sabato 31 gennaio 2009

Gli effetti secondari dei sogni di Delphine de Vigan

Quando avevo più o meno dieci anni, un pomeriggio, camminando per piazza Risorgimento, a Roma, fui avvicinata da un barbone. Biascicava delle parole incomprensibili tra i denti, aveva i capelli impastati di sporco e gli occhi arrossati, una maglietta che un tempo doveva essere stata bianca strappata su una spalla e sulla pancia ed un paio di pantaloni informi di un colore impossibile a definirsi.

Stavo attraversando la strada, lui mi veniva incontro, borbottando astiosamente un discorso tra sé e sé o con qualche interlocutore nella sua testa. Ci superammo, poi per qualche motivo lui tornò indietro, alzò
la voce e, guardandomi con cattiveria, mi si avvicinò tenendo in mano un grosso zippo acceso, urlando insulti e oscenità. Sentii appena un leggero calore sul braccio. Poi, così come all'improvviso qualcosa lo aveva spinto a notarmi e ad avvicinarsi a me, qualcos'altro, altrettanto improvvisamente, lo indusse a distrarsi, a non guardarmi più, a dimenticarmi. Io, invece, non ho dimenticato.

Non avrebbe potuto farmi del male, ora lo so. Ma avevo dieci anni e rimasi molto scossa.
Non ricordo se fossi con qualcuno o no, che cosa feci dopo. Ma da quella volta mi è rimasta, irrazionale e quindi incontrollabile, una paura terribile di chi vive per la strada. E insieme alla paura, sempre, immancabilmente, una grande pena.

Che cosa spinge una persona ad abbandonare tutto e a vivere per la strada? A dormire per terra, a coprirsi di stracci, a raccattare mozziconi e panini mangiati a metà e buttati nei cestini dell'immondizia? A subire gli sguardi schifati o di commiserazione di chi le passa accanto o, peggio ancora, l'indifferenza dei 'sani', dei 'normali'? Quale tragedia familiare, dramma interiore, disavventura economica si nascondono dietro quelle vite di strada? Io non so se sia a causa di quell'episodio infantile che il contatto con questa umanità dolente mi sconvolge tanto. O se sia invece la mia capacità di identificazione a farmi stringere lo stomaco: un giorno potrei finire anche io così?

Ultimamente ho pensato molto a questo, stimolata dalla lettura di un bel romanzo di Delphine de Vigan, Gli effetti secondari dei sogni (pubblicato dalla Mondadori). In Francia è stato il caso editoriale del 2008, ha venduto tanto e vinto premi prestigiosi. Secondo me meritatamente. Racconta una storia commovente e dura, che avrebbe potuto prestare il fianco ad ogni sorta di banale buonismo, in modo asciutto e insieme compassionevole, con partecipazione e onestà. La voce della protagonista è credibile, sincera, e tutti i personaggi sono delineati con realismo e coerenza. Non c'è una sola battuta, un solo gesto, un solo sguardo che non rientri esattamente nel ritratto di ciascuno di loro. Nessuna stecca, nessuna stonatura. Un difficile esercizio di equilibrismo tra la comprensione e la pietà, l'obiettività e la pena.

Sul risvolto trovo una scarna e (involontariamente, spero) umoristica nota biografica: "Delphine de Vigan, parigina nata a Boulogne-Billancourt, ha lavorato come dimostratrice nei supermercati per diverse marche di formaggio e hamburger, segretaria in sedute di gruppo, stiratrice non professionale e hostess". Prima di decidere di dedicarsi solo alla scrittura, ho letto che ha diretto per qualche anno un istituto di sondaggi. Un percorso lavorativo sghembo e accidentato, parrebbe, così comune, ahimé, per la mia generazione.

Il romanzo è la storia di un'amicizia tra due adolescenti, Lou e No. Lou ha tredici anni, un quoziente intellettivo superiore alla media e difficoltà relazionali col mondo. I suoi genitori sono chiusi da anni nel dolore paralizzante causato dalla morte improvvisa di una seconda figlia, ancora neonata. La madre vive da allora in un mondo tutto suo, inaccessibile, incapace di accettare la perdita che ha subìto, ignara o indifferente all'idea di poter perdere così anche l'unica figlia che le è rimasta. Il padre la accudisce, fa la spesa, le pulizie, va a lavorare, cerca di non far naufragare tutto, ma è comprensibilmente depresso. Lou ha imparato a vivere in quest'atmosfera dolente e innaturale, con una madre assente ed un padre sfinito, abbandonata ai suoi pensieri e ai suoi primi tentativi di farsi un'idea del mondo.

No ha diciotto anni e vive in strada. Nel corso del romanzo si scoprirà che cosa l'ha portata a girovagare per la città, da un centro di accoglienza ad una stazione dei treni, sempre in movimento, sempre alla ricerca di un buco in cui dormire, un boccone da mangiare. Le due ragazze si incontrano per caso, si parlano: da mondi lontanissimi eppure simili si avvicinano, si studiano, imparano a conoscersi. Lou, per la prima volta, sente di essere finalmente entrata in contatto con un altro essere umano.

Da quando sono nata, mi sono sempre sentita al di fuori, dovunque fossi, fuori dall'immagine, dalla conversazione, sfasata, come se fossi la sola a sentire rumori e parole che gli altri non percepiscono, e sorda alle parole che invece sembrano sentire, come se fossi fuori dalla cornice, dall'altra parte di una vetrata immensa e invisibile.
Eppure, ieri ero là con lei, sono sicura che si sarebbe potuto tracciare un cerchio intorno a noi, un cerchio da cui non ero esclusa, un cerchio che ci comprendeva e, per qualche minuto, ci proteggeva dal mondo.
Lou la intervista per una ricerca sui senzatetto che deve fare per la scuola, impara che in strada esiste un mondo con le sue leggi ferree e i suoi molti pericoli: No è una ragazza sola, senza protezione, senza rete. In strada non ha amici. E' una preda. Sempre braccata, sempre in fuga, dai ricordi dolorosi, da un presente di pena, dal futuro incerto, dalla tentazione di sperare che un giorno le cose si aggiusteranno e anche lei potrà vivere la vita di tutti: con un fidanzato, un lavoro, un piccolo appartamento in affitto. No non può permettersi il lusso di sognare.

Ma l'incontro con Lou, che vive in un contesto apparentemente più protetto ma conosce la sua stessa solitudine e il suo stesso abbandono, le darà la forza di provare a costruirsi una possibilità, di scrollarsi di dosso anni di disperazione e abbrutimento. Per un po' sembra che il sogno di una vita normale, con qualche amico, un lavoro come cameriera in un albergo, una casa cui fare ritorno, uno stipendio pagato in nero, possa realizzarsi anche per No. Poi, di nuovo, il naufragio, le ferite del passato che tornano a chiedere il loro pesante tributo di solitudine, abbrutimento, paura, disperazione, il desiderio di annullarsi.

Il finale è aperto e ognuno può interpretarlo come crede. No e Lou partono insieme, ma dopo un solo giorno No sparisce, abbandona la sua amica ad una stazione. Lo fa perché incapace di sopportare il peso di un affetto, di un legame, lei che ha dovuto lottare dolorosamente contro ogni solitudine, e si perde nuovamente nel suo personale ed incomunicabile gorgo di abbrutimento?
Lo fa perché nel suo esitante tentativo di vivere una vita 'normale' non vuole correre il rischio di trascinare Lou nella condizione infernale da cui cerca di liberarsi?
E' così facile lasciarsi andare inerti a ciò che si conosce, anche se è una realtà orribile e disumanizzante. Molto più difficile trovare in sé la forza di costruirsi un percorso diverso, emanciparsi dalla disperazione, dal bisogno, aprirsi con fiducia agli altri, farsi aiutare da loro senza aggrapparglisi con disperazione.

Io sono un'inguaribile ottimista e voglio pensare che, tra ricadute e progressi, No riuscirà a costruirsi l'ipotesi di un futuro diverso: prima fragile e incerto, poi sempre più concreto e sicuro. Faticoso, certo. Doloroso, spesso. Come quello di tutti.

(Un grazie a mia sorella C. che mi ha regalato il libro per Natale!)


Delphine de Vigan, Gli effetti secondari dei sogni, Mondadori 2008, traduzione di Marco Bellini.

mercoledì 28 gennaio 2009

Guarda chi si rivede! I broccoli...



Davvero non l'avrei mai detto, ma mi trovo a scrivere di nuovo di broccoli, e in termini elogiativi. Se mia madre fosse in grado di leggere questo blog, ne sarebbe esterrefatta!
Questa volta non si tratta di un grande classico come la pasta, ma di un piatto insolito, che gioca su un abbinamento audace e felicissimo: è la quiche ai broccoli (ma va?) con mela e caprino di Clotilde Dusoulier.

