sabato 27 marzo 2010

Della primavera, della pigrizia e di una vellutata di spinaci


La sera è raro che abbia voglia di cucinare.

Non so, di pomeriggio mi prende una pigrizia tutta particolare che mi fa spesso trascorrere le ore in modo poco produttivo e mi fa arrivare all'ora di cena con la sgradevole e strisciante sensazione di aver concluso poco o nulla e la certezza, assolutamente non strisciante ma granitica, di non voler combinare granché neanche per procacciarmi del cibo.

Per questo, spesso, preparare la cena è compito della Spia, che ciò significhi cucinare o semplicemente riscaldare qualcosa di già pronto preparato in precedenza.

In primavera la situazione degenera.

La natura si risveglia, gli uccelli cinguettano ubriachi fino al tramonto, le piante sul terrazzo sono tutto un tripudio di gemme e teneri germogli, le gatte Linda e Matilde saltano, corrono e chiacchierano più del consueto in preda a misteriosa frenesia ed io, invece, vengo presa da enorme sonnolenza. Vado in letargo quando tutto e tutti si destano dal lungo sonno invernale.

È sempre stato così.

Ricordo che a scuola i professori delle ultime ore si disperavano perché se non dovevo essere interrogata e non avevo dunque seri incentivi a rimanere sveglia, semplicemente mi accasciavo sul banco, occultata dalla mole massiccia del ragazzo seduto davanti a me, e rimanevo anche delle ore in stato di dormiveglia, cullata dal ronzio delle api in giardino e dal profumo delle rose che il bidello Artemio curava con il garbo e la passione che avrebbe avuto, al suo posto, una pallida e delicata gentildonna inglese del secolo scorso.

Ci sono delle sere, però, nelle quali, per qualche strana congiuntura astrale (e non sempre si tratta di quella stessa congiuntura astrale che fa sì che non ci sia nessun avanzo da riscaldare), spignatto ugualmente e senza lamentarmene, soprattutto quando si tratta di fare davvero quattro fesserie, come nel caso di questa vellutata, che praticamente si cucina da sola.

Uno di quei piatti che quando si è in letargo è bene conoscere.

Velouté d'épinards au cumin

ovvero sia, per la serie 'parla come magni'

Vellutata di spinaci e cumino da La cuisine de Julie di Julie Andrieu (con qualche modifica)

per 4 persone

1 cucchiaio di olio extravergine di oliva
1 cucchiaino di cumino in grani
1 spicchio d'aglio
350 gr. di spinaci surgelati (ovviamente sarebbe bello poterne usare di freschi, nel caso si possa; circa la quantità, però, non so aiutarvi; io farei almeno due bei mazzetti)
70 cl di brodo (vegetale o di pollo)
panna fresca o yogurt
parmigiano

Se siete di quelle persone che al solo pensiero di usare un brodo granulare si coprono di bolle e vengono prese da indignazione, non leggete ciò che sto per scrivere, e cioè che io lo uso quasi sempre, perché è rarissimo che abbia in casa tutti gli ingredienti per preparare un brodo vero decente.

Qualcuno sicuramente potrà trovare pretestuoso il mio giustificarmi affermando che nella mia cucina raramente si registra la compresenza di cipolle, carote e sedano, ma tant'è, è la verità, e io non la nascondo.

Di qualunque brodo vi serviate, comunque, portatelo a bollore in un pentolino e tenetelo in caldo da parte.

Fate scaldare il cucchiaio di olio d'oliva, soffriggetevi i grani di cumino per un paio di minuti a fuoco medio, aggiungete lo spicchio d'aglio (intero se poi volete eliminarlo, passato allo spremiaglio in caso contrario) e gli spinaci, lasciando cuocere per 5'.

Versate quindi il brodo, portate a bollore, mettete un coperchio e lasciate sobbollire dolcemente per circa 15'.

A questo punto potete spegnere, ridurre la minestra in crema usando il frullatore a immersione e versare nei piatti.

Aggiungete, a discrezione, qualche cucchiaiata di yogurt o di panna fresca e, se volete, anche delle scaglie di parmigiano.

