinite, anche se spesso minime, occasioni di piacere e di felicità. Si tratta di approfittarne e di non farsele scappare. E sempre, sempre, sempre di ringraziare (non so bene chi o cosa, visto che tendenzialmente sono agnostica). E, volendo e potendo, di condividere.

Così io faccio volentieri con voi, passandovi la semplicissima ricetta di questi muffins (del resto tutte le ricette di muffins sono di una semplicità disarmante, quasi sospetta).


per 12 muffins:

2 uova
150 gr. zucchero di canna leggero (io ho usato il golden caster sugar del commercio equo e solidale)
la buccia grattugiata e il succo di due arance
latte
100 gr. di burro, fuso
350 gr. di farina, setacciata
1 cucchiaio di lievito
1/4 di cucchiaino di bicarbonato
1/2 cucchiaino di sale
200 gr. di cioccolato fondente 70%, tagliato a pezzetti

Preriscaldate il forno a 200° e preparate una teglia da 12 muffins (imburratela e infarinatela oppure usate dei pirottini).

Con una frusta mescolate appena le uova, lo zucchero e la buccia delle arance.

In un bricco misuratore versate il succo delle arance. Aggiungete tanto latte quanto vi serve per arrivare ad avere 175 ml. di liquido. Unite il burro fuso e versate il tutto nella ciotola delle uova e dello zucchero.

Aggiungete tutti gli ingredienti secchi e mescolate quel tanto che basta per amalgamare tutto. Come ben sapete, un impasto grumoso, oserei dire abborracciato, produce muffins leggeri e ariosi (è questo il motivo per cui è così bello farli e, a ben guardare, un'ulteriore occasione di gioia e felicità da celebrare: che una cosa tanto buona sia anche tanto facile e rapida da fare).

Cuocete in forno per circa 20-25', passati i quali tirate fuori la teglia, fatela raffreddare per qualche minuto, poi estraete tutti i muffins e metteteli sulla solita gratella.

Mangiate, rendete grazie e soprattutto godete!

Enjoy!

sabato 12 dicembre 2009

Né di Eva né di Adamo di Amélie Nothomb

Questo è il primo libro di Amélie Nothomb che leggo. Ovviamente avevo sentito molto parlare di lei: questa scrittrice belga, intorno alla quale si è creato una sorta di culto, non è tipo da passare inosservato, anzi, è decisamente un personaggio folkloristico, sempre vestita di nero e spesso sfoggiante cappelli di una stralunata e lugubre eccentricità che la fanno assomigliare a un personaggio uscito da un film di Tim Burton.

Devo ammettere che in questo romanzo autobiografico non ho trovato molto simpatico il personaggio Amélie, ma non posso impedirmi di riconoscerle un certo qual carisma.
Si capisce perfettamente che ci si trova di fronte ad un individuo originale, animato da sentimenti e idee personalissimi che a tratti però, almeno per me, hanno il sentore di vezzi.

Posso dire che il libro ha pagine divertenti e che per chi, come me, ha vissuto anni all'estero, circondata da persone di diversa nazionalità, suonano molto vere certe osservazioni e riflessioni cui l'autrice si abbandona mentre narra la sua storia. Come potrei non sottoscrivere la seguente affermazione: Il vantaggio delle discussioni con gli stranieri è che si può sempre attribuire l'espressione più o meno costernata dell'altro alla differenza culturale?

La storia d'amore narrata nel libro è solo marginalmente quella con lo studente giapponese Rinri, essendo in primo luogo quella che la Nothomb ha con il Giappone tutto, dove è nata, con la propria infanzia (dimensione spazio-temporale mitica e rimpianta, nella quale cerca sempre spasmodicamente di tornare, con risultati alterni) e, in ultima analisi, con se stessa.

Il libro si chiude con una bella scena (casualmente ambientata il giorno del mio compleanno, cosa che mi ha fatto scioccamente piacere; mi si perdoni l'innocuo e idiota narcisismo), in cui i due ex amanti si scambiano, dopo anni che la loro relazione è finita, l'abbraccio fraterno del samurai, trovando allora, in quel gesto sobrio e virile, di grande intensità, il senso e la bellezza della relazione cui un tempo hanno dato vita.

Questa scena non riesce però, ai miei occhi, a riscattare l'idea di fondo che mi sono fatta della storia e dell'autrice.
Il modo in cui quest'ultima gestisce la fine della sua relazione con Rinri non le fa fare quella che definirei una bellissima figura; c'è di buono che è proprio lei la prima ad ammettere di essersi comportata in modo non proprio elegantissimo e coraggioso e questo in parte riscatta la sua fuga.

