lunedì 19 aprile 2010

Di avatar che prendono corpo e di alcuni muffins al formaggio


Chi frequenta il mondo della rete sa benissimo quanto sia facile dare vita a rapporti di vario genere con gli altri suoi frequentatori. Trasformare questi rapporti in legami autentici e significativi è evidentemente, invece, un altro paio di maniche.
È indubbio, però, che il tipo di relazione che può nascere tra due persone che non si conoscono, non si sono mai viste e che, almeno all'inizio, non sanno nemmeno che suono abbia la voce dell'altro sia singolarissimo, per certi versi assolutamente unico e inimitabile. Sociologi, psicologi, giornalisti, tuttologi e cialtroni vari hanno scritto pagine e pagine sul tema 'Le relazioni personali nell'era di internet'. Dunque non aggiungerò banalità a banalità.

Posso però dire che, quando una creatura abitatrice della rete entra nella mia vita e, dopo i primi scambi, ne diventa una piacevole costante, a me viene quasi subito il desiderio di darle una voce, in primis, e poi anche un volto. Mi piace anche di più ritrovarmela accanto, guardarla negli occhi, vedere come si muove nello spazio, come si siede su una poltrona, se quando parla si tocca spesso i capelli o gesticola con le mani, se sorride spesso, se ha rughe d'espressione.
Insomma, mi piace incontrarla in carne ed ossa.

Finora non sono state molte le persone che, partendo da un avatar o da un nickname, hanno acquistato davanti ai miei occhi materia e spessore, ma sono state tutte belle conferme: uomini e donne che non hanno mostrato in rete un'immagine 'ripulita' e insincera di loro stessi e il contatto con i quali non ha ingenerato in me alcuna piccola o grande delusione ma, al contrario, grande tripudio, e la sensazione nettissima e confortante di essere una persona per molti versi fortunata.

Qualche giorno fa, nel salotto di casa mia, si è materializzato un mio amico conosciuto su aNobii. Insieme alla sua compagna e alla Spia abbiamo trascorso il tempo di un pranzo.
Pranzo improvvisato (non era previsto) e per questo tanto più gustato e condiviso in un reale spirito di intimità e di rilassatezza.

Il pezzo forte era costituito da dei muffins al formaggio che avevo preparato per il mio amico e la sua compagna e che avevo diligentemente infilato in un sacchetto del pane per fargliene omaggio. Cambiati i programmi, sono stati messi al centro della tavola, accompagnati da affettati e da un'insalata.

La ricetta è questa, tratta da Nigella Bites della mia Nigellona (a proposito! A settembre uscirà in Inghilterra il suo nuovo libro. Ovviamente ho il dito già pronto sul tasto buy it nella libreria online dalla quale in genere mi servo).

Welsh-Rarebit Muffins (chi di voi fosse curioso e leggesse l'inglese potrebbe aver piacere a consultare la pagina di Wikipedia relativa a questo singolare piatto gallese, il welsh rarebit, appunto, di origine settecentesca, al quale Nigellona si è moooolto liberamente ispirata per la rielaborazione di questa ricetta, apparsa originariamente in un libro americano, The Joy of Muffins. Troppo complicato? In questo caso, passate direttamente agli ingredienti e lasciate le preoccupazioni filologiche a chi voglia perderci qualche minuto).

Dicevamo...

(per Jörg e Luisa)

Welsh-Rarebit Muffins


(per 12 muffins)

225 gr. di farina autolievitante
50 gr. di farina di segale (io ho usato una normale farina integrale)
1 cucchiaino di lievito
½ cucchiaino di bicarbonato
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaino di senape in polvere
125 gr. di formaggio grattugiato (nella ricetta originale è il Cheddar; io in genere colgo l'occasione per dare un senso agli ultimi istanti di vita di pezzetti di formaggio che languono nel mio frigo; di solito opto per formaggi abbastanza saporiti: del pecorino, per esempio, 'tagliato' con un po' di caciotta di mucca o di Asiago; mai provato il parmigiano; voi sbizzarritevi)
6 cucchiai di olio (vegetale nella ricetta originale, ed è quello che uso io; se vi fa orrore anche solo l'idea, provate con dell'olio di oliva leggero)
150 gr. di yogurt intero (greco nell'originale)
125 ml. di latte intero
1 uovo
2 cucchiai di salsa Worcestershire

Preriscaldate il forno a 200°.

La procedura per i muffins è più o meno sempre la stessa.

Mettete in una ciotola capiente tutti gli ingredienti secchi.

In un bricco dosatore tutti gli ingredienti liquidi.

Versate questi ultimi nella ciotola di cui sopra, mescolate con una forchetta giusto per amalgamare (la mia amica Paolina dice che bisogna girare 7 volte, non una di meno e soprattutto non una di più), versate il composto grumoso nella teglia da muffins, eventualmente rivestita da pirottini di carta.

Fate cuocere per 20', trascorsi i quali tirate fuori velocemente la teglia, aggiungete un paio di gocce di salsa Worcestershire sul cucuzzolo di ogni muffin, rimettete sempre con velocità la teglia nel forno e aspettate altri 5'.

Non mangiateli appena sfornati (la temperatura sarà più o meno quella dei pomodorini di Fantozzi), ma non lasciateli raffreddare troppo. L'ideale è che siano ancora tiepidi (detto ciò, si riscaldano benissimo).

Anzi, l'ideale è che li mangiate insieme a qualche bella persona che fa parte della vostra vita, che ci sia entrata fin da subito in carne e ossa o sotto forma di parole su un monitor, sentendovi incredibilmente fortunati e privilegiati per aver incrociato la sua strada.

Enjoy!

sabato 10 aprile 2010

Un post su commissione 2: la super-crostata di ricotta

Nel suo commento al post sulla crostata sincretica di ricotta, Stefano Arturi ha espresso il desiderio di leggere la versione originale della torta di Ada Boni da cui la 'mia' (si fa per dire) ricetta ha preso ispirazione.

Siccome è un caro fanciullo cui vogliamo bene, lo accontentiamo immantinente, e con grande piacere!