Se siete come me, dopo aver consumato questa 'entrée raffinée' - per dirla con Julie Andrieu - trascinatevi anche voi verso il divano più vicino, tirate fuori il vostro lavoro a maglia e rimanete imbambolate per almeno un quarto d'ora, con i ferri in grembo e una mano a giocare con le orecchie del vostro compagno.

Indi, rassicurate circa la vostra sorte (il vostro compagno è lì, e di buon grado vi lascia giocare con i lobi delle sue orecchie) e consapevoli di esservi offerte e avere offerto una cena tra le più salutari e delicate che esistano, trascorrete in beata sonnolenza la serata.

Enjoy!


giovedì 18 marzo 2010

99 colombe

Una breve nota per avvertirvi che la vulcanica e generosa Artemisia sta coinvolgendo molti foodbloggers italiani in un'iniziativa lodevole quant'altre mai: dare una mano ad una storica azienda dolciaria abbruzzese, la Sorelle Nurzia, famosa soprattutto per i suoi torroni - di cui da bambina ammiravo l'incarto, con le due ninfe danzanti stile Art-Déco -, ma non solo.

Allo scopo è nato un blog, che avrà vita breve ma si spera assai intensa, 99 colombe: uno spazio aperto a quanti vorranno farsi coinvolgere, per una volta tanto, in una cosa bella, buona e giusta.

Dati i tempi che corrono, un'occasione da non perdere.

domenica 14 marzo 2010

Cani neri di Ian McEwan

Ho letto diverse recensioni di questo romanzo su aNobii e se non ricordo male ve ne erano almeno un paio il cui senso era più o meno: dicono che questo sia un grande romanzo, ma evidentemente deve essermi sfuggita la ragione di questa sua grandezza.

E pensavo al fatto che, secondo me, dei libri capiamo tutto quello che, in quel momento, ci serve capire, tutto quello che di essi può tradursi, più o meno felicemente, nella nostra vita vissuta.
Questa è la cosa importante, e basta: che ciò che leggiamo diventi davvero parte del tessuto della nostra vita. Il resto, tutto ciò che non capiamo, che non cogliamo, che non sentiamo vibrare dentro di noi, non è importante, non ci è 'utile'. Magari lo sarà più in là, quando altre esperienze avranno aperto in noi altri occhi e altre orecchie per vedere e sentire cose che adesso non vediamo e non sentiamo. Magari no. E va benissimo così.


Quanto a me, ogni nuovo libro di McEwan che incrocia la mia strada è un incontro con quello che, ora posso ben dirlo dopo aver letto diversi suoi romanzi, è sicuramente uno dei miei scrittori di riferimento e insieme un'occasione, ogni volta differente ma ugualmente significativa e importante e preziosa, di riflessioni su temi assai vicini alla mia sensibilità.

Il mio amico Alberto mi chiedeva se quel giorno in cui ho sfilato dallo scaffale della biblioteca questo smilzo volume dell'Einaudi sapessi già qualcosa della storia o se invece mi sia imbattuta in Cani neri esclusivamente in base a quella sincronicità* che spesso invoco quando cerco di spiegare certi incontri misteriosamente 'tempestivi' con alcuni libri.

Non riesco a convincermi che sia stato un puro caso che questo romanzo di cui, incredibile a dirsi, non avevo mai sentito parlare, mi sia quasi caduto in grembo proprio in un momento in cui mi interrogavo, non senza strazio e intensità, su molte questioni in esso affrontate e fondamentali nella mia esistenza, non ultima le differenze profonde tra me e colui cui ora mi accompagno.

In molte pagine ho avuto la straniante sensazione che McEwan avesse scritto questa storia pensando proprio a noi, alle nostre spesso inconciliabili filosofie di vita, alla fatica che facciamo per raggiungerci superando i baratri che, in alcune occasioni, ci si aprono sotto i piedi e ci troviamo, io da una parte lui dall'altra, a guardare alla stessa realtà da prospettive diametralmente opposte, giungendo dunque a conclusioni diversissime e patendo il senso di solitudine e di impotenza che ci assale quando, con malinconia, ci rendiamo conto che l'altro, per quanti sforzi faccia e per quanto desideri vedere il mondo con i nostri stessi occhi, non può farlo.