In ultima analisi, l'impressione che ho ricavato dalla lettura di questo romanzo è che la Nothomb viva fondamentalmente isolata dal resto del genere umano, cui pur tuttavia appartiene e che, ad eccezione di pochissimi individui (la sorella Juliette in primis), le sue relazioni più appassionate e coinvolgenti siano soprattutto intessute con le cose inanimate: il monte Fuji, il paese che l'ha vista nascere, certi cibi, certi paesaggi, una certa idea di sé.

Non che ci sia niente di male.

Ma per tutto il romanzo mi è sembrato di sentir spirare il vento gelido e impietoso che in una scena intensa e cruciale del romanzo soffia sull'innevato, immoto e glaciale Kumotori Yama e porta quasi alla morte la protagonista. Di tanta perfezione e solitaria, sublime, disumana bellezza si può anche morire.



Amélie Nothomb, Né di Eva né di Adamo, Voland 2007, traduzione di Monica Capuani.

martedì 8 dicembre 2009

Lavorare piace di Alain de Botton


Ci ho provato a leggere questo libro.
Ho letto diligentemente (benché sbadigliando più spesso di quanto avrei voluto) le prime 190 pagine, poi ho cominciato a saltarne qualcuna, a tralasciare interi capitoli, a leggere periodi a caso, finché oggi pomeriggio ho smesso di fare l'ipocrita e mi sono data per vinta.
Questo libro non è scritto (tradotto) male e l'argomento in sé mi interessa molto.
A prenderlo in prestito alla biblioteca del quartiere mi aveva spinta una frase, proprio all'inizio, che spiega che cosa sia questo libro: un'ode all'intelligenza, alla peculiarità, alla bellezza e all'orrore del lavoro moderno e, non da ultimo, alla sua straordinaria pretesa di fornirci, insieme all'amore, la fonte principale del senso della vita umana.

Non chiedevo niente di meglio che leggere qualcosa che parlasse proprio di tutto questo.
Peccato che de Botton, autore che sa essere tanto brillante quanto pesantissimo e pedante, in questo ultimo suo libro mi sembra abbia dato voce solo a questo secondo aspetto della sua natura di scrittore.

Non sono riuscita nemmeno per un secondo a trovare interessanti le storie che racconta e che secondo lui dovrebbero rappresentare un ritratto variegato e realistico del moderno mondo del lavoro. Non solo, ho avuto l'impressione che lui per primo, l'autore intendo, sia del tutto indifferente alle storie che narra. La partecipazione alla vita dei personaggi incontrati è praticamente inesistente e anche l'occasionale ironia che risvegliano alcuni tratti decisamente bizzarri di questi uomini e queste donne incrociati via via è stiracchiata e artificiosa.

Secondo me de Botton nello scrivere questo libro si è annoiato tanto quanto io mi sono annoiata leggendolo.
Davvero soporifero.
Come sempre, peccato.



Alain de Botton, Lavorare piace, Guanda 2009, traduzione di Luisa Nera.

sabato 5 dicembre 2009

Un post su commissione o dell'estratto di vaniglia fatto in casa

La mia cara amica Paola mi ha chiesto or ora delle delucidazioni in merito alla ricetta di ieri. Era assai perplessa circa l'estratto di vaniglia da me indicato tra gli ingredienti. Pensava mi riferissi a quegli orrendi preparati chimici e sintetici che si trovano in genere venduti in fialette nei supermercati.

Orrore e abominio! Giammai! Io intendevo l'estratto naturale di vaniglia, che è raro e assai costoso, ma che ci si può molto facilmente preparare da soli, con le proprie manine, a casa propria, come infatti avevo scritto qui, rimandando al post di Clotilde Dusoulier che spiegava tutto per benino.

Paolina però vuole che glielo spieghi io e siccome accontentarla mi fa felice, ecco qui il procedimento, preso alla lettera da Clotilde Dusoulier, però scritto da me.
Va bene così Paolina bella?
:-)



Ingredienti:

3 baccelli di vaniglia
250 ml. di vodka (nella ricetta originale è indicata in alternativa al rum; io la preferisco)

Con un coltello dalla lama affilata tagliate i baccelli nel senso della lunghezza in modo da esporre i semini che sono all'interno. Eventualmente tagliate i baccelli a metà (nel caso in cui non entrassero agevolmente nel barattolo). Infilateli nel barattolo (lavato con acqua calda e sapone e ben asciugato, ça va sans dire) e versateci sopra la vodka (o il rum).