Questa parigina di quasi trent'anni, dall'espressione elfica e buffissima, ha creato nel settembre del 2003 un blog bilingue (inglese e francese), Chocolate & Zucchini, nel quale dare sfogo alla sua passione per la cucina. Come dice lei stessa, lo ha fatto soprattutto perché temeva che i suoi amici si stancassero di sentirla sempre parlare di ciò che aveva mangiato o cucinato, delle ricette che voleva sperimentare, degli ingredienti che aveva comprato etc. etc. (quegli stessi amici non avevano però il minimo problema a sbafarsi l'appetitoso risultato di tutto questo suo gran daffare!).


Nel 2007, dal blog sempre più frequentato di Clotilde, è nato l'omonimo libro, pubblicato sia in francese sia in inglese, che io ho ordinato un paio di mesi fa su bol. Appena è arrivato, me lo sono letteralmente divorato (è il caso di dirlo): la Dusoulier è una scrittrice briosa, piena di verve e senso dell'umorismo, dallo stile caloroso e informale. E scrive per chi non sa da che parte iniziare, quindi le istruzioni sono chiarissime: basta seguirle. Questa forma di generosità è, secondo me, una qualità indispensabile in un autore di libri di cucina.
Ma torniamo alla quiche. Ecco la ricetta:

per la pasta brisée:

200 gr. di farina
1/2 cucchiaino di sale
125 gr. di burro molto freddo, tagliato a dadini
1 uovo, leggermente sbattuto
acqua freddissima

per il ripieno:

1 broccolo, di circa 700 gr., solo le cimette, lavate e tagliate a piccoli pezzi
80 ml di latte
80 ml di panna
3 uova
1/2 cucchiaino di sale
pepe macinato al momento
noce moscata macinata al momento
1 mela da cuocere (o 2 piccole) di circa 200 gr.
100 gr. di caprino fresco, tagliato a pezzetti di circa 1 cm.

Come al solito, prima occupatevi della pasta.
Come al solito, se avete un robot da cucina, usatelo. Fatelo andare
per una decina di secondi con dentro farina, sale e burro, in modo da ridurli in briciole. Aggiungete l'uovo e azionate di nuovo il robot per pochi secondi. Dovrebbe cominciare a formarsi una palla. Se l'impasto insiste a rimanere piuttosto secco, aggiungete un po' di acqua fredda, un cucchiaino alla volta. A me non è mai successo di doverne aggiungere, ma non si sa mai. Quando comincia a formarsi la famosa palla, estraetela dalla coppa del robot, datele definitivamente la forma di una sfera schiacciata e avvolgetela in un foglio di pellicola. Indi, mettetela in frigo, dove dovrà rimanere a meditare per una trentina di minuti (volendo, dice la Dusoulier, potete conservarla per una giornata; utile se intanto ci si vuole portare avanti).

Nel frattempo, cuocete a vapore le cimette del broccolo: 5 minuti bastano davvero, soprattutto se le avete tagliate a pezzi piccoli. Mettetele da parte. In una ciotola mescolate il latte, la panna, le uova, il sale, il pepe e la noce moscata.

Togliete la pasta brisée fuori dal frigo, aspettate una decina di minuti prima di lavorarla. Quindi stendetela in modo da coprire fondo e lati di una tortiera di 25 cm. di diametro (eventualmente, rileggetevi ciò che ho scritto circa la delicata [per me] fase della stenditura della pasta sul post dedicato alla quiche lorraine).

Una parola sulle dimensioni di tortiere, teglie, varie ed eventuali. E' molto importante seguire le indicazioni in proposito riportate nelle ricette. Se cuocete un quantitativo di impasto pensato per 'occupare' una teglia di 25 cm. di diametro in una più piccola, necessariamente otterrete dei risultati diversi: l'impasto sarà più spesso, cuocerà meno bene, dovrete adattare i tempi di cottura etc. Lo stesso dicasi se scegliete una teglia più grande: l'impasto sarà steso in uno strato più sottile, e quindi cuocerà di più, anche qui i tempi di cottura dovranno essere ripensati, etc. etc. Da fuori può sembrare un pallino da maniaci, e molte persone pensano che seguire questo genere di indicazioni sia sinonimo di poca originalità, di fedeltà eccessiva alle ricette (se non di demenza o di pavidità). Io, dopo qualche disastro, dovuto non tanto ai miei istinti di ribellione nei confronti dell'autorità del cuoco di turno, quanto a mancanza dell'attrezzatura giusta, ho imparato che è sempre meglio utilizzare teglie e tortiere delle misure indicate. Perché complicarsi la vita inutilmente? Quando si acquisisce maggiore esperienza è certamente possibile aggirare simili 'dettagli'; ma se non siete troppo sicuri di voi stessi, datemi retta, cercate di procurarvi quel che è richiesto, e non sentitevi sciocchi perché seguite pedissequamente una ricetta. Chi mangerà ciò che avete cucinato ve ne sarà riconoscente.

Stesa la pasta nella tortiera, dunque, bucherellatene il fondo con una forchetta e mettete nel forno preriscaldato a 180 gradi per 7 minuti (deve essere leggermente dorata).

Nel frattempo, sbucciate la mela, tagliatela a spicchi e poi a dadi. Togliete la tortiera dal forno (lasciatelo acceso), disponete sulla pasta le cimette del broccolo, i dadi di mela e quelli di caprino.

Versate la crema preparata con il latte, la panna e le uova e rimettete il tutto in forno per 35 minuti. Dopo di che, spegnete il forno, ma lasciate la quiche dentro, senza aprire lo sportello, per dieci minuti. Indi, liberate finalmente la quiche e lasciatela riposare per 5 minuti, prima di papparvela, con grande soddisfazione.

Clotilde Dusoulier dice che questa ricetta è la sua arma segreta quando ha come ospiti dei 'broccoli-loathing friends', cioè degli amici che detestano i broccoli, che, inevitabilmente, ne sono conquistati.

Posso confermare. E' buonissima! Ne sono stata talmente entusiasta che ho scritto alla simpatica Clotilde, ringraziandola per avermi fatto scoprire la ricetta (anche da parte della mia mamma, che è contenta, benché ancora un filo incredula, di questa mia piccola rivoluzione gastronomica).

Bon appétit!