Super-crostata di ricotta da Il talismano della felicità di Ada Boni (verbatim)

Burro g. 150
Zucchero al velo, 2 cucchiai e mezzo
Farina, 5 cucchiai colmi
Fecola di patate, 4 cucchiai
Buccia di limone
Zucchero in polvere, 5 cucchiai
Uova intiere, 3
Tuorli d'uovo, 2
Latte, un bicchiere
Ricotta, g.300
Cannella
Scorzetta di cedro ed arancia candite, 3 cucchiai
Uovo sbattuto
Zucchero vainigliato


Per la pasta frolla ci serviremo della nostra eccellente pasta frolla senz'uova. Impastate 150 g. di burro con due cucchiaiate e mezzo di zucchero al velo, e quando lo zucchero è assorbito, incorporate al burro quattro cucchiaiate colme di farina, quattro cucchiaiate di farina di patate e la raschiatura d'un limone. Unite bene tutti i vari ingredienti, fate una palla della pasta e lasciatela riposare un poco. Confezionate intanto una crema pasticciera con due cucchiaiate di zucchero in polvere, due rossi d'uovo, un cucchiaio colmo di farina e un bicchiere di latte. Dopo aver preparato la pasta e la crema bisogna preparare il composto di ricotta. Lavorate con un mestolo di legno in una terrina grammi 300 di ricotta, tre rossi d'uovo, tre cucchiaiate di zucchero in polvere e un pizzico di cannella; e quando la ricotta sarà ben sciolta, uniteci la crema pasticciera fredda, tre cucchiaiate tra cedro e scorza d'arancio canditi, che avrete tagliato in pezzettini, e tre chiare montate in neve. Amalgamate con garbo ogni cosa. Dividete la pasta frolla in due pezzi disuguali e col rullo di legno stendete il più grande allo spessore di pochi millimetri. Imburrate leggermente una teglia di venti centimetri di diametro - o meglio un cerchio da flan dello stesso diametro - e foderatela con la pasta già spianata, in modo da formare una specie di scatola. Versate in questa il composto di ricotta, e servendovi dell'altra pasta fate delle strisce come fettucce, che disporrete a reticolato sulla ricotta. Con la lama di un coltello regolarizzate intorno la crostata, doratela con un po' d'uovo sbattuto e mettetela in forno di giusto calore per mezz'ora abbondante. Quando sarà cotta accomodatela in un piatto e spolverizzatela di zucchero vainigliato.


martedì 6 aprile 2010

Di un (triste) anniversario, di colombe e solidarietà e di un semifreddo al torrone



Il post di oggi nasce da un'idea piccola ma geniale della cara Artemisia, di cui ho già parlato qui.

Un modo semplice ma concreto di sostenere, per quel che è possibile, qualcuno che proprio oggi, è ormai già un anno, ha visto la propria vita sconvolta e devastata dal terremoto in Abruzzo.

Un modo spontaneo e gaudente, a misura della sensibilità di ogni partecipante, di contribuire a un gioioso movimento di solidarietà.

L'iniziativa, rivolta a foodbloggers e non e coordinata in un blog nato per l'occasione, 99 colombe , intendeva sostenere e far conoscere un'azienda dolciaria abruzzese di fama e tradizioni antiche, la Sorelle Nurzia, da un anno a questa parte in (comprensibili) difficoltà.

La risposta, generosa e direi travolgente, è stata multiforme e varia: alcuni hanno creato poesie, foto, disegni, racconti, gioielli e fantasmagoriche colombe ritagliate nella carta; altri hanno acquistato dei prodotti della Sorelle Nurzia e li hanno utilizzati per la preparazione di una ricetta da pubblicare, tutti insieme, nel giorno di questo triste anniversario.

Io ho fatto il mio ordine circa due settimane fa e sono rimasta piacevolmente colpita dalla rapidità e dall'efficienza con cui è stato evaso ed è arrivato qui, a casa mia. So che gli ordini sono stati tanti, tantissimi, al punto da rendere necessaria la felice riassunzione di due persone che tempo fa, date le difficoltà, erano state licenziate. Non so come siano riusciti nel piccolo miracolo di far fronte a tutte le richieste, ma ci sono riusciti, e brillantemente. Un segnale di ottimismo e di grande coraggio e serietà, che rinfranca chi ogni tanto pensa gli sia toccato in sorte di vivere in uno dei periodi più bui e miseri della storia recente.

Quanto alla ricetta, ho pensato subito a un semifreddo al torrone, un altro cavallo di battaglia della mia mamma che, pur piacendomi moltissimo, chissà perché non avevo mai pensato di preparare.

Non so dove mia madre abbia preso la ricetta. Me l'ha dettata al telefono qualche sera fa, leggendola da un suo quadernino disordinatissimo e pieno di scarabocchi e appunti illeggibili (a lei per prima, tengo a precisare); ogni mio tentativo di conoscerne l'origine è stato vano.

Farsi dettare una ricetta al telefono da mia madre è un'esperienza. A volte comica, altre tragica.
È comunque e sempre una forma di espiazione, forse quella che mi è stata destinata in questa vita perché io mi purghi di certi orrendi crimini commessi in qualche esistenza precedente.

Ma tornando alla ricetta.
Solo dopo averla preparata e fotografata (e mangiata), mi sono accorta che era già stata proposta, in due varianti leggermente diverse, nel blog collegato all'iniziativa.
Ohibò, evidentemente altri hanno avuto la stessa idea. Ma non importa (spero).

Più che altro potreste pensare che un dolce del genere sia un po' fuori stagione, dato l'ingrediente principale.
Ma il torrone lo si può ordinare tranquillamente sul sito della Sorelle Nurzia, in ogni momento dell'anno.
Vi assicuro che ne vale la pena.



Semifreddo al torrone bianco della Sorelle Nurzia (da una ricetta della mamma di Duck, di origini ignote)

200 gr. di torrone bianco
2 uova, separate
4 cucchiai di zucchero
3 cucchiai di brandy
200 ml di panna

per la salsa

50 gr. di cioccolato fondente
50 ml di panna

Tagliate a pezzi il torrone (preferibilmente senza amputarvi qualche arto fondamentale; è una delle cose più dure che esistano in giro) e poi mettetelo in un robot da cucina e riducetelo in polvere. A me piace che rimangano dei pezzetti di mandorla interi, ma insomma è una questione di gusti.