Chiudete il barattolo e riponetelo nella credenza al buio, agitandolo amorevolmente ma fermamente un paio di volte alla settimana o ogni volta che ve ne ricordiate.

Dopo 2 mesi dovreste avere la vostra essenza di vaniglia naturale, che diventerà sempre più scura e un po' torbida. Niente paura. E' così che deve essere.

La cosa bella è che si tratta di qualcosa di praticamente eterno. Man mano che lo usate, quando vedete che il livello della vodka scende di circa il 20%, rabboccate con un altro po' di liquore e agitate.

Io trovo sia un bellissimo regalo di Natale per un'amica o un amico cucinieri.
Scegliete un bel barattolo, magari un po' artistico, cingetelo con un nastro, aggiungete il solito bigliettino con accluse tutte le informazioni che ritenete importanti (quando l'avete preparato, quando sarà pronto all'uso, come 'rinnovarlo' etc. etc.) e rendete felice con poco un altro essere umano.
E anche voi.

Ad esser buoni si fa felici prima di tutto se stessi.

Enjoy!

venerdì 4 dicembre 2009

Del combattere gli sprechi, dell'amicizia fra donne e di un altro banana bread


In realtà questo post doveva parlare di tutt'altro.
Ora vi racconto com'è andata.

Con il nostro GAS, io e la Spia compriamo regolarmente i prodotti del commercio equo e solidale, tra i quali anche ananas e banane. La Spia non ama le banane. Io sì, ma, terrorizzata all'idea di ingrassare di nuovo, ne mangio una ogni 10 giorni, cumulativamente.
Nel senso che ne addento un pezzetto e poi la lascio lì, mutilata, ad annerirsi, sperando che la Spia la utilizzi per prepararsi uno dei suoi famosi frullati (o papponi, dipende dal punto di vista). Cosa che puntualmente la Spia fa, benché sbuffando, perché, appunto, lui le banane non le ama, ma detesta gli sprechi.

Ogni due settimane, dunque, in casa nostra c'è sempre la stessa discussione. Io compro le banane e lui mi dice: 'Ma che cosa le compri a fare? E perché ne compri così tante? Poi finisce sempre che mi tocca mangiarmele e a me non piacciono nemmeno'. Mi secca ammetterlo, ma il pover'uomo, almeno su questo, ha ragione (per la legge dei grandi numeri ci sta che ogni tanto abbia ragione anche lui).

Qualche giorno fa, dunque, vedendo tre banane parcheggiate da giorni sulla fruttiera e ormai sulla via della pensione, ho preparato un banana bread (ricordate? ne avevo parlato già qui) e l'ho portato a casa di una mia cara amica, dalla quale sono andata dopo pranzo per chiacchierare un po', perché costituisse il pezzo forte della nostra merenda (per quanto, si può parlare di merenda alle 3 del pomeriggio?). Il che spiega anche il perché delle due misere foto di oggi (voglio dire, ancora più misere del consueto), scattate prima di andare a casa della mia amica, dove ovviamente mi sono ben guardata dallo scattarne qualcuna alla torta tagliata. Oggi vi si chiede un ulteriore sforzo di immaginazione; fatelo per amor mio.

Se non che, ultimamente mi sono imbattuta in più di un blog in cui si parlava di dolci con le banane (andate per esempio a vedere qui, e mi ringrazierete) e mi sono chiesta se fosse proprio necessario che anche io scrivessi un post sullo stesso argomento. Dunque avevo pensato di parlare di alcuni muffins buonissimi al cioccolato e all'arancia (d'accordo, l'abbinamento non è dei più originali, ma sono davvero molto molto buoni e facilissimi; ne riparleremo).

Poi mi sono detta che questo banana bread è leggermente diverso dagli altri di cui ho letto (la ricetta è tratta da How to Be a Domestic Goddess di Nigellona) e soprattutto che è un pretesto per celebrare quel che per me è una conquista relativamente recente: l'amicizia con le donne.

Ho sempre avuto qualche problema ad avere legami d'amicizia sereni e duraturi con rappresentanti del mio sesso. A parte un caso eccezionale che resiste al tempo, alla distanza e alle differenze caratteriali (Claudia, sto parlando di te!), ho sempre avuto rapporti conflittuali dall'andamento altalenante, che in due casi particolarmente infelici si sono conclusi in modo piuttosto burrascoso. Peccato.