È evidente quanto i due protagonisti di questa storia siano dei personaggi di gran lunga più estremi e interessanti e 'pittoreschi' di quanto possiamo esserlo (anche nelle nostre giornate peggiori; o migliori, dipende dai punti di vista) io e il mio compagno.
June e Bernard si innamorano durante la seconda guerra mondiale e scoprono nello stesso momento l'esaltazione dell'amore e della passione politica condivisa per il comunismo.
Durante la loro luna di miele in Francia, tra passeggiate nelle campagne e soste in piccole locande, i due giovani discutono per ore infervorati di politica e di idee, progettano entusiasti e pieni di speranza un futuro comune, fatto di impegno sociale, operosità, cambiamenti, eccitanti prospettive.

Ma durante una delle loro lunghe escursioni accade qualcosa che cambia radicalmente il loro destino e scava una distanza che con gli anni si farà sempre più profonda e incolmabile e li porterà, infine, a decidere di vivere separati, ognuno abbracciando una visione della vita diametralmente opposta e inconciliabile con quella dell'altro.

In quella mattina accecata dal sole, June, per la prima volta in vita sua, accede a quella dimensione spirituale dell'esistenza cui è sempre stata cieca e insensibile: la sua è un'esperienza intensa, traumatica e terrorizzante, e vissuta in piena solitudine, dunque in definitiva incomunicabile, come spesso è ogni incontro tra l'umano e il divino (qualunque cosa questo termine abusato e vago possa significare per ognuno di noi), che demolisce ogni legame con il passato e con quelle che, ai suoi occhi, sono diventate idee limitate e false della realtà.
Bernard, che è rimasto escluso da quell'esperienza della quale, dunque, non ha vissuto la violenza e la potenza trasformatrice, interpreta questa profonda metamorfosi della donna che ama come un tradimento personale e una delusione profonda.

Il baratro che si scava tra i due è tale da costringerli a separarsi fisicamente: June rimarrà in quella terra francese dove ha vissuto la sua personale esperienza di illuminazione e vivrà una vita di raccoglimento e meditazione; Bernard tornerà in Inghilterra e si dedicherà attivamente e generosamente alla politica. Per i successivi cinquant'anni, i due continueranno a combattere una personalissima guerra senza quartiere, nel disperato e aspro tentativo di conquistare l'altro alle proprie ragioni e alle proprie convinzioni, senza riuscirci mai. Pur continuando ad amarsi e a considerarsi, in fondo, interlocutori privilegiati, quest'uomo e questa donna non saranno più capaci, in tutta la loro lunga vita, e nonostante la presenza dei figli, di vivere insieme, ma neanche di smettere di amarsi e di essere ossessionati l'uno dall'altra.

Il contrasto quasi epico tra queste due opposte visioni della vita è, però, solo uno dei temi portanti del romanzo, ed ogni volta è per me fonte di ammirata sorpresa accorgermi di quanto un autore come McEwan (o come Roth, a mio avviso) riesca, in poche pagine, a costruire non solo una storia perfettamente autonoma e credibile e coinvolgente, ma anche a porgere al lettore una quantità di stimoli incredibile, tutti di grande spessore e, quel che ha del miracoloso, tutti perfettamente inseriti nel racconto.

C'è infatti un altro, per me interessantissimo, tema centrale nel romanzo, la riflessione affidata alla voce narrante, quella di Jeremy, che di June e Bernard ha sposato la figlia, trovando in questa vecchia coppia di estremisti quei genitori che un incidente automobilistico gli ha sottratto all'età di otto anni.

Molte sono le pagine in cui questo personaggio si fa portavoce di riflessioni a tratti malinconiche, a tratti invece di obiettiva e spartana lucidità, su quello che significa crescere senza il sostegno e la protezione che due genitori dovrebbero garantire ai loro figli, su quanto questa mancanza, quest'assenza incida, in modi spesso inaspettati e apparentemente irrelati, non solo sul proprio modo di vivere i rapporti, ma anche sulla visione della vita che durante il proprio percorso ci si costruisce e su come non sia impossibile, benché di sicuro sia doloroso e difficile, curare se stessi prendendosi amorevolmente cura dei propri figli, per sanare, amandoli, le ferite che da bambini abbiamo patito.