domenica 25 gennaio 2009

Momenti di essere

Il 25 gennaio 1882, al 22 di Hyde Park Gate, a South Kensington, Londra, nasceva Adeline Virginia Stephen, più nota come Virginia Woolf.Non ho certo la pretesa di poter scrivere qualcosa di nuovo o di originale su di lei: ogni anno aumenta il numero di libri, pagine web ed articoli che ne scandagliano le opere e la vita, secondo le prospettive e le ottiche più diverse. A ciascuno la sua Virginia Woolf. A me la mia.
Sono anni che accumulo su di lei libri su libri. Tre interi scaffali della mia libreria sono occupati dai suoi romanzi, racconti, epistolari, diari e da alcune delle centinaia di biografie che sono state scritte su di lei, da quella del nipote Quentin Bell, pubblicata da Garzanti nel 1974 (che resta una delle più complete e piacevoli da leggere), all'intensa Possiedo la mia anima (Mondadori 2007) di Nadia Fusini; da quella monumentale di Hermione Lee del 1997 a quella di Julia Briggs del 2005 (queste ultime mai tradotte in italiano). Esistono libri che hanno esplorato le sue relazioni con le donne (come Virginia Woolf e le sue amiche di Vanessa Curtis, La Tartaruga Edizioni, 2005) e il complesso e simbiotico legame che per tutta la vita la unì alla sorella Vanessa Bell (Jane Dunn, Sorelle e complici, Bollati Boringhieri, 1995); altri che hanno parlato del suo tormentato rapporto con le sue domestiche (se non mi credete date un'occhiata qui, malfidati! pare si tratti di uno studio serissimo, prima o poi me lo comprerò!) e quelli che invece, ovviamente, si sono concentrati sul ghiotto boccone dei suoi disturbi psichici.
Di alcune opere di Virginia Woolf ho sia la versione inglese sia quella italiana, e mi rendo conto che da fuori la cosa può sembrare solo una stramberia da maniaci; temo lo sia. Non c’è altra definizione per il mio legame con questa scrittrice se non ‘mania’; forse‘ossessione’. Ma vorrei che da entrambe queste parole venisse eliminata ogni connotazione negativa e mortifera. Perché il mio attaccamento per questa scrittrice è assai lontano dalle atmosfere cupe ed inquietanti che in genere si associano a termini tanto estremi. Al contrario, leggerla per me è sempre stato un grande conforto, spesso puro divertimento, sempre una fonte di perenne stupore di fronte alla limpidezza e all'agilità di una mente superba, capace di scandagliare l’intera gamma dei sentimenti e delle emozioni umani con una chiarezza, una fedeltà al vissuto e un’acutezza per me ineguagliate.
A Virginia Woolf interessava ogni più piccolo moto dell'anima, soprattutto quelli fuggevoli, vaghi, senza nome, che scolorano l'uno nell'altro, nella perenne corrente in cui è immersa la nostra vita interiore, in un fluire ininterrotto di movimenti impercettibili: difficile coglierli, quasi impossibile dar loro un nome. Lei ci riusciva. Per farlo, utilizzava le parole con una maestrìa ed una flessibilità incomparabili e si sottoponeva a degli sforzi mentali inauditi. Per farlo, viveva con intensità, concentrazione, con un'instancabile e reale curiosità per il mondo.
Ma non pensate ad una donna ombrosa, chiusa in profonde e sublimi meditazioni, separata dalla vita. Nelle parole di chi la conobbe ritorna sempre l'immagine di un essere capace di grandi allegrie, amante del pettegolezzo e delle chiacchiere, dalla risata argentina e irresistibile, che inventava su due piedi le storie più buffe e stralunate per divertire un amico, o i nipoti, da lei, donna senza figli, amatissimi. Si sa che le piacevano le pere, il verde, cuocere il pane, ricamare, e che quando faceva il bagno ripeteva ad alta voce i dialoghi dei suoi personaggi scritti il giorno prima. Univa una bellezza insolita, preraffaelita, che metteva soggezione, ad un'assoluta mancanza di gusto nel vestire (cosa di cui era acutamente consapevole e di cui si crucciava immensamente); non sapeva scegliersi un cappello decente e non era capace di raccogliersi i capelli senza far cadere almeno una forcina nel piatto della minestra. Eppure, incantava praticamente chiunque la incontrasse.
Non si contano le illuminazioni su me stessa, sugli altri, sulla vita che ho avuto leggendo i suoi libri. E non è in fondo questo quello che si cerca leggendo? Capire di più il mondo, guardarlo da una prospettiva diversa dalla nostra, osservarlo sotto una lente che non abbiamo mai avvicinato ai nostri occhi? Non tutto mi è chiaro di lei, nonostante siano più di quindici anni che la leggo, la studio, cerco di conoscerla. Non tutto ciò che ha scritto ha trovato la strada del mio cuore, come si suol dire. Ancora oggi non sono riuscita a finire di leggere La camera di Jacob (Jacob's Room), da molti considerato un capolavoro.
La Virginia Woolf che preferisco è quella degli scritti autobiografici; la mole immensa del suo epistolario è una miniera ricchissima ed inesauribile di stimoli. I suoi diari sono uno straordinario strumento che permette al lettore di osservare da vicino e senza troppe mediazioni una mente geniale al lavoro, nella sua quotidianità fatta di passeggiate, conversazioni, meditazioni davanti al camino, vagabondaggi per le strade dell'amatissima Londra.
Forse, però, il
'libro dell'isola deserta' come lo chiamo io, o dello 'scoppia-un-incendio-in-piena-notte-devi-fuggire-e-puoi-portare-con-te-un-solo-libro' è Momenti di essere (La Tartaruga Edizioni, pubblicato per la prima volta nel 1977; ecco qui la solita scheda), pubblicato postumo e contenente alcuni scritti autobiografici. E' stata una delle prime acquisizioni del mio piccolo 'fondo Woolf', e forse quella cui sono più legata. Non so quante volte ho letto e riletto i brani in cui vengono tratteggiati i ritratti dei suoi genitori, le loro personalità per molti versi eccezionali, il loro intenso ed esclusivo rapporto, i sentimenti ambivalenti di idolatria, amore e rancore che i figli avevano per loro.

I momenti di essere sono quei rari, preziosi istanti in cui si sente di essere entrati veramente in contatto con la 'realtà'; in cui, liberati dallo stato di inconsapevolezza nel quale si vive gran parte della propria vita (soggiacendo alle convenzioni, adagiandosi in rapporti sterili, obbedendo agli stereotipi, resistendo ai richiami della propria autenticità), in un lampo si intuisce che oltre questa dimensione quotidiana di parziale insensibilità ne esiste un'altra, densa di significato, dove risiede il senso del nostro essere qui.

Questi momenti di essere sono delle scosse, dei colpi violenti. E, ipotizza Virginia Woolf, forse è proprio 'la capacità di ricevere scosse' a fare di lei una scrittrice; è la volontà di trovare una spiegazione che dà senso ad un'esperienza spesso fonte di sbigottimento.


Lo sento, il colpo, ma non è più, come credevo da bambina, un colpo sferrato da un nemico nascosto dietro l'ovatta della vita quotidiana; è o diventerà la rivelazione di un altro ordine; è il segno di qualcosa di reale che si cela dietro le apparenze; e sono io che lo rendo reale esprimendolo in parole. Solo con l'esprimerlo in parole gli conferisco unità; e questa unità significa che ha perduto il potere di farmi del male; mi dà una grande gioia, forse perché così facendo tengo lontano il dolore, rimettere insieme i frammenti. Questo è forse il piacere più intenso che io conosca. (...) Di qui nasce potrei dire una filosofia; o comunque un'idea che ho sempre avuto, che dietro l'ovatta si celi un disegno; che noi - tutti noi esseri umani - rientriamo nel disegno; che il mondo intero è un'opera d'arte; che noi siamo parte di quell'opera d'arte. L'Amleto, o un quartetto di Beethoven, è la verità su questa massa immane che chiamiamo il mondo. Ma non esiste nessuno Shakespeare, non esiste nessun Beethoven; sicuramente e decisamente non esiste nessun Dio; noi siamo le parole; noi siamo la musica; noi siamo la realtà.
(da Momenti di essere, traduzione di Adriana Bottini, La Tartaruga Edizioni, 1993, pag. 92)



I momenti di essere vengono 'attivati' dalle cose più disparate; non dobbiamo pensare a situazioni solenni o ad eventi drastici che in qualche modo segnano un marchio indelebile nello scorrere dei giorni. La verità è che queste violente, fulminee incursioni nella realtà autentica del vivere possono verificarsi in seguito al fatto più banale, all'incontro più insignificante, allo scambio di battute più modesto. La visione di un fiore e l'improvvisa consapevolezza che esso sia una parte vibrante di vita di un tutto più vasto e ricco di senso può bastare a renderci individui diversi, segnati per sempre da quell'istante prezioso e irripetibile di consapevolezza, di contatto immediato e autentico con la realtà, benché sia difficile, a volte penosamente impossibile, esprimere a parole questa esperienza, farne partecipe chi non ha vissuto con noi quell'istante di rapinosa comunione con il mondo.
Proprio questa è l'impresa in cui è riuscita, per sé e per tutti quelli che la leggono, Virginia Woolf. Come si può non amarla per questo, mi chiedo io. Soprattutto pensando a quanto tutto ciò le sia costato.


Virginia Woolf, Momenti di essere, La Tartaruga Edizioni, Milano 1977. Traduzione di Adriana Bottini


giovedì 22 gennaio 2009

Quiche Lorraine


Ieri sera sono venuti a cena da noi due amici e ne ho approfittato per preparare uno dei miei piatti preferiti, la quiche lorraine. Lo so, è pesante che dio solo lo sa; infatti l'ho abbinata ad un'insalata di spinaci e via. No, in realtà avevo preparato anche un cheesecake al limone, che però è venuto un disastro. Mi sembrava davvero di essere finita nel saggio di Laurie Colwin di cui parlavo un post fa.

Preparo da anni questo cheesecake e mi è sempre venuto benissimo, con grande gioia dei miei ospiti. Mi piace perché non si cuoce nel forno ed è facile da fare: l'unica accortezza è prepararlo ore e ore prima, perché deve stare parecchio tempo in frigorifero prima di essere servito.
Ieri non so bene che cosa sia successo; probabilmente, come per tutte le catastrofi, una concomitanza di fatti ha congiurato per creare, al posto di ciò che mi aspettavo, cioè un serico, cremoso, appetitoso cheesecake, una sbobba semiliquida e sierosa, dall'aspetto davvero poco invitante. Per fortuna i nostri due amici avevano portato a loro volta una torta (ottima! crema di limone e scorze di arancia amara) e sono due personcine per bene: hanno cortesemente assaggiato il mio obbrobrio, dicendomi che il sapore era eccellente, e che l'apparenza, che certo lo penalizzava alquanto, non è tutto nella vita, lo sappiamo tutti.

La quiche però, quella sì che era venuta bene, meno male.


La ricetta l'ho trovato in Bake, ultima fatica di Rachel Allen, cuoca irlandese che molti chiamano l'anti-Nigella.
In effetti questa esile bionda pare essere l'esatto opposto della matronale e sofisticata Lawson: se quest'ultima indossa sempre maglioncini attillati e ammicca sorniona alla telecamera, la Allen si presenta in jeans e camicetta, i capelli biondi legati con un elastico, priva di qualunque vezzo seduttivo. Se i programmi di Nigella vengono filmati nella sua lussuosissima cucina hi-tech di Londra, piena di gadgets e decorazioni di gusto kitsch (per il quale ha sempre ammesso di avere un debole), quelli di Rachel Allen sono girati nella cucina stile country di una casa di campagna irlandese, con gli strofinacci bianchi a righe blu e le stoviglie azzurre a fiorellini.