Adesso sono in una fase della mia vita in cui ho molte amiche, tutte diverse tra loro e tutte 'nuove' o quasi. Conosciute in questo ultimo anno e mezzo trascorso a Firenze, per lo più, ma anche incontrate in rete, alcune delle quali mai viste di persona, con cui intrattengo rapporti di diversa intensità, ma tutti ugualmente sinceri ed affettuosi. Una situazione inusuale, per me, e che mi piace molto.

Una volta, sul suo diario, la mia adorata Virginia scrisse: 'Women only stir my imagination'. Vale a dire, solo le donne stimolano la mia immaginazione. Al di là delle facili battute che si possono fare circa l'omosessualità della Woolf, comincio a pensare che la cosa sia vera anche per me.

Trovo che le mie amiche siano mediamente molto ma molto più interessanti di quasi tutti gli uomini che conosco. Sono più complesse, più sfaccettate, in molti casi decisamente più affascinanti. Vivono in un mondo più intenso, che abbraccia un campo maggiore di esperienza e di vita, si trovano spesso a partecipare di dimensioni diversissime tra loro (molte sono madri, mogli, lavorano) e questo fa di loro creature dalle molteplici identità, in grado di entrare e uscire da queste diverse dimensioni con minore o maggiore disinvoltura, ma sempre con grande slancio e sentimento e passione.

Molte di loro sono dotate di un senso dell'umorismo irresistibile, cinico o stralunato, e mi riducono spesso a un essere gemebondo in preda al fou rire; altre hanno invece doti non comuni di analisi, straordinarie capacità intuitive, e tra le cose individuano nessi, rapporti e legami che danno al mondo maggiore coesione e maggiore senso. Tutte mi offrono prospettive inedite e diverse dalle quali guardare alla mia vita e lo fanno con generosità e tatto, acume e tenerezza.

Sono certa che le mie amiche sapranno riconoscersi in questo ritratto collettivo che ne ho fatto.
A loro è dedicato questo dolce, un modesto tributo alla loro bellezza e intelligenza - di cui sono spesso inconsapevoli - e un pegno della mia riconoscenza e della mia gratitudine, per ringraziarle di rendere la mia vita più bella, più ricca e più allegra.

A tutte voi, amiche carissime!

175 gr. di farina
2 cucchiaini di lievito per dolci
1/2 cucchiaino di bicarbonato
1/2 cucchiaino di sale
125 gr. di burro, fuso
150 gr. di zucchero
2 uova grandi
3 banane di media grandezza (300 gr. circa pesate senza buccia), schiacciate con la forchetta
60 gr. di noci grossolanamente tagliate
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
(Nella ricetta originale sono previsti anche 100 gr. di uvetta sultanina lasciati ammorbidire in 75 ml di bourbon o rum scuro. Io, odiando e l'uvetta e preferendo evitare i liquori nei dolci, ho eliminato entrambi gli ingredienti. A voi la scelta di utilizzarli. Nel qual caso, metteteli entrambi in un pentolino e portate a bollore. Spegnete il fuoco e lasciate riposare per circa un'ora o fino a quando l'uvetta avrà assorbito quasi tutto il liquore. Scolatele e mettetele da parte.)

Preriscaldate il forno a 170°, imburrate e infarinate una teglia da plumcake 23x13.

Riunite in una terrina la farina, il lievito, il bicarbonato e il sale.

In un'altra, più capiente, mescolate il burro fuso con lo zucchero utilizzando le fruste.

Aggiungete un uovo alla volta, poi le banane ridotte in purea, le noci (se avete usato l'uvetta aggiungetela adesso) e l'estratto di vaniglia. Infine incorporate con cura la miscela di farina, lievito e sale.

Versate il composto nello stampo e fate cuocere per circa un'ora o poco più (fate, come d'abitudine, la prova empirica e infallibile dello stecchino). Indi fate raffreddare su una gratella.

(Nigellona suggerisce, e io vi passo volentieri il consiglio, una variante al cioccolato che, incredibile ma vero, non ho mai provato: sostituire 25 gr. di farina con altrettanti di cacao amaro e aggiungere all'impasto 100 gr. di cioccolato fondente tagliato a pezzetti).

... e pazienza se sulla blogosfera circolerà l'ennesima ricetta di banana bread. Un'altra versione di questo buonissimo dolce non può che essere una felice aggiunta, così come lo è sempre una nuova amica.

Enjoy!