Montate con la frusta i due rossi d'uovo con i 4 cucchiai di zucchero.

Unite il torrone e il brandy.

Montate la panna e aggiungetela delicatamente.

Montate a neve le chiare d'uovo e incorporatele con leggiadria e mano gentilissima.

Foderate una teglia da plumcake con la pellicola trasparente e versatevi il semifreddo.

Mettete in freezer e aspettate almeno 24 ore prima di mangiarlo, servendolo con la salsa al cioccolato (che preparerete versando sulla cioccolata a pezzetti la panna fatta riscaldare quasi fino al punto di bollore).

Tenete presente che è un semifreddo morbido, non indurisce anche dopo giorni e giorni nel freezer. Per questo motivo potreste forse preferire versarlo in un contenitore tipo Tupperware e servirlo come fosse una mousse, a cucchiaiate, in coppette o bicchierini in vetro (cosa che farò io la prossima volta).

Io l'ho preparato qualche giorno fa, dopo pranzo, un momento della giornata sempre molto silenzioso e quieto in questa casa, in cui i 3/4 della famiglia (la Spia e le due gatte) sonnecchiano beati in altre stanze.

Volevo esser sola e preparare tutto con concentrata attenzione, pensando bene a ciò che stavo facendo, al suo valore simbolico.

Ed ho pensato a quanto appagante sia dare il proprio piccolo, piccolissimo contributo ad un'impresa comune come questa, che è nata da un'idea apparentemente bizzarra e si è alimentata dell'energia solidale ed entusiasta di tutti i 'bizzarri' che se ne sono fatti portavoce e sostenitori.

Ed ho anche riflettuto su quanto poco ci voglia per dare una mano agli altri e su quanto spesso ce se ne dimentichi.

Ringrazio ancora Artemisia per avermelo ricordato e la Sorelle Nurzia per avermi fornito la materia prima di questo delizioso memento.

Enjoy!

sabato 3 aprile 2010

Del sincretismo e di una crostata di ricotta


Un mio vecchio fidanzato aveva l'abitudine di definirmi, con un tocco di divertito e compiaciuto snobismo, "un'animista sincretica".

Della mia indubbia propensione all'animismo ho già parlato in un altro post; quanto al sincretismo, quel signore alludeva alla mia spiccata tendenza a prendere dalla realtà gli elementi che in qualche modo 'parlano' alla mia sensibilità, anche se provenienti da dimensioni e territori diversi e a volte apparentemente inconciliabili, e ad associarli in nuove combinazioni che hanno senso magari (anzi, molto spesso) anche solo per me, e magari solo per un periodo della mia vita; combinazioni si spera armoniose che rispondano ad uno dei miei bisogni più sentiti, più genuini e vitali: trarre il meglio dalle mille realtà che mi trovo tra le mani ogni giorno.

La vita, però, non si piega sempre a queste operazioni combinatorie, più o meno ardite, cui spesso la sottopongo. Ci sono davvero alcune situazioni ed occasioni in cui ciò non è possibile. Credo che la mia personale idea di saggezza sia, tra le altre cose, la capacità di distinguere caso per caso, il capire quando mi è concesso uno spazio di manovra e quando invece mi viene chiesto di fare i conti con la mia impossibilità di modificare il reale e con la necessità di accettarlo per quello che è.

Per fortuna, la natura, la sorte, gli dei o chi per loro, mi hanno concesso un temperamento che si entusiasma e si compiace anche di piccoli, piccolissimi successi, e non si sente immiserito dall'applicazione di questa naturale tendenza al sincretismo anche agli ambiti più prosaici, modesti e quotidiani dell'esistenza.

Ultimamente, per esempio, sono stata scioccamente fiera di una crostata di ricotta, nata dall'elaborazione di tre diverse ricette, ma soprattutto dal desiderio di ricreare il gusto di una delle torte che amo di più e che mia madre mi faceva molto spesso per merenda quando ero piccola.

Negli ultimi anni, però, la ricetta che per anni ha dato vita ad infiniti e sublimi bocconi è stata sostituita da un'altra, altrettanto buona ma per me fatalmente meno 'suggestiva'.
Benché abbia tentato più volte di recuperare l'originale, non ci sono riuscita (la memoria di mia madre è quella che è e, data quella della figlia, la cosa non dovrebbe sorprendere affatto).

Poi, però, sono andata a prendere un tè nella fantasmagorica casa della mia amica Piera, un appartamento magico e fiabesco, labirintico e misterioso nel centro di Firenze, con una terrazza arrampicata sui tetti e una mansarda sospesa sulla città, piena di libri, gatti, fotografie e ricordi. Sono sicura che a casa di Piera entrando in un armadio si può accedere ad altri regni e di notte, per le scale, salgono e scendono benevoli folletti che la proteggono.

Nella sua cucina, con la gatta Lilly a ronfare sulle mie ginocchia, ho ascoltato con grande partecipazione il racconto (che intuisco essere solo un 'antipasto') della sua vita.

Sul tavolo di quella cucina, ad un certo punto, Piera mi ha messo di fronte una vecchia copia del ricettario della sua mamma, Il talismano della felicità di Ada Boni. Libro feticcio, libro culto di generazioni di donne italiane, libro che in alcune famiglie faceva parte della dote con cui si mandava in sposa una fanciulla, con quel bel titolo, un po' pretenzioso e un po' ingenuo, che alludeva a quotidianità serene ed operose, allietate da goduriosi ma legittimi piaceri casalinghi.
Che contrasto stridente tra il destino di questo libro, presente in tutti i tinelli e in tutte le cucine d'Italia da quasi ottant'anni, e il tono distaccato, assai poco simpatico e caloroso dell'autrice, che immagino essere stata tutto tranne una bonaria casalinga desiderosa di condividere i suoi segreti con altre 'colleghe'.