Comunque, anche se stenta a raggiungere i livelli di notorietà della mitica Nigellona, Rachel Allen ha il suo pubblico di fedeli seguaci, per i quali ha creato anche il suo sito, con il corredo che ormai conosciamo di elettrodomestici, biancheria per la cucina, servizi di piatti etc. etc. firmati da lei.

Con la consueta fissazione che ho io per la completezza, non appena l'ho scoperta ne ho dovuto comprare tutti e 5 i libri. Soldi ben spesi, mi sembra. Non c'è da aspettarsi da loro l'intrattenimento che riservano quelli della bella Nigellona, però. Nigella è l'unica e sola
. Ma sono onesti libri di cucina, ben confezionati, ben fotografati; niente di più, niente di meno. Non è poco. Tutte le ricette che ho provato hanno dato ottimi risultati.

Giudicate voi, comunque. Ecco la sua quiche lorraine, da me pochissimo modificata:

Per 6 persone

per la pasta brisée:

200 gr. di farina O
un pizzico di sale
100 gr. di burro freddissimo, a cubetti
1 uovo di medie dimensioni

per il ripieno:

1 cucchiaio di olio d'oliva
175 gr. di pancetta tagliata a cubetti
100 gr. di cipolle, pelate e tagliate fini a pezzetti
2 uova intere e 2 rossi
250 ml di panna liquida
100 gr. di formaggio (io ci ho messo l'Asiago, perché era quello che avevo nel frigo)
sale e pepe

Come al solito, io metto gli ingredienti per la pasta brisée nella coppa del robot da cucina: prima il burro e la farina, perché vengano ridotti in qualcosa che assomiglia vagamente alla sabbia umida; poi l'uovo. Quando il composto si agglomera e diventa quasi una palla, lo tiro fuori dalla coppa, gli do una forma tondeggiante con le mani, lo avvolgo nella pellicola e lo infilo nel frigorifero per una mezz'ora (la Allen dice che se si è di fretta lo si può mettere nel freezer per 10-15 minuti; sperimentato, va bene).

Accendo il forno a 180 gradi e intanto verso in una padella l'olio e faccio soffriggere la pancetta. Quando è croccante, la scolo come meglio posso su un piatto coperto da scottex e nello stesso olio e grasso della pancetta cuocio per un po' la cipolla. Deve essere morbida, e trasparente, altrimenti la digerirete a Pasqua. Diciamo che deve cuocere per almeno una decina di minuti, dipende anche da quanto grande l'avete tagliata. Cotta la cipolla spengo e lascio raffreddare.

Intanto, trascorsa la mezz'ora di riposo della pasta, la tiro fuori dal frigo e la stendo per ricoprire il piatto di ceramica che uso io per questa quiche, un normalissimo piatto bianco di quelli con l'orlo 'frou frou' dell'Ikea da 24 centimetri.
Sarò un po' scema, ma ci ho messo un po' per imparare a stendere la pasta (quella brisée, come in questo caso, o quella frolla per le crostate) senza fare un casino inenarrabile ed avere un esaurimento nervoso. Alla fine, sono giunta a un mio metodo, che per me funziona; un metodo di facile deduzione, tra l'altro; non capisco come non ci sia arrivata prima. Quando l'ho 'scoperto' l'ho detto a chiunque mi capitasse a tiro e dall'espressione cortesemente stupita dei miei interlocutori ho capito che non è che ci volesse un premio Nobel. Io comunque lo scrivo, hai visto mai che c'è qualcun altro lento come me che ancora si dibatte...

Metto sul tavolo un foglio abbastanza ampio di carta da forno e ci metto sopra la pasta che copro con la pellicola nella quale l'ho avvolta prima di riporla in frigo. Così non mi si sporca il mattarello (odio lavarlo, poi non so mai dove metterlo ad asciugare), che è a contatto con la pellicola, e la pasta non mi si appiccica al tavolo.
Per molti anni, per me è stato un problema anche lavorare la pasta perché diventasse vagamente rotondeggiante: negli anni ho prodotto quasi tutte le forme conosciute in natura (e, probabilmente, anche qualche altra mai concepita da mente umana), dai trapezi agli esagoni, dagli ottagoni ai dodecaedri. Adesso do una prima passata col mattarello, poi giro l'intero sandwich di pasta e pellicola e carta da forno di 90 gradi verso destra e ripasso il mattarello, e così via, fino ad ottenere una forma effettivamente simile ad un tondo. L'importante è che la sfoglia sia più grande della tortiera, ovviamente, e che ne ricopra non solo il fondo, ma anche le pareti. Non preoccupatevi se le supera di qualche centimentro, melius abundare quam deficere. Ma prima, togliete lo strato di pellicola ed adagiate la pasta sulla tortiera; conservate invece il foglio di carta da forno, ma per il momento toglietelo, schiacciate bene con le dita la pasta perché aderisca bene alle pareti, schiacciatela anche sul bordo 'frou frou'; per avere una rifinitura perfetta passate un dito tutto intorno al bordo, così da 'tagliare' la pasta in eccesso (poi, se siete degli animali come me, mangiatevi i ritagli di pasta brisée cruda; lo so, è un'aberrazione, non so cosa farci). Bucherellate la pasta sul fondo della tortiera coi rebbi di una forchetta, adagiatevi sopra il foglio di carta da forno messo da parte, versateci sopra del riso o dei fagioli, livellateli bene e mettete in forno per 15-20 minuti. Scaduti i quali, tirate fuori la teglia e sollevate delicatamente la carta da forno coi fagioli. La pasta dovrebbe essere appena dorata.

Intanto avrete preparato la crema con la panna e le uova, alla quale aggiungerete il formaggio grattugiato, le cipolle e la pancetta. So che fa un po' impressione, ma dovreste assaggiare il tutto per decidere quanto sale e quanto pepe aggiungere. Quando sarete soddisfatti del risultato, versate delicatamente il composto nel guscio di pasta e rimettete in forno per 30-40 minuti.

Non mangiatela appena uscita dal forno: vi ustionerete la lingua e non sentirete niente. Aspettate che sia caldina. Se poi volete proprio gustarvela, mangiatela il giorno dopo, dopo averla appena riscaldata. Se proprio bisogna assumere delle calorie in più, che sia almeno mangiando qualcosa di buono.


Rachel Allen, Bake, Collins, London 2008.


martedì 20 gennaio 2009

Home Cooking e More Home Cooking. Piccolo tributo a Laurie Colwin


Domenica è stata una giornata invernale piovosa e mesta, ma non per me! Nel pomeriggio, un gatto sulle ginocchia, un altro seduto sulla scrivania accanto a me, ed un terzo mollemente sdraiato su una poltrona alla giusta distanza per non sentirsi solo e abbandonato ma neanche obbligato a farmi compagnia, ho sfogliato, per l'ennesima volta, due tra i miei libri più amati, Home Cooking. A Writer in the Kitchen e More Home Cooking. A Writer Returns to the Kitchen, entrambi di Laurie Colwin.

In Italia, questa scrittrice newyorkese, nata nel 1944 e morta a soli quarantotto anni nel 1992, è una perfetta sconosciuta. E' un altro di quei casi
di miopia, per me piuttosto incomprensibili, dell'editoria italiana. Se fossi una di quelle pochissime traduttrici al mondo talmente affermate da potersi permettere di proporre testi alle case editrici, non esiterei a tradurre questi due gioielli.
Che io sappia, l'unica cosa ad essere stata pubblicata di lei è apparsa in Al banchetto del mondo, un'antologia pubblicata da Ponte alle Grazie nel 2005 che raccoglie articoli scritti da vari autori per la rivista gastronomica più famosa d'America, 'Gourmet', per anni diretta dalla leggendaria Ruth Reichl (qui trovate una scheda del volume). L'articolo in questione si intitola 'Suggerimenti di cucina veloce per cuochi col tempo contato' ed è un buon esempio dello stile e della voce di questa scrittrice.