Come già in Bambini nel tempo, dalla penna di McEwan fluiscono pensieri e immagini che si sente essere nati da un autentico, sincero sentimento di compassione e di comprensione per il mondo in fondo misterioso e assai frainteso dell'infanzia che questo scrittore approccia sempre con grande garbo, con vero e raro rispetto, senza nessuno smielato sentimentalismo di maniera.


*(da Wikipedia:

La sincronicità è un termine introdotto da Carl Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. La sincronicità è relativa quindi alle 'coincidenze significative'.)



Ian McEwan, Cani neri, Einaudi 1993, traduzione di Susanna Basso.

martedì 9 marzo 2010

Un pensiero sulle donne, il giorno dopo

Ieri, mi dicono, era la festa della donna.

Benché da giovane abbia religiosamente e scrupolosamente partecipato ad ogni manifestazione indetta l'8 marzo, sfilando a braccetto con altre ragazze per le strade di Roma, cantando gli slogan che dovevo cantare e urlando quello che dovevo urlare, già allora mi sentivo a disagio nel celebrare una simile festa.

Non so, ho sempre sentito che in questo modo si trattavano le donne alla stregua dei papà, delle mamme, dei nonni, dei fidanzati, dei gatti cui si dedica un giorno all'anno per poi dimenticarsene tutti gli altri.

Queste donne viste un po' come una categoria a parte, una specie in via di estinzione, per la salvezza della quale si firmano appelli, si organizzano cortei e sit-in, come se invece non fossero semplicemente uno dei modi di stare al mondo, non il migliore, non il peggiore, solo uno degli infiniti modi, che, anche solo per questo motivo, come tutti gli altri, chiede riconoscimento e rispetto e comprensione.

Mi assomigliano molto di più, e alla mia sensibilità dicono molto molto di più di tanti slogan e frasi fatte, queste righe scritte da Gioconda Belli, scoperte grazie ad una donna, Elena, che qui ringrazio.

Le condivido con voi, amiche e amici!


Non mi pento di niente di Gioconda Belli

Dalla donna che sono, mi succede a volte di osservare,
nelle altre, la donna che potevo essere;
donne garbate esempio di virtù, laboriose brave mogli,
come mia madre avrebbe voluto.
Non so perchè tutta la vita ho trascorso a ribellarmi a loro.
Odio le loro minacce sul mio corpo
la colpa che le loro vite impeccabili,
per strano maleficio mi ispirano;
mi ribello contro le loro buone azioni,
contro i pianti notturni sotto il cuscino di nascosto dal marito,
contro la vergogna della nudità sotto la biancheria intima, stirata e inamidata.
Queste donne, tuttavia, mi guardano dal fondo dei loro specchi;
alzano un dito accusatore
e, a volte, cedo al loro sguardo di biasimo
e vorrei guadagnarmi il consenso universale,
essere "la brava bambina", "la donna per bene", la gioconda irreprensibile,
prendere dieci in condotta
dal partito, dallo Stato, dagli amici, dalla famiglia, dai figli
e da tutti gli esseri che popolano abbondantemente questo mondo.
In questa contraddizione inevitabile tra quel che doveva essere e quel che è,
ho combattuto numerose battaglie mortali,
battaglie inutili, loro contro di me
- loro contro di me che sono me stessa -
con la “psiche dolorante”, scarmigliata,
trasgredendo progetti ancestrali, lacero le donne che vivono in me
che, fin dall'infanzia, mi guardano torvo
perchè non riesco nello stampo perfetto dei loro sogni,
perchè oso essere quella folle, inattendibile, tenera e vulnerabile
che si innamora come una triste puttana
di cause giuste, di uomini belli e di parole giocose
perchè, adulta, ho osato vivere l'infanzia proibita
e ho fatto l'amore sulle scrivanie nelle ore d'ufficio,
e ho rotto vincoli inviolabili e ho osato godere
del corpo sano e sinuoso di cui i geni di tutti i miei avi mi hanno dotata.
Non incolpo nessuno. Anzi li ringrazio dei doni.
Non mi pento di niente, come disse Edith Piaf:
Ma nei pozzi scuri in cui sprofondo
al mattino, appena apro gli occhi,
sento le lacrime che premono, nonostante la felicità che ho finalmente conquistato,
rompendo cappe e strati di roccia terziaria e quaternaria,
vedo le altre donne che sono in me, sedute nel vestibolo
che mi guardano con occhi dolenti e mi sento in colpa per la mia felicità.
Assurde brave bambine mi circondano e danzano musiche infantili
contro di me;
contro questa donna fatta, piena,
la donna dal seno sodo e i fianchi larghi,
che, per mia madre e contro di lei,
mi piace essere.