Un libro di cucina di famiglia, insomma, di quelli vecchi e marcati dal segno lasciato dal fondo di un bicchierino sporco di caffé, bevuto magari pensando a cosa fare per cena, con infilati tra le sue pagine liste della spesa e foglietti di appunti scarabocchiati di corsa per non dimenticare la variante della zia, dell'amica o della suocera, passato di madre in figlia. Forse ciò che più si avvicina alla mia personale idea di 'casa'. Non è un caso che io non ne abbia neanche uno.

Ma tenere in mano questo, che pure non è mio ma parla comunque, e a voce alta e in modo commovente e poetico, di una vita trascorsa anche in cucina, a far da mangiare a tanti figli e a tanti amici, è pur sempre un'esperienza emotiva di grande intensità e consolazione per me. E per questo ringrazio Piera, che forse intuendo il mio disagio nel custodire - anche se temporaneamente - un oggetto tanto prezioso appartenente ad altri e così poco in risonanza con la mia effettiva storia familiare, ha affettuosamente insistito perché io lo prendessi in prestito e lo sfogliassi, offrendomi il dono di vivere anche io un po' di quelle belle atmosfere.

Ecco dunque la ricetta di oggi: un misto della Super crostata di ricotta di Ada Boni, di una torta, sempre di ricotta ma al cioccolato di Tessa Kiros (di cui ho utilizzato anche le dosi per la pasta frolla), e della ricetta 'moderna' e 'spuria' della mia mamma.

Un tentativo quasi filosofico, appunto, di ricreare, da tutte queste suggestioni, una delle esperienze gastronomiche più appaganti della mia infanzia.


Crostata di ricotta (sincretica) di Ada Boni, Tessa Kiros e della mamma smemorata di Duck

pasta frolla:

250 gr. di farina
125 gr. di burro
125 gr. di zucchero
1 uovo intero + 1 tuorlo

per la crema:

300 gr. di ricotta
3 uova, separate
3 cucchiai di zucchero
cannella
scorza di un'arancia
100 gr. di cioccolato fondente, tagliato a pezzi (per me non troppo piccoli, grazie)

Per la pasta frolla, potete seguire un metodo assai poco ortodosso ma a mio parere ottimo e sperimentato (ne parla, ad esempio, anche l'ottimo Stefano Arturi nel suo English Puddings, di cui ho parlato qui).

Preparatela nel robot da cucina, usando burro tagliato a dadini e freddissimo (tenetelo in freezer per circa 15'): lavoratelo rapidamente, usando la funzione pulse, insieme alla farina e allo zucchero, in modo da ottenere qualcosa di simile alla sabbia umida.

Aggiungete poi l'uovo intero e il tuorlo e, sempre usando la funzione pulse, aspettate che il composto arrivi quasi al punto di creare un'unica palla. A quel punto tirate fuori l'impasto, compattatelo senza strapazzarlo troppo, schiacciatelo e avvolgetelo nella pellicola.
Lasciatelo riposare in frigo per una mezz'oretta.

Accendete il forno a 180° e stendete la frolla nella tortiera (per me un'impresa epica; sono una frana assoluta in questo e lo si nota dal bordo sfrangiato - che pare mangiato dai topi - della mia crostata).

Preparate la crema. Lavorate con la frusta i tre rossi con i tre cucchiai di zucchero, aggiungete la ricotta, la cannella, la buccia di arancia e la cioccolata. Infine le chiare montate a neve.

Versate la crema nel guscio di frolla (forse si può cospargere leggermente quest'ultimo di pan grattato per assorbire un po' l'umido della crema? La prossima volta ci provo); dedicatevi poi amabilmente alla creazione del motivo grigliato con gli avanzi della pasta. Io, per evitare di avere una crisi di pianto, chiamo in mio soccorso la Spia (quella di fare i cordoncini di pasta è un'altra operazione capace di ridurmi in lacrime per la frustrazione e il nervoso; non so perché).

Mettete in forno e cuocete per circa 35'-40'.

Potete servire la crostata dopo averla cosparsa di zucchero a velo (la quantità di zucchero nella crema è in effetti piuttosto misera; tenete presente che nella ricetta originale della Boni, insieme alla crema di ricotta, è prevista anche una bella dose di crema pasticcera), ma io la trovo perfetta anche così.

Mangiate, preferibilmente per merenda, con un bicchiere di latte freddo e ascoltando il disco di Walt Disney di Alice nel paese delle meraviglie.

Oppure, come ho fatto io qualche giorno fa, per colazione, il giorno dopo.

Ancora più buona.

Ancora più consolatoria e sincretica.

Enjoy!


sabato 27 marzo 2010

Della primavera, della pigrizia e di una vellutata di spinaci


La sera è raro che abbia voglia di cucinare.

Non so, di pomeriggio mi prende una pigrizia tutta particolare che mi fa spesso trascorrere le ore in modo poco produttivo e mi fa arrivare all'ora di cena con la sgradevole e strisciante sensazione di aver concluso poco o nulla e la certezza, assolutamente non strisciante ma granitica, di non voler combinare granché neanche per procacciarmi del cibo.

Per questo, spesso, preparare la cena è compito della Spia, che ciò significhi cucinare o semplicemente riscaldare qualcosa di già pronto preparato in precedenza.

In primavera la situazione degenera.

La natura si risveglia, gli uccelli cinguettano ubriachi fino al tramonto, le piante sul terrazzo sono tutto un tripudio di gemme e teneri germogli, le gatte Linda e Matilde saltano, corrono e chiacchierano più del consueto in preda a misteriosa frenesia ed io, invece, vengo presa da enorme sonnolenza. Vado in letargo quando tutto e tutti si destano dal lungo sonno invernale.

È sempre stato così.

Ricordo che a scuola i professori delle ultime ore si disperavano perché se non dovevo essere interrogata e non avevo dunque seri incentivi a rimanere sveglia, semplicemente mi accasciavo sul banco, occultata dalla mole massiccia del ragazzo seduto davanti a me, e rimanevo anche delle ore in stato di dormiveglia, cullata dal ronzio delle api in giardino e dal profumo delle rose che il bidello Artemio curava con il garbo e la passione che avrebbe avuto, al suo posto, una pallida e delicata gentildonna inglese del secolo scorso.