Laurie Colwin ha scritto romanzi e racconti brevi, accolti a loro tempo da grande favore sia di critica sia di pubblico
(se siete curiosi e leggete in inglese, andate a farvi un giro qui e qui per notizie biobibliografiche su di lei); ma adesso è senz'altro più conosciuta come l'autrice dei due libri di cui parlavo all'inizio del post.Si tratta di due raccolte di brevi saggi dedicati al mondo della cucina, grande passione della Colwin, dopo la scrittura. Si parla di home cooking, cioè di cucina casalinga, delle piccole e grandi avventure (spesso tragicomiche), delle scoperte, a volte esaltanti altre inquietanti, che quotidianamente si fanno tra i fornelli. Ma soprattutto, questi saggi parlano del cibo come occasione di condivisione e comunicazione con gli altri, lo celebrano come strumento attraverso il quale manifestare il proprio amore e la propria devozione alle persone cui si vuole bene: la voce della Colwin canta, con semplicità e affetto, con ironia e leggerezza, l'incanto quotidianamente rinnovato di un rito tanto necessario e naturale quanto simbolico e profondo.
Ecco che cosa dice nell'introduzione a Home Cooking:



A meno che non viviate da soli in una caverna o non siate degli eremiti, cucinare e mangiare sono attività sociali: persino i monaci hanno un pasto consumato in comune, una volta al mese. La condivisione del cibo è la base della vita sociale, e per molte persone è l'unico genere di vita sociale cui valga la pena di partecipare.
Non c'è però un grammo di stucchevole sentimentalismo in queste pagine, tranquillizzatevi. Anzi. Si ride molto leggendole, a volte si ride quasi da star male, ma se dovessi riassumere con una parola sola il tono generale di questi due libri, opterei per l'aggettivo 'affettuoso': Laurie Colwin doveva avere un carattere solare, animato da una grande, benevola curiosità per i suoi simili, da un'acutezza e da un'ironia sempre temperate da una reale tolleranza nei confronti delle mancanze altrui e proprie.
Forse ciò che più mi ha conquistato di lei è stata la seguente ammissione, sempre nell'introduzione:
A differenza di alcune persone che amano uscire, io amo stare in casa. Ciò può essere forse causato da pigrizia, ansia o xenofobia, e al tempo in cui i miei amici viaggiavano felicemente in Bolivia e in Nepal, io mi vergognavo di ammettere che ciò che mi piaceva di più era bighellonare dentro casa.
Probabilmente non sono nemmeno granché divertente come viaggiatrice. La mia idea di divertimento all'estero è essere ospite di qualcuno e bighellonare dentro casa sua, ficcando il naso nella sua credenza, se me ne dà il permesso.
Chi mi conosce concorderebbe nell'affermare che una cosa del genere avrei potuto benissimo scriverla io!
Uno dei saggi che trovo in assoluto più divertenti è 'Kitchen Horrors' (da Home Cooking), che racconta di alcune
'leggendarie' catastrofi della Colwin. Sentite questa:

Durante il periodo dei miei disastri culinari, quando oramai cucinavo da un po' e sapevo come muovermi in cucina, decisi di catturare l'uomo che anni dopo avrei sposato preparandogli un dentice al forno, l'unico pesce che gli piacesse. Fuorviata dalla passione, decisi di farlo ripieno di acini d'uva tagliati a fettine, gamberetti e fagioli neri fermentati. Non avevo mai preparato un pesce ripieno prima di allora, né tanto meno l'avevo mai cucinato al forno. Non avevo idea di cosa stessi facendo. In realtà devo essere stata fuori di testa. Non avevo una ricetta da seguire, ma l'amore ha forse bisogno di una ricetta? L'ispirazione richiede istruzioni?
E' difficile descrivere il risultato, che fu ripetutamente messo in forno prima che si seccasse e divenisse immangiabile. Molte volte arrossii come una scolaretta dicendo: "Be', l'interno sembra ancora poco cotto: lo rimetto in forno un minuto." Devo averlo detto una quindicina di volte.
Quando finalmente emerse dal forno, quel pesce assomigliava alla visione dell'inferno di Hieronymus Bosch, con delle schifezze che ne fuoriuscivano in una pozza pallida di succhi da pesce poco cotto.

Ma il capolavoro, secondo me, è 'Repulsive Dinners: A Memoir' (Cene repellenti. Ricordi, sempre da Home Cooking).

C'è qualcosa di trionfale in un pasto veramente disgustoso. Rimane nella memoria circondato da un alone fosco, proprio come qualcosa di esaltante viene ricordato con una sorta di dolce luminosità. Non sto pensando ai disastri che accadono in cucina - una pasta gommosa, dei brownies bruciati, salse raggrumate: queste cose possono accadere a chiunque. Sto pensando a pasti assolutamente disgustosi dalla zuppa alle noccioline, sebbene di solito non si è fortunati abbastanza da rimediare né una zuppa né delle noccioline.
Nei ristoranti il cibo cattivo abbonda, ma in qualche modo un pasto schifoso al ristorante ed uno cucinato in casa non sono la stessa cosa: dopo tutto, il ristorante non vi ha invitati a cena.
Mia madre crede che le persone che non sanno cucinare dovrebbero fare affidamento su filetto e patate lesse al prezzemolo, e che dovrebbero essere in eccellenti rapporti con una costosa pasticceria. Ma se tutti lo facessero, ci sarebbero meno pasti orribili e quella ricca, complicata trama che è l'esperienza umana sarebbe assai più povera per questo.
La mia vita è stata grandemente arricchita da alcuni pasti orrendi; due dei più tremendi hanno avuto luogo a Londra. Io sono una grande sostenitrice del cibo inglese, ma quel che mi fu offerto a quelle due cene non era né inglese, né cibo, per quel che posso dire.
Una volta, il mio vecchio amico Richard Davies mi portò ad una cena in Shepherd's Bush, una zona squallida della città, nell'appartamento di uno dei suoi più vecchi amici.
'Com'è questo tuo amico?', gli chiesi.
'E' un genio', disse Richard. 'Ha grandi capacità di pensiero astratto'. Non lo considerai un buon segno.
'Che bello', dissi. 'Sa cucinare?'
'Non lo so', rispose Richard. 'In tutti questi anni, non ho mai mangiato a casa sua. E' uno scozzese, e sai gli scozzesi sono molto avari'.
Quando gli inglesi dicono 'avaro', intendono 'spilorcio'.
Il padrone di casa ci accolse all'ingresso. Era una persona dall'aspetto cupo e genialoide, e ci condusse in un'ampia stanza disadorna con un tavolo da sei persone. Non c'erano né odori né suoni che facessero pensare che
qualcosa stesse cuocendo. Altri due ospiti erano seduti su delle sedie, e sembravano desiderare che ci fossero degli antipasti. Non ce n'era nessuno.
'Non penso ci sarà abbastanza da mangiare per tutti', disse il padrone di casa, come se fosse colpa nostra il fatto di essere in troppi. Di solito, questo non è il genere di cosa che un ospite ama sentirsi dire, ma alla fine fummo contenti che corrispondesse a verità.
Bevemmo del vino alquanto scadente, e, quando ormai stavamo praticamente mangiandoci a vicenda i gomiti, fummo condotti a tavola. Il padrone di casa posò al centro una casseruola piuttosto piccola. La guardammo speranzosi. Lui sollevò il coperchio. 'Niente sbirciatine' disse.
Di solito, quando si solleva il coperchio di una casseruola che viene dritta dal forno, se ne sprigiona qualche fragrante vapore. Ciò non accadde, sebbene dapprima non pensai che quella casseruola non era appena uscita dal forno, ma era stata a lungo fuori, a intiepidirsi e forse ad allevare salmonella.
Ecco ciò che mangiammo: la casseruola conteneva uno strato di riso parzialmente cotto, uno di anelli di ananas e uno di salsicce, il tutto cotto in un liquido non meglio identificato. Ognuno ricevette un anello di ananas, una salsiccia e un grosso mucchio di riso che scrocchiava sotto i denti. Mangiammo in perfetto silenzio, prima sotto schock, poi in preda allo stupore, infine grati che non solo non ci fosse abbastanza da mangiare per tutti, ma che non ci fosse altro a seguire. Questa fu tutta la cena.
Più tardi, mentre con Richard sedevo da Pizza Express finendo di mangiare il secondo pasticcio di carne, dissi: 'Quello che abbiamo mangiato stasera era un qualche piatto scozzese?'.
'No', rispose Richard. 'Era il piatto di un genio'.



Laurie Colwin, Home Cooking. A Writer in the Kitchen, HarperCollins, New York 1993.

Laurie Colwin,
More Home Cooking. A Writer Returns in the Kitchen, HarperCollins, New York 1995.

Ruth Reichl,
Al banchetto del mondo, Ponte alle Grazie, Milano 2005. Traduzione di Patrizia Traverso.


giovedì 15 gennaio 2009

Buono come il pane


Fare il pane in casa è facile.

Quando qualcuno dei miei ospiti mi chiede "Ma dove lo compri questo pane?" ed io rispondo che l'ho fatto da me, nessuno mi crede. Quando si convincono, mi dicono "Eh, ma chissà com'è difficile! Che brava che sei!".

Invece è facile, è la verità. Richiede un minimo, ma proprio un minimo di organizzazione, e gli ingredienti giusti, ovvio, ma per il resto è un'impresa alla portata di chiunque abbia un minimo di buona volontà e di tempo.
Ma non vi preoccupate. Quello in cui viene richiesta la vostra attiva partecipazione è limitatissimo: diciamo 5 minuti per radunare gli ingredienti e 10 per lavorarli. Quindi avrete due ore libere in cui potete starvene in casa a farvi i fatti vostri, uscire a passeggio, andare dal parrucchiere, non importa. Mettete un timer, o la sveglia sul cellulare, nel caso usciate, altrimenti rischiate di dimenticarvi il pane lì, a lievitare in silenzio.

Passate le due ore, dovete lavorare l'impasto ancora per un-minuto-uno. Quindi il tutto va in forno, per circa 30-40 minuti (v. più avanti), durante i quali non dovete fare assolutamente niente. Io a volte rimango davanti allo sportello a guardare ipnotizzata l'impasto che si gonfia, ma è una scelta mia. Voi potrete benissimo scaricare la posta, guardarvi filmati di Claudio Lippi su Youtube, insomma, fare quello che vi pare.