Gioconda Belli

giovedì 4 marzo 2010

Dell'abbandonarsi alla corrente (più semplicemente, di una torta)


Ci sono momenti in cui la vita scorre lentamente, serenamente, e ci si abbandona fiduciosi al suo flusso soave, lasciandosi dolcemente trasportare dalla sua corrente. Si sa dove si sta andando, nella maggior parte dei casi, quanto meno se ne ha un'idea, seppur vaga: verso il mare. Ma non si sa quando ci si arriverà e al limite neanche come. Non importa. Si sa che prima o poi si arriverà e in questa fiduciosa certezza ci si culla, ci si prende il tempo di lasciar vagare lo sguardo lungo l'argine, si notano gli alberi, gli uccelli, le nuvole che si rispecchiano nell'acqua, si lascia pigramente penzolare una mano a lambire la corrente, sognanti, ci si compiace della bellezza del mondo, se ne gode, immemori e beati.

Ce ne sono altri in cui invece non ci si concede il delizioso lusso di farsi pigramente trasportare: non è possibile, non ce lo si può permettere. Bisogna essere fattivi, operosi, si è indaffarati, sulla propria barchetta, ci si dà un gran da fare coi remi, con in mente ben precisa la meta da raggiungere, concentrati sullo sforzo di arrivare senza sfracellarsi sugli scogli o precipitare giù da una cascata. Si guarda appena il paesaggio, la fronte aggrottata e gli occhi socchiusi a scrutare l'orizzonte, per accertarsi si stia andando nella giusta direzione; lo sguardo ogni tanto scende a controllare il movimento delle braccia che si affaticano sui remi. Si è un monumento di determinazione e forza.

Poi ce ne sono altri ancora, e sfortunatamente per molti sono la maggior parte, in cui si è sulla barca, si fa fatica, si arranca, non si sa se si arriverà mai: le braccia dolgono, il sole è impietoso, la fatica ottunde e snerva, ma non ci si può fermare. Si è persa l'idea della propria direzione, ma si va avanti, sentendo solo il peso del procedere, la stanchezza che si accumula nelle membra, sapendo che ogni giorno sarà come quello appena trascorso: una lunga, impietosa fatica che a tratti appare senza scopo e senza senso.

Infine, ci sono i giorni che sto vivendo io adesso.
Non so se sono su una barca. Se questa barca c'è, è di sicuro una barca fragilissima, dove è difficile mantenersi in equilibrio senza cadere in acqua.
La corrente è impetuosa e mi trascina senza che io riesca ad oppormi. Ovunque massi che affiorano, gorghi, salti vertiginosi.
Per lunghi tratti mi accorgo di trovarmi sott'acqua solo quando sento che i polmoni cominciano a esplodermi. Allora emergo e prendo fiato e di nuovo vengo presa e portata via dalla corrente. Non ho il tempo né il modo di capire dove sono: il paesaggio circostante è una macchia indistinta in fuga, non riesco a scorgerne la bellezza, i lineamenti, niente. So che c'è, so che è lì, ma non posso vederlo.

E' terribile sentirsi trascinare dalla corrente, soprattutto quando si cerca di fare resistenza. Comunque vince lei, è troppo forte.
Ma all'inizio l'istinto è quello di opporlesi, cercando con tutte le proprie forze di non farsi portare via, a dispetto del panico che prende quando si sente di perdere il controllo, dei crampi che paralizzano, dell'acqua che si beve perché la paura fa perdere il ritmo del respiro.