Ci sono delle sere, però, nelle quali, per qualche strana congiuntura astrale (e non sempre si tratta di quella stessa congiuntura astrale che fa sì che non ci sia nessun avanzo da riscaldare), spignatto ugualmente e senza lamentarmene, soprattutto quando si tratta di fare davvero quattro fesserie, come nel caso di questa vellutata, che praticamente si cucina da sola.

Uno di quei piatti che quando si è in letargo è bene conoscere.

Velouté d'épinards au cumin

ovvero sia, per la serie 'parla come magni'

Vellutata di spinaci e cumino da La cuisine de Julie di Julie Andrieu (con qualche modifica)

per 4 persone

1 cucchiaio di olio extravergine di oliva
1 cucchiaino di cumino in grani
1 spicchio d'aglio
350 gr. di spinaci surgelati (ovviamente sarebbe bello poterne usare di freschi, nel caso si possa; circa la quantità, però, non so aiutarvi; io farei almeno due bei mazzetti)
70 cl di brodo (vegetale o di pollo)
panna fresca o yogurt
parmigiano

Se siete di quelle persone che al solo pensiero di usare un brodo granulare si coprono di bolle e vengono prese da indignazione, non leggete ciò che sto per scrivere, e cioè che io lo uso quasi sempre, perché è rarissimo che abbia in casa tutti gli ingredienti per preparare un brodo vero decente.

Qualcuno sicuramente potrà trovare pretestuoso il mio giustificarmi affermando che nella mia cucina raramente si registra la compresenza di cipolle, carote e sedano, ma tant'è, è la verità, e io non la nascondo.

Di qualunque brodo vi serviate, comunque, portatelo a bollore in un pentolino e tenetelo in caldo da parte.

Fate scaldare il cucchiaio di olio d'oliva, soffriggetevi i grani di cumino per un paio di minuti a fuoco medio, aggiungete lo spicchio d'aglio (intero se poi volete eliminarlo, passato allo spremiaglio in caso contrario) e gli spinaci, lasciando cuocere per 5'.

Versate quindi il brodo, portate a bollore, mettete un coperchio e lasciate sobbollire dolcemente per circa 15'.

A questo punto potete spegnere, ridurre la minestra in crema usando il frullatore a immersione e versare nei piatti.

Aggiungete, a discrezione, qualche cucchiaiata di yogurt o di panna fresca e, se volete, anche delle scaglie di parmigiano.

Se siete come me, dopo aver consumato questa 'entrée raffinée' - per dirla con Julie Andrieu - trascinatevi anche voi verso il divano più vicino, tirate fuori il vostro lavoro a maglia e rimanete imbambolate per almeno un quarto d'ora, con i ferri in grembo e una mano a giocare con le orecchie del vostro compagno.

Indi, rassicurate circa la vostra sorte (il vostro compagno è lì, e di buon grado vi lascia giocare con i lobi delle sue orecchie) e consapevoli di esservi offerte e avere offerto una cena tra le più salutari e delicate che esistano, trascorrete in beata sonnolenza la serata.

Enjoy!


giovedì 18 marzo 2010

99 colombe

Una breve nota per avvertirvi che la vulcanica e generosa Artemisia sta coinvolgendo molti foodbloggers italiani in un'iniziativa lodevole quant'altre mai: dare una mano ad una storica azienda dolciaria abbruzzese, la Sorelle Nurzia, famosa soprattutto per i suoi torroni - di cui da bambina ammiravo l'incarto, con le due ninfe danzanti stile Art-Déco -, ma non solo.

Allo scopo è nato un blog, che avrà vita breve ma si spera assai intensa, 99 colombe: uno spazio aperto a quanti vorranno farsi coinvolgere, per una volta tanto, in una cosa bella, buona e giusta.

Dati i tempi che corrono, un'occasione da non perdere.

domenica 14 marzo 2010

Cani neri di Ian McEwan

Ho letto diverse recensioni di questo romanzo su aNobii e se non ricordo male ve ne erano almeno un paio il cui senso era più o meno: dicono che questo sia un grande romanzo, ma evidentemente deve essermi sfuggita la ragione di questa sua grandezza.

E pensavo al fatto che, secondo me, dei libri capiamo tutto quello che, in quel momento, ci serve capire, tutto quello che di essi può tradursi, più o meno felicemente, nella nostra vita vissuta.
Questa è la cosa importante, e basta: che ciò che leggiamo diventi davvero parte del tessuto della nostra vita. Il resto, tutto ciò che non capiamo, che non cogliamo, che non sentiamo vibrare dentro di noi, non è importante, non ci è 'utile'. Magari lo sarà più in là, quando altre esperienze avranno aperto in noi altri occhi e altre orecchie per vedere e sentire cose che adesso non vediamo e non sentiamo. Magari no. E va benissimo così.


Quanto a me, ogni nuovo libro di McEwan che incrocia la mia strada è un incontro con quello che, ora posso ben dirlo dopo aver letto diversi suoi romanzi, è sicuramente uno dei miei scrittori di riferimento e insieme un'occasione, ogni volta differente ma ugualmente significativa e importante e preziosa, di riflessioni su temi assai vicini alla mia sensibilità.

Il mio amico Alberto mi chiedeva se quel giorno in cui ho sfilato dallo scaffale della biblioteca questo smilzo volume dell'Einaudi sapessi già qualcosa della storia o se invece mi sia imbattuta in Cani neri esclusivamente in base a quella sincronicità* che spesso invoco quando cerco di spiegare certi incontri misteriosamente 'tempestivi' con alcuni libri.

Non riesco a convincermi che sia stato un puro caso che questo romanzo di cui, incredibile a dirsi, non avevo mai sentito parlare, mi sia quasi caduto in grembo proprio in un momento in cui mi interrogavo, non senza strazio e intensità, su molte questioni in esso affrontate e fondamentali nella mia esistenza, non ultima le differenze profonde tra me e colui cui ora mi accompagno.