Chiunque faccia il pane da sé vi dirà che prepararlo diventa spesso una sorta di rito: io lo faccio ogni settimana e mi piace farlo dopo pranzo, perché sia pronto per la sera. Mi piace farlo da sola, in cucina, e lavorarlo con pazienza, direi con amore. Non voglio essere sentimentale o patetica, ma lavorare il pane mi fa sentire ogni volta parte di una lunga catena di donne che da millenni, con le proprie mani, dà forma concreta, in una pagnotta, a ciò che di più bello e di più spontaneo e naturale c'è, secondo me, nell'essere donna: la vocazione all'accudimento, il desiderio di nutrire gli altri, la gioia di condividere.

Quando vivevo in Africa, il pane buono era difficile, diciamo impossibile, da trovare. C'era un supermercato vicino casa mia, che vendeva quello a cassetta già tagliato e insacchettato. Anche appena fatto era molle e gommoso come una pallina antistress, e il giorno dopo era semplicemente immangiabile: pareva fatto di segatura. Sapeva tantissimo di qualche grasso industriale, tipo margarina, ma di pessima qualità (mia suocera direbbe che era fatto 'col grasso di cane').

Non molto lontano da questo supermercato c'era un forno che vendeva diversi tipi di pane: la loro qualità era mediamente superiore a quella del pane di plastica del supermercato, ma il giorno dopo erano altrettanto immangiabili.

Io ho sempre avuto un rapporto strano col pane: quando ero piccola raramente ne mangiavo durante i pasti, per accompagnare i cibi, come avrebbero voluto i miei genitori (ancora loro!), ma durante il giorno ero capace di farmi fuori mezza ciabatta senza battere ciglio. Quando mia madre lo portava a casa ancora caldo di forno, ne dovevo assolutamente sbranare con le mani 'il culetto' e me lo mangiavo con l'olio, il modo in cui, ancora oggi, lo preferisco.

Così, un po' per disperazione, un po' per una curiosità che avevo da anni, nella mia cucina africana ho deciso di imparare a fare il pane. Ho trovato una ricetta basic su uno dei libri cui sono in assoluto più affezionata, How to Be a Domestic Goddess. Baking and the Art of Comfort Food, della mitica e grandissima (in tutti i sensi!) Nigella Lawson, la mia cuoca feticcio, il mio mito culinario.

La Spia mi prende in giro per la fedeltà e l'adorazione che le tributo, e ha coniato l'espressione 'Nigella dixit', ad indicare dogmi gastronomici di derivazione 'lawsoniana' che in casa nostra non si discutono.

Non ho ancora capito perché un personaggio come lei non sia stato 'sdoganato' in Italia; forse perché rimane il pregiudizio che noi italiani non abbiamo niente da imparare in fatto di cucina, figurarsi da una cuoca inglese! Be', non sanno cosa si perdono.

Nigella Lawson è un portento, un piacere per gli occhi e per le orecchie: un mio amico l'ha definita 'una pornodiva'; io parlerei piuttosto di un corpo giunonico, di proporzioni monumentali, ingentilito da un viso di intensa bellezza mediterranea; scordatevi la beltà inglese classica, occhi chiari, pelle delicatissima, capelli biondi e impalpabili.

Nigellona è stata per molti anni una critica gastronomica, finché nel 1998 ha pubblicato How to Eat. The Pleasures and Principles of Good Food, un tomo di considerevoli dimensioni e svariati etti che l'ha imposta come fenomeno editoriale. Sono seguiti altri sei libri, programmi televisivi seguitissimi, la creazione di un sito molto visitato (date un'occhiata qui) e della solita linea di attrezzature e oggetti per la cucina etc. etc. Il consueto iter di tutti gli chef 'televisivi'. Solo che lei è stata una delle prime, e secondo me è impareggiabile.

I suoi libri si leggono come dei romanzi; il suo stile è ricco, ironico, brillante, immaginifico, sensuale, un po' come la sua cucina.

La Lawson scrive prima di tutto libri di qualità, tecnicamente e 'letterariamente' parlando, splendidamente illustrati (a parte il primo, in cui si è privilegiata la sobrietà). Lo stile, dicevo, è originalissimo e brioso, e questo li rende una piacevolissima lettura (niente di più confortante che portarsene uno in camera da letto da leggere prima di addormentarsi la sera; altro che testi spirituali o di ispirazione!). Ma la cosa più importante è che, soprattutto, si tratta di ottimi libri di cucina, che propongono, a beneficio soprattutto di chi abbia poca familiarità con pentole e padelle, ricette praticamente infallibili, spiegate passo passo.


How to Be a Domestic Goddess è stato il primo libro che ho letto di Nigella Lawson: mi ha letteralmente salvata dalla disperazione, e non esagero, in un momento di grande confusione e avvilimento, e mi ha immediatamente conquistata, come tutte le sue opere successive. Ci sono ricette per dolci, torte salate e pane, alcune di ispirazione chiaramente mediterranea (la Lawson è una grande estimatrice della tradizione gastronomica italiana e francese). So di ripetermi, ma parlerò ancora della mia Nigellona e (temo) per svariati post. Sono tanti i debiti di riconoscenza che ho nei suoi confronti!

Ed ora torniamo a noi... La cosa bella del pane è che viene leggermente diverso ogni volta: è un cibo vivo, che risente delle variazioni delle condizioni climatiche, della temperatura, dell'umidità, del forno in cui lo si cuoce. A seconda della stagione, della farina che usate, del tipo di forno, richiederà da parte vostra un piccolo lavoro di adattamento, un po' di monitoraggio, ma niente che non possiate fare, in tutta tranquillità, ve lo assicuro.
Nel tempo, io ho messo a punto questa ricetta, partendo da quella della Lawson (dalla quale in parte si discosta), che produce il tipo di pane che piace a me, crosta croccante e mollica morbida, non troppo densa, non troppo gommosa.
Se volete un pane bianco usate

500 gr. di farina tipo 0
1/2 cucchiaio di sale
1 cucchiaino di zucchero (serve per dare croccantezza alla crosta)
1 cucchiaio di olio extravergine di oliva
1 bustina di lievito secco
circa 250 ml di acqua tiepida (se troppo calda, 'uccide' il lievito; se troppo fredda, non lo attiva)

Mettete tutti gli ingredienti 'secchi' più l'olio in una ciotola; aggiungete piano l'acqua e lavorate, da principio con una forchetta, poi, quando comincerà a crearsi una sorta di palla, con le mani.

Io, non mi vergogno a dirlo, schiaffo nella coppa del mio robot da cucina
tutti gli ingredienti, tranne l'acqua, che aggiungo a filo, col motore acceso. Quando l'impasto comincia ad aggregarsi e a formare una palla, spengo tutto, estraggo la palla e la lavoro a mano per qualche minuto.
Trasferite dunque l'impasto su un piano infarinato e lavoratelo. La tecnica tipica è spingerlo con il palmo della mano (o meglio, con la parte inferiore del palmo della mano, quella più vicina al polso, per intenderci) lontano da voi, per poi riavvicinarlo. E così via, per una decina di minuti. Un buon esercizio per rassodare i muscoli delle braccia!

L'impasto è pronto quando è liscio ed elastico; premeteci un indice sopra: se 'rimbalza', se l'incavo creato dal vostro dito viene prontamente 'riassorbito' dall'impasto, allora potete smettere di lavorare. Mettete la palla in una ciotola col fondo e i lati appena unti d'olio (serve perché l'impasto non si attacchi alle pareti mentre lievita). Con un coltello affilato fate due tagli, a formare una croce, in cima alla palla. Coprite con la pellicola, ben stretta: per sicurezza, mettete
un grosso elastico intorno al bordo della ciotola. Avvolgete quest'ultima con un canovaccio asciutto (se è inverno, preriscaldatelo per qualche minuto sul calorifero) e riponetela, tutta amorevolmente infagottata, in un luogo a riparo dalle correnti d'aria. Io la infilo in un armadio a muro in corridoio, ma in passato l'ho anche messa in un sécretaire coreano (!), in una cassapanca e nell'armadio del guardaroba in camera da letto.

Lasciate lievitare per due orette (una volta, un po' di fretta, ho aspettato un'ora sola: nessun problema; però, avendo l'agio, preferisco sempre aspettare le due ore canoniche). Quindi preriscaldate il forno, questo è essenziale: il pane deve andare nel forno già caldissimo, a 200 gradi. Mentre il forno si scalda prendete la vostra ciotola, spogliatela del canovaccio e della pellicola, date un bel pugno all'impasto per sgonfiarlo dell'aria, tiratelo fuori e rilavoratelo per un minuto scarso sul piano infarinato. Io preferisco dargli una forma un po' allungata, tipo ciabatta, perché il mio ha sempre la tendenza
, una volta in forno, a crescere in altezza, e secondo me se è troppo alto è più difficile da tagliare una volta cotto. Non cercate, però, di ottenere un pane come quello del forno sotto casa vostra: anche se verrà un po' deforme non importa, anzi, questo sarà proprio il marchio della sua assoluta artigianalità. Persino la mitica Nigellona dice del suo che assomiglia alla Venere di Willendorf, non proprio un'immagine di perfezione classica.