Poi arriva il momento in cui si capisce che forse la cosa migliore è farsi trascinare, abbandonarsi alla corrente e non fare resistenza. Si andrà senz'altro contro qualche masso, ed ogni tanto, fatalmente, ci si troverà con la testa sott'acqua. Si spera di non rompersi la testa o qualche osso fondamentale e ci si affida. Alla misteriosa, ambigua clemenza della natura e della vita, alla superiore saggezza di cui dà prova quella parte di sé che capisce e sa molto più di quanto sia possibile immaginare.
Prima o poi, lo si sa, si arriverà al mare. Quando e in che stato non è dato saperlo. Ma si confida nel fatto che ci si arriverà.
È già abbastanza, è qualcosa. E comunque è tutto quello cui ci si può aggrappare e non si ha scelta.

Io sono adesso in questa situazione.
La vita mi sta trascinando via, verso il mare ed io, dopo un primo momento di resistenza, dopo essermi sfiancata nel tentativo di oppormi, ora mi sono abbandonata.
Ci sono ancora momenti in cui mi prende la paura, il panico. Perdere il controllo è difficile; richiede coraggio, richiede fiducia, richiede umiltà.


Quando si è impegnati, come lo sono io, adesso, in un'impresa simile, molte cose, anche quelle molto amate e da sempre fonte di conforto e di rapimento, perdono di interesse e sapore.
Il cibo, la sua preparazione, la sua condivisione, diventa qualcosa che si fa automaticamente, senza consapevolezza, senza piacere, perché bisogna nutrirsi.
A volte - cosa difficile a credersi, inaudita - si fa addirittura peso, fatica insostenibile.

Poi, un giorno, inopinatamente, viene voglia di preparare una torta.
Non per sé.
L'ultimo dei pensieri, ora, è mangiare una torta.
Ma per gli altri.
Viene voglia di far qualcosa per gli altri, per dirgli che siamo grati della loro presenza, che ci si fa forza del loro esserci, del loro pensarci.
E allora ci si mette il grembiule, si tira fuori la bilancia, si dispongono gli ingredienti sul tavolo, si prepara la teglia.

Una torta facile che richieda davvero poco sforzo, ma restituisca comunque il senso della normalità, di una quotidianità che ora è stravolta e chissà per quanto ancora lo sarà.
Una torta da preparare come si celebra un rito: con concentrazione, con consapevolezza, con intenzione.
Una torta semplice che ci ricordi, mentre la facciamo, che non è vero che siamo completamente nel delirio, perché appunto, siamo ancora in grado di preparare una torta.
Una torta che porti con sé il ricordo struggente di un tempo più felice, e la speranza di tempi migliori a venire.
Una torta che ci rammenti, quando la vediamo divorata con gusto e con riconoscenza dagli amici, e sebbene noi non si riesca proprio a trovare la voglia di mangiarla, una cosa piccola e banale, ma vera: che la vita riserva ancora molto, anche a chi si trovi a vivere nella sua ombra.
Per il momento.


Boiled cake da Real Life Cooking di Trish Deseine

225 ml di acqua
110 gr. di burro
200 gr. di zucchero di canna (io ho usato in parte del Mascobado e in parte del Golden Caster Sugar, entrambi del commercio equo e solidale)
300 gr. di frutta secca (io ho usato 3 fichi secchi, dell'uvetta sultanina, dei mirtilli rossi e del ribes nero disidratati)
2 cucchiai di spezie miste (cannella, noce moscata, zenzero e chiodi di garofano o qualunque altra combinazione di vostro gradimento)
230 gr. di farina
1 cucchiaino di lievito per dolci
1 uovo, sbattuto

Preriscaldate il forno a 180°.
Imburrate e infarinate una teglia da plumcake.
In un pentolino mettete tutti gli ingredienti tranne la farina, il lievito e l'uovo e portare a bollore. Lasciate sobollire per 20', poi spegnete il fuoco e lasciate raffreddare un po'.
Aggiungete la farina e l'uovo, amalgamate bene.
Cuocete per circa 1 ora e mezzo (fate la consueta prova dello stecchino).

Se in questo periodo sarò un po' assente, sapete dove sono.
In mezzo al fiume, a cercare di arrivare al mare.
Spero di arrivarci presto.

Enjoy!