In molte pagine ho avuto la straniante sensazione che McEwan avesse scritto questa storia pensando proprio a noi, alle nostre spesso inconciliabili filosofie di vita, alla fatica che facciamo per raggiungerci superando i baratri che, in alcune occasioni, ci si aprono sotto i piedi e ci troviamo, io da una parte lui dall'altra, a guardare alla stessa realtà da prospettive diametralmente opposte, giungendo dunque a conclusioni diversissime e patendo il senso di solitudine e di impotenza che ci assale quando, con malinconia, ci rendiamo conto che l'altro, per quanti sforzi faccia e per quanto desideri vedere il mondo con i nostri stessi occhi, non può farlo.

È evidente quanto i due protagonisti di questa storia siano dei personaggi di gran lunga più estremi e interessanti e 'pittoreschi' di quanto possiamo esserlo (anche nelle nostre giornate peggiori; o migliori, dipende dai punti di vista) io e il mio compagno.
June e Bernard si innamorano durante la seconda guerra mondiale e scoprono nello stesso momento l'esaltazione dell'amore e della passione politica condivisa per il comunismo.
Durante la loro luna di miele in Francia, tra passeggiate nelle campagne e soste in piccole locande, i due giovani discutono per ore infervorati di politica e di idee, progettano entusiasti e pieni di speranza un futuro comune, fatto di impegno sociale, operosità, cambiamenti, eccitanti prospettive.

Ma durante una delle loro lunghe escursioni accade qualcosa che cambia radicalmente il loro destino e scava una distanza che con gli anni si farà sempre più profonda e incolmabile e li porterà, infine, a decidere di vivere separati, ognuno abbracciando una visione della vita diametralmente opposta e inconciliabile con quella dell'altro.

In quella mattina accecata dal sole, June, per la prima volta in vita sua, accede a quella dimensione spirituale dell'esistenza cui è sempre stata cieca e insensibile: la sua è un'esperienza intensa, traumatica e terrorizzante, e vissuta in piena solitudine, dunque in definitiva incomunicabile, come spesso è ogni incontro tra l'umano e il divino (qualunque cosa questo termine abusato e vago possa significare per ognuno di noi), che demolisce ogni legame con il passato e con quelle che, ai suoi occhi, sono diventate idee limitate e false della realtà.
Bernard, che è rimasto escluso da quell'esperienza della quale, dunque, non ha vissuto la violenza e la potenza trasformatrice, interpreta questa profonda metamorfosi della donna che ama come un tradimento personale e una delusione profonda.

Il baratro che si scava tra i due è tale da costringerli a separarsi fisicamente: June rimarrà in quella terra francese dove ha vissuto la sua personale esperienza di illuminazione e vivrà una vita di raccoglimento e meditazione; Bernard tornerà in Inghilterra e si dedicherà attivamente e generosamente alla politica. Per i successivi cinquant'anni, i due continueranno a combattere una personalissima guerra senza quartiere, nel disperato e aspro tentativo di conquistare l'altro alle proprie ragioni e alle proprie convinzioni, senza riuscirci mai. Pur continuando ad amarsi e a considerarsi, in fondo, interlocutori privilegiati, quest'uomo e questa donna non saranno più capaci, in tutta la loro lunga vita, e nonostante la presenza dei figli, di vivere insieme, ma neanche di smettere di amarsi e di essere ossessionati l'uno dall'altra.

Il contrasto quasi epico tra queste due opposte visioni della vita è, però, solo uno dei temi portanti del romanzo, ed ogni volta è per me fonte di ammirata sorpresa accorgermi di quanto un autore come McEwan (o come Roth, a mio avviso) riesca, in poche pagine, a costruire non solo una storia perfettamente autonoma e credibile e coinvolgente, ma anche a porgere al lettore una quantità di stimoli incredibile, tutti di grande spessore e, quel che ha del miracoloso, tutti perfettamente inseriti nel racconto.

C'è infatti un altro, per me interessantissimo, tema centrale nel romanzo, la riflessione affidata alla voce narrante, quella di Jeremy, che di June e Bernard ha sposato la figlia, trovando in questa vecchia coppia di estremisti quei genitori che un incidente automobilistico gli ha sottratto all'età di otto anni.

Molte sono le pagine in cui questo personaggio si fa portavoce di riflessioni a tratti malinconiche, a tratti invece di obiettiva e spartana lucidità, su quello che significa crescere senza il sostegno e la protezione che due genitori dovrebbero garantire ai loro figli, su quanto questa mancanza, quest'assenza incida, in modi spesso inaspettati e apparentemente irrelati, non solo sul proprio modo di vivere i rapporti, ma anche sulla visione della vita che durante il proprio percorso ci si costruisce e su come non sia impossibile, benché di sicuro sia doloroso e difficile, curare se stessi prendendosi amorevolmente cura dei propri figli, per sanare, amandoli, le ferite che da bambini abbiamo patito.

Come già in Bambini nel tempo, dalla penna di McEwan fluiscono pensieri e immagini che si sente essere nati da un autentico, sincero sentimento di compassione e di comprensione per il mondo in fondo misterioso e assai frainteso dell'infanzia che questo scrittore approccia sempre con grande garbo, con vero e raro rispetto, senza nessuno smielato sentimentalismo di maniera.


*(da Wikipedia:

La sincronicità è un termine introdotto da Carl Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. La sincronicità è relativa quindi alle 'coincidenze significative'.)



Ian McEwan, Cani neri, Einaudi 1993, traduzione di Susanna Basso.

martedì 9 marzo 2010

Un pensiero sulle donne, il giorno dopo

Ieri, mi dicono, era la festa della donna.

Benché da giovane abbia religiosamente e scrupolosamente partecipato ad ogni manifestazione indetta l'8 marzo, sfilando a braccetto con altre ragazze per le strade di Roma, cantando gli slogan che dovevo cantare e urlando quello che dovevo urlare, già allora mi sentivo a disagio nel celebrare una simile festa.