Ponete dunque la vostra creazione su una teglia da forno (non importa ungerla) e
con un coltello affilato fatele un taglio nel senso della lunghezza: non penetrate troppo in profondità con la lama, ma non siate troppo timidi. Coprite di nuovo con lo strofinaccio e fate in modo che esso avvolga morbidamente l'intera teglia. Quando il forno ha raggiunto la sua temperatura (ci mette più o meno una mezz'oretta), infilate il vostro pane nel forno e lasciatelo cuocere per almeno 30-35 minuti. Questo dipende moltissimo da che tipo di forno avete. Nel mio, uno normalissimo, elettrico, della Whirlpool comprato all'Ikea, con 40 minuti il pane è perfettamente cotto (in quello che avevo in Africa, per avere lo stesso risultato era necessario attendere un'ora).

Tiratelo fuori del forno usando un guanto (scotta!), e 'bussate' sulla sua parte inferiore: se suona come se fosse cavo è pronto. In questo caso, mettetelo su una gratella a freddare un po' prima di mangiarlo. Altrimenti, rimettetelo nel forno spento, senza la teglia, chiudete lo sportello e aspettate una decina di minuti; quindi tiratelo fuori e mettetelo a freddare sulla solita gratella.

Il pane fotografato all'inizio del post è quello che faccio tutte le settimane, preparato in realtà con un misto di farina integrale (2/3) e farina bianca (1/3). Il procedimento è identico a quello descritto sopra per il pane bianco; gli ingredienti pure (a parte la farina), ma la quantità dell'acqua varia.
Per chiarezza:

400 gr. di farina integrale
200 gr. di farina bianca 0
350 ml di acqua tiepida

Il resto è uguale. Anche questo viene benissimo, croccante fuori, profumatissimo. Essendo solo in due qui a casa, io preferisco tagliarlo tutto (quando è freddo, ma non dopo ore che è uscito dal forno, altrimenti ho paura che perda fragranza e morbidezza), metterlo in un sacchetto da congelatore e poi in freezer. Quando serve, ne tiro fuori due-tre fette che riscaldo per 5 minuti in forno. In questo modo ho sempre a disposizione pane freschissimo e perfetto.

Un'ultima cosa: quando vi sarete impratichiti e sarete diventati dei virtuosi del pane fatto in casa (e vi ci vorrà pochissimo, credetemi),
la prossima volta che siete ospiti da amici portatelo in regalo, avvolto in un bel canovaccio pulito o infilato in un sacchetto di carta, magari ancora tiepido di forno: farete un figurone pazzesco.
Quando vi chiederanno: 'Ma davvero l'hai fatto tu? Ma sei un genio', rispondete sorridendo amabilmente 'Ma no, è facile!'. Nessuno crederà al fatto che state dicendo la pura e semplice verità,
e per tutta la serata rifulgerete di un alone di gloriosa modestia!


Nigella Lawson, How to Eat. The Pleasures and Principles of Good Food, Chatto & Windus, London 1998.

Nigella Lawson, How to Be a Domestic Goddess. Baking and the Art of Comfort Food, Chatto & Windus, London 2000.


martedì 13 gennaio 2009

Mangia i broccoli che fanno bene...


I miei genitori hanno sempre avuto idee piuttosto decise e spartane sull'alimentazione dei loro figli: i bambini sono come gli adulti, devono mangiare tutto, quindi anche il peperoncino, l'aglio, il pecorino, i finocchi cotti, i cardi al forno, la cicoria... e i broccoli.

Ho avuto per anni un disgusto assoluto per l'intera famiglia delle crucifere e ricordo ancora adesso, con un brivido di disgusto, piatti colmi di cavolo 'ingangherito' (che, in veneto, indica il cavolfiore ripassato con aglio, peperoncino e aceto) o al gratin, per non parlare dei broccoletti in tutte le loro fogge e manifestazioni. Impossibile dire ai miei genitori: "Scusate, ma a me questa cosa proprio non piace!". La punizione per tanto ardire era una doppia razione dell'aborrito piatto; mai capito l'intento pedagogico soggiacente a ciò che, ancora oggi, mi appare solo una tortura gratuita (sorry dad, sorry mom!): un'educazione al gusto acquisito? Un'altra delle numerose incarnazioni del principio, caro ai miei, che si cresce solo attraverso le prove, il sacrificio, le difficoltà? O più semplicemente, la necessità di non far mancare ai propri figli le giuste sostanze nutritive necessarie alla loro crescita e l'incapacità di trovare soluzioni alternative per non creare in loro dei traumi?

Si comprenderà dunque perché, appena andata via di casa, alla tenera età di 27 anni, io abbia deciso di non mangiare più neanche una di quelle terribili verdure. Che sollievo! Che cosa meravigliosa la libertà 'gastronomica', la libertà di poter scegliere ciò che si mangia, all'ora in cui si ha fame (e non ciò che gli altri hanno voglia di mangiare all'ora in cui hanno fame)! Un privilegio che chi ha avuto genitori più tolleranti dal punto di vista alimentare non ha dovuto sudarsi insieme all'autonomia economica e alle bollette da pagare!

Ma dopo questa lunga e comprensibile 'ubriacatura' da indipendenza culinaria, forse la voce della ragione, forse quella della natura, mi hanno convinta che fosse necessario reintrodurre, gradualmente, tutti quei cibi che nella mia infanzia erano per me sinonimi di orridi pasti e punizioni. Anche perché che facciano bene l'ho sempre saputo!

Così, se uno dei miei piaceri più grandi è acciambellarmi su qualche poltrona (ora, nella casa nuova,
appollaiarmi sugli sgabelli della cucina, magari con una bella tazza di tè) sfogliando i miei adorati libri di cucina, da qualche tempo non salto a pie' pari le ricette che vedono protagonisti gli alimenti che detesto, ma anzi, le ricerco.

Alcune non mi invitano affatto, nonostante la mia buona volontà, e rimangono lì a farmi sussultare di ribrezzo! Altre invece mi incuriosiscono, o quantomeno mi fanno pensare 'Magari cucinata così questa cosa non è tanto orripilante!'
Una di queste è la pasta coi broccoli del bellissimo
Ricettario controriformista di Maria Carla & Edgardo Bartoli (ecco qui una sua breve scheda nel sito della casa editrice).

Prima di parlare della ricetta, però, due parole su questo libro, anzi, una sola: compratelo! E' un'assoluta delizia! Magari, come me, all'inizio, potreste sentirvi in soggezione di fronte ai due autori, per via di una certa loro apoditticità e ruvidezza ("Non si avvilisca questa preparazione confondendola con la moltitudine di piatti più o meno meticci che si definiscono insalata di questo o di quello", a proposito dell'insalata di pesce, a pagina 191; "Non debbono avere né l'aspetto né il sapore asettico di quei tranci di zucchina tagliati a metà, scavati e riempiti con un po' di carne tritata che si trovano in ogni ristorante sul tavolo degli antipasti" è quello che scrivono sulle zucchine ripiene a pagina 168), ma poi vi piacerà il loro tono spiccio, sobrio, senza i tanti sdilinquimenti, leziosità e 'metafisica' che purtroppo si trovano in tanta editoria culinaria.

Io spero che nessuno se la prenda se ho osato modificare in parte la ricetta, ma a me mezzo bicchiere (anche se scarso) d'olio extravergine d'oliva è sembrata un'esagerazione. Ho anche eliminato la salsa di pomodoro (usata con grande moderazione, ne sono previsti solo 4 cucchiai).

Il procedimento, comunque è più o meno questo:
si lessano in acqua bollente le cimette del broccolo ben lavato, che devono essere appena cotte (non bollite a morte!); più o meno in 6-7 minuti sono pronte, dipende da quanto grandi le avete tagliate.

Non gettate l'acqua nella quale sono state cotte le cimette, che vi servirà per far bollire la pasta: recuperatele con una schiumarola e mettetele in una padella dove avrete già fatto soffriggere in olio extravergine d'oliva una cipolla tagliata finemente con un paio di acciughe dissalate, che vanno schiacciate bene fino a ridurle ad una purea. Aggiungete poi una manciata di uvetta ed una di pinoli e lasciate che i sapori si mescolino e si amalgamino.

Se proprio volete strafare e avete tempo, prima di aggiungerli agli altri ingredienti, passate i pinoli per un paio di minuti in una padellina antiaderente 'a secco', senza olio e senza niente: è un modo rapido per intensificare il loro meraviglioso sapore (un procedimento applicabile a qualsiasi noce, nocciola, mandorla etc. etc.).