Non so, ho sempre sentito che in questo modo si trattavano le donne alla stregua dei papà, delle mamme, dei nonni, dei fidanzati, dei gatti cui si dedica un giorno all'anno per poi dimenticarsene tutti gli altri.

Queste donne viste un po' come una categoria a parte, una specie in via di estinzione, per la salvezza della quale si firmano appelli, si organizzano cortei e sit-in, come se invece non fossero semplicemente uno dei modi di stare al mondo, non il migliore, non il peggiore, solo uno degli infiniti modi, che, anche solo per questo motivo, come tutti gli altri, chiede riconoscimento e rispetto e comprensione.

Mi assomigliano molto di più, e alla mia sensibilità dicono molto molto di più di tanti slogan e frasi fatte, queste righe scritte da Gioconda Belli, scoperte grazie ad una donna, Elena, che qui ringrazio.

Le condivido con voi, amiche e amici!


Non mi pento di niente di Gioconda Belli

Dalla donna che sono, mi succede a volte di osservare,
nelle altre, la donna che potevo essere;
donne garbate esempio di virtù, laboriose brave mogli,
come mia madre avrebbe voluto.
Non so perchè tutta la vita ho trascorso a ribellarmi a loro.
Odio le loro minacce sul mio corpo
la colpa che le loro vite impeccabili,
per strano maleficio mi ispirano;
mi ribello contro le loro buone azioni,
contro i pianti notturni sotto il cuscino di nascosto dal marito,
contro la vergogna della nudità sotto la biancheria intima, stirata e inamidata.
Queste donne, tuttavia, mi guardano dal fondo dei loro specchi;
alzano un dito accusatore
e, a volte, cedo al loro sguardo di biasimo
e vorrei guadagnarmi il consenso universale,
essere "la brava bambina", "la donna per bene", la gioconda irreprensibile,
prendere dieci in condotta
dal partito, dallo Stato, dagli amici, dalla famiglia, dai figli
e da tutti gli esseri che popolano abbondantemente questo mondo.
In questa contraddizione inevitabile tra quel che doveva essere e quel che è,
ho combattuto numerose battaglie mortali,
battaglie inutili, loro contro di me
- loro contro di me che sono me stessa -
con la “psiche dolorante”, scarmigliata,
trasgredendo progetti ancestrali, lacero le donne che vivono in me
che, fin dall'infanzia, mi guardano torvo
perchè non riesco nello stampo perfetto dei loro sogni,
perchè oso essere quella folle, inattendibile, tenera e vulnerabile
che si innamora come una triste puttana
di cause giuste, di uomini belli e di parole giocose
perchè, adulta, ho osato vivere l'infanzia proibita
e ho fatto l'amore sulle scrivanie nelle ore d'ufficio,
e ho rotto vincoli inviolabili e ho osato godere
del corpo sano e sinuoso di cui i geni di tutti i miei avi mi hanno dotata.
Non incolpo nessuno. Anzi li ringrazio dei doni.
Non mi pento di niente, come disse Edith Piaf:
Ma nei pozzi scuri in cui sprofondo
al mattino, appena apro gli occhi,
sento le lacrime che premono, nonostante la felicità che ho finalmente conquistato,
rompendo cappe e strati di roccia terziaria e quaternaria,
vedo le altre donne che sono in me, sedute nel vestibolo
che mi guardano con occhi dolenti e mi sento in colpa per la mia felicità.
Assurde brave bambine mi circondano e danzano musiche infantili
contro di me;
contro questa donna fatta, piena,
la donna dal seno sodo e i fianchi larghi,
che, per mia madre e contro di lei,
mi piace essere.


Gioconda Belli

giovedì 4 marzo 2010

Dell'abbandonarsi alla corrente (più semplicemente, di una torta)


Ci sono momenti in cui la vita scorre lentamente, serenamente, e ci si abbandona fiduciosi al suo flusso soave, lasciandosi dolcemente trasportare dalla sua corrente. Si sa dove si sta andando, nella maggior parte dei casi, quanto meno se ne ha un'idea, seppur vaga: verso il mare. Ma non si sa quando ci si arriverà e al limite neanche come. Non importa. Si sa che prima o poi si arriverà e in questa fiduciosa certezza ci si culla, ci si prende il tempo di lasciar vagare lo sguardo lungo l'argine, si notano gli alberi, gli uccelli, le nuvole che si rispecchiano nell'acqua, si lascia pigramente penzolare una mano a lambire la corrente, sognanti, ci si compiace della bellezza del mondo, se ne gode, immemori e beati.

Ce ne sono altri in cui invece non ci si concede il delizioso lusso di farsi pigramente trasportare: non è possibile, non ce lo si può permettere. Bisogna essere fattivi, operosi, si è indaffarati, sulla propria barchetta, ci si dà un gran da fare coi remi, con in mente ben precisa la meta da raggiungere, concentrati sullo sforzo di arrivare senza sfracellarsi sugli scogli o precipitare giù da una cascata. Si guarda appena il paesaggio, la fronte aggrottata e gli occhi socchiusi a scrutare l'orizzonte, per accertarsi si stia andando nella giusta direzione; lo sguardo ogni tanto scende a controllare il movimento delle braccia che si affaticano sui remi. Si è un monumento di determinazione e forza.

Poi ce ne sono altri ancora, e sfortunatamente per molti sono la maggior parte, in cui si è sulla barca, si fa fatica, si arranca, non si sa se si arriverà mai: le braccia dolgono, il sole è impietoso, la fatica ottunde e snerva, ma non ci si può fermare. Si è persa l'idea della propria direzione, ma si va avanti, sentendo solo il peso del procedere, la stanchezza che si accumula nelle membra, sapendo che ogni giorno sarà come quello appena trascorso: una lunga, impietosa fatica che a tratti appare senza scopo e senza senso.