Secondo i signori Bartoli le cimette dovrebbero cuocere 20 minuti, e se ho tempo io seguo sempre questa indicazione. Ma oggi ero un po' di corsa, quindi il tempo di cottura è stato più breve, quello necessario perché gli gnocchetti sardi (altra violazione: secondo la ricetta andrebbero utilizzati 'bucatini o maccheroncini') fossero cotti al dente (12-13 minuti, più o meno).

Mia zia Lietta, che è una grande cuoca, mi ha insegnato ciò che sembra davvero un'ovvietà per quanto risponde ai canoni del buon senso, ma che invece è un segreto di cucina spesso sottovalutato o ignorato del tutto: scolare la pasta sempre un minuto prima e lasciarla cuocere per quel minuto che resta nella padella dove la attende il sugo, così che davvero abbia il tempo e la possibilità di assorbirne ogni minima particella. Vedrete, il risultato è davvero diverso!

Io e la Spia, stavolta, scodellata la pasta, abbiamo deciso di spolverarci sopra un po' di pecorino: una combinazione forte, ma saporita e... buona!

Non avrei mai pensato di poter dire un giorno una cosa del genere parlando di un piatto a base di broccoli, ma la vita è buffa e ci porta per strade inaspettate, a redimere alimenti schifati per anni; di più, a celebrarli!

Buon appetito!


Maria Carla ed Edgardo Bartoli, Ricettario controriformista, Neri Pozza, Vicenza 2006.


lunedì 12 gennaio 2009

Lacy Gemstone Ring



Oggi è stata una giornata bellissima, fredda e pungente ma con un cielo limpido e pulito. Uno di quei giorni in cui mi piace uscire la mattina e godermi una passeggiata fino in centro, beandomi, come sempre, della bellezza di Firenze, cui non sono ancora abituata.

Stamattina, però, niente passeggiata! Sono rimasta a casa a fare questo anello.

E' una variazione su tema del 'Lacy Gemstone Ring' di
Samejima Takako, una straordinaria designer
di gioielli giapponese. In italiano i suoi libri non sono mai stati tradotti (e che peccato!), ma per mia fortuna esistono in inglese, pubblicati dalla Japan Publications Trading Co. Il modello di questo anello lo si può trovare in Bead Fantasies, che si può facilmente ordinare online (il mio, a suo tempo, fu acquistato su www.amazon.co.uk, ma è possibile ordinarlo, per esempio, anche qui).

Quando ho cominciato a cimentarmi con la creazione di gioielli fatti di perline, vivevo in Africa, e trovare gli strumenti e i materiali giusti per completare un progetto era sempre difficilissimo. Esistevano un paio di posti dove potevo trovare bustine polverose di conteria varia, proveniente per lo più dall'India o dalla Cina e di qualità piuttosto scadente. Le perline erano assai irregolari, di misure diverse, spesso senza buco o con qualche altro vistoso difetto. I miei primi tentativi furono davvero un disastro! Soprattutto perché mi ostinavo a voler fare lavori di tessitura (o beadweaving), che invece richiedono perline praticamente perfette, che si dispongano l'una accanto all'altra in modo uniforme, così da creare una sorta di tessuto, appunto.
Le varianti sul tema, dunque, erano all'ordine del giorno, ed anche oggi, che riesco quasi sempre a reperire ciò che mi serve, ogni tanto mi piace modificare i modelli.

In questo caso, ci sono stata praticamente costretta: mi è stato impossibile trovare perline della stessa identica grandezza, il che significa che sono saltati tutti i calcoli relativi al numero delle perline necessarie per la creazione dell'anello. Ma mi sembra di essermela cavata abbastanza bene: il risultato non mi dispiace affatto, anche se è molto più vistoso (un po' volgarotto, forse, ma ho sempre avuto un debole per gli anelloni!) e meno sobriamente elegante dell'originale (questo talento naturale che gran parte dei giapponesi ha per la raffinatezza, evidentemente, non è acqua...). Un giorno scriverò con abbondanza di particolari e notizie sui libri giapponesi di craft: per me sono praticamente perfetti. Da quelli per la creazione di gioielli come quelli di Samejima Takako o della casa editrice Ondori (alcuni di questi pubblicati in inglese), a quelli che propongono vestiti da cucire da sé sono tutti bellissimi.

La cifra che li contraddistingue è la loro semplice eleganza, una sobrietà sofisticata e insieme noncurante che trovo sempre di grande fascino.
Sono troppo pochi i libri giapponesi di craft tradotti e pubblicati in inglese; non riesco a capire come le case editrici specializzate inglesi, francesi, italiane, americane non si rendano conto della loro eccellente qualità. Le istruzioni, nel caso dei beading books (uso questo termine invece che 'libri per la creazione di gioielli fatti con le perline' perché è molto più semplice e veloce), sono stringate, ma corredate da diagrammi chiarissimi.

Fiduciosa di ciò, ho ordinato un paio di mesi fa due libri tramite la libreria giapponese di Firenze, direttamente dal Giappone, quindi in giapponese! Sono piuttosto curiosa. Di sicuro sarà una bella sfida!


Samejima Takako, Bead Fantasies, Japan Publications Trading Co., Tokyo 2003

domenica 11 gennaio 2009

Eccoci qui, dunque...


...oddio, non che io sappia bene da dove e come iniziare, ma dovrò pur farlo, immagino.

L'idea di un blog mi sfiorava da un po', anche se questa affermazione ha suscitato l'ilare incredulità di chi mi conosce e sa che sono tra gli esseri più refrattari sulla terra a questo genere di cose. Però... però non so cosa mi sia preso, una mattina mi sono detta 'Adesso ne faccio uno anch'io!'.

Ho meditato a lungo sul taglio da dare a questo blog. La Spia ne sa qualcosa, poverino! Ha dovuto sorbirsi infiniti e noiosissimi vaniloqui, monologhi deliranti in cui, al tavolo della colazione, fresca di meditazioni notturne, lo mettevo a parte delle mie ultime riflessioni, cambiando idea ogni due minuti, infervorandomi, abbattendomi, 'perplimendomi' e così via. Per quanto, se lo conosco bene, ha fatto solo finta di starmi a sentire; lui la mattina è praticamente in stato comatoso, incapace di articolare qualunque frase di senso compiuto, figuriamoci di seguire un qualunque discorso.

Non sapevo quale delle mie passioni privilegiare, se la lettura, o la cucina, o il fai da te, o il mio amore un po' antiquato per la vita domestica (e la mitologia femminile? e l'aromaterapia? e l'astrologia? e...?). Così ho atteso a lungo, buttando giù schizzi e bozze di post, fin quando stamattina mi sono detta 'Cominciamo e basta, altrimenti famo notte!' ed ora sono qui, ancora incredula di aver superato tutte le barriere (del pudore, dell'insicurezza, del ridicolo, dell'ignoranza).

Mi sono detta che non era necessario scegliere, privilegiare, discriminare: che in un mio blog poteva trovare posto tutto quello che mi piace e che mi appassiona, e così non ci sarà nessun taglio particolare. Queste pagine saranno solo un diario dove registrare e monitorare le mie sgangherate incursioni nel mondo, della lettura e
del fai da te in primis, nel mondo in generale poi. Ci sarà spazio per i libri sul mio comodino, le sperimentazioni culinarie, i progetti 'creativi' (per quanto pomposo possa suonare questo aggettivo), per tutto quello che troverò sui miei passi e che al momento ancora non so, e per molto altro ancora.

E' tutto molto confuso e frammentato? Lo so, non so che farci. Ma a ben guardare, in questa trama ancora
vaga e indistinta, c'è un filo rosso che unisce tutto, sempre e comunque: il mio amore maniacale per i libri. Da lì parto ogni volta per qualunque mia avventura: l'attrazione per la cucina, il desiderio di esplorare la mia creatività, la voglia di far tutto da me sono nati da lì.

Il titolo, a questo punto, è stato difficile da scegliere: data l'abbondanza di stimoli, sembrava impossibile trovare qualcosa che incarnasse efficacemente lo spirito di questa 'creatura'. Ma qualcosa bisognava pure inventarsi, ed ecco quindi
craft-duck, creato sulla falsa riga di quei sostantivi inglesi con i quali si condensa, con al massimo due parole (ed una concomitanza di talento per la sintesi e indifferenza al ridicolo) il ritratto di una persona: cat-person è un individuo cui piacciono i gatti; craft-person chi ama dedicarsi ad attività manuali e artistiche (il craft, appunto). Duck, invece, è uno dei settecentoventitré soprannomi affibbiatimi dalla Spia, ad indicare il mio lato goffo e tenero (?) che gli ricorda questo pennuto.

Craft-duck, allora, che questo sia il titolo; ma avrei potuto metterne almeno altri dieci.

Ora però vado. La domenica, da che mondo è mondo, a casa mia è da sempre la giornata dedicata alla lettura. Sul divano, con una bella coperta fatta ai ferri sulle ginocchia e almeno due gatti sdraiati mollemente accanto. E più tardi, quando scende la sera, una bella tazza di tè verde.

A presto!