Infine, ci sono i giorni che sto vivendo io adesso.
Non so se sono su una barca. Se questa barca c'è, è di sicuro una barca fragilissima, dove è difficile mantenersi in equilibrio senza cadere in acqua.
La corrente è impetuosa e mi trascina senza che io riesca ad oppormi. Ovunque massi che affiorano, gorghi, salti vertiginosi.
Per lunghi tratti mi accorgo di trovarmi sott'acqua solo quando sento che i polmoni cominciano a esplodermi. Allora emergo e prendo fiato e di nuovo vengo presa e portata via dalla corrente. Non ho il tempo né il modo di capire dove sono: il paesaggio circostante è una macchia indistinta in fuga, non riesco a scorgerne la bellezza, i lineamenti, niente. So che c'è, so che è lì, ma non posso vederlo.

E' terribile sentirsi trascinare dalla corrente, soprattutto quando si cerca di fare resistenza. Comunque vince lei, è troppo forte.
Ma all'inizio l'istinto è quello di opporlesi, cercando con tutte le proprie forze di non farsi portare via, a dispetto del panico che prende quando si sente di perdere il controllo, dei crampi che paralizzano, dell'acqua che si beve perché la paura fa perdere il ritmo del respiro.

Poi arriva il momento in cui si capisce che forse la cosa migliore è farsi trascinare, abbandonarsi alla corrente e non fare resistenza. Si andrà senz'altro contro qualche masso, ed ogni tanto, fatalmente, ci si troverà con la testa sott'acqua. Si spera di non rompersi la testa o qualche osso fondamentale e ci si affida. Alla misteriosa, ambigua clemenza della natura e della vita, alla superiore saggezza di cui dà prova quella parte di sé che capisce e sa molto più di quanto sia possibile immaginare.
Prima o poi, lo si sa, si arriverà al mare. Quando e in che stato non è dato saperlo. Ma si confida nel fatto che ci si arriverà.
È già abbastanza, è qualcosa. E comunque è tutto quello cui ci si può aggrappare e non si ha scelta.

Io sono adesso in questa situazione.
La vita mi sta trascinando via, verso il mare ed io, dopo un primo momento di resistenza, dopo essermi sfiancata nel tentativo di oppormi, ora mi sono abbandonata.
Ci sono ancora momenti in cui mi prende la paura, il panico. Perdere il controllo è difficile; richiede coraggio, richiede fiducia, richiede umiltà.


Quando si è impegnati, come lo sono io, adesso, in un'impresa simile, molte cose, anche quelle molto amate e da sempre fonte di conforto e di rapimento, perdono di interesse e sapore.
Il cibo, la sua preparazione, la sua condivisione, diventa qualcosa che si fa automaticamente, senza consapevolezza, senza piacere, perché bisogna nutrirsi.
A volte - cosa difficile a credersi, inaudita - si fa addirittura peso, fatica insostenibile.

Poi, un giorno, inopinatamente, viene voglia di preparare una torta.
Non per sé.
L'ultimo dei pensieri, ora, è mangiare una torta.
Ma per gli altri.
Viene voglia di far qualcosa per gli altri, per dirgli che siamo grati della loro presenza, che ci si fa forza del loro esserci, del loro pensarci.
E allora ci si mette il grembiule, si tira fuori la bilancia, si dispongono gli ingredienti sul tavolo, si prepara la teglia.

Una torta facile che richieda davvero poco sforzo, ma restituisca comunque il senso della normalità, di una quotidianità che ora è stravolta e chissà per quanto ancora lo sarà.
Una torta da preparare come si celebra un rito: con concentrazione, con consapevolezza, con intenzione.
Una torta semplice che ci ricordi, mentre la facciamo, che non è vero che siamo completamente nel delirio, perché appunto, siamo ancora in grado di preparare una torta.
Una torta che porti con sé il ricordo struggente di un tempo più felice, e la speranza di tempi migliori a venire.
Una torta che ci rammenti, quando la vediamo divorata con gusto e con riconoscenza dagli amici, e sebbene noi non si riesca proprio a trovare la voglia di mangiarla, una cosa piccola e banale, ma vera: che la vita riserva ancora molto, anche a chi si trovi a vivere nella sua ombra.
Per il momento.


Boiled cake da Real Life Cooking di Trish Deseine

225 ml di acqua
110 gr. di burro
200 gr. di zucchero di canna (io ho usato in parte del Mascobado e in parte del Golden Caster Sugar, entrambi del commercio equo e solidale)
300 gr. di frutta secca (io ho usato 3 fichi secchi, dell'uvetta sultanina, dei mirtilli rossi e del ribes nero disidratati)
2 cucchiai di spezie miste (cannella, noce moscata, zenzero e chiodi di garofano o qualunque altra combinazione di vostro gradimento)
230 gr. di farina
1 cucchiaino di lievito per dolci
1 uovo, sbattuto

Preriscaldate il forno a 180°.
Imburrate e infarinate una teglia da plumcake.
In un pentolino mettete tutti gli ingredienti tranne la farina, il lievito e l'uovo e portare a bollore. Lasciate sobollire per 20', poi spegnete il fuoco e lasciate raffreddare un po'.
Aggiungete la farina e l'uovo, amalgamate bene.
Cuocete per circa 1 ora e mezzo (fate la consueta prova dello stecchino).

Se in questo periodo sarò un po' assente, sapete dove sono.
In mezzo al fiume, a cercare di arrivare al mare.
Spero di arrivarci presto.

Enjoy!






venerdì 26 febbraio 2010

In nome della madre di Erri De Luca

Scrivere qualcosa su un libro come questo è davvero un'impresa.
Non solo perché è un libro compreso in sé e che, a mio avviso, nella sua 'perfezione' non chiede, non cerca, non ha bisogno di altro, men che meno della mia opinione.

Ma anche perché in queste poche pagine quel che si legge è un canto, che unisce in sé il mistero dell'amore divino per l'uomo e dell'accettazione umile e fiduciosa, da parte di quest'ultimo, del peso enorme e a tratti insostenibile che questo amore inevitabilmente finisce per poggiare sulle fragili spalle di un essere umano.

La giovanissima Miriàm è visitata da un angelo che le porta il più inaudito degli annunci. Dio l'ha scelta, tra tutte le donne, per farne la madre del proprio figlio. Miriàm non si chiede perché proprio lei. Nella sua docile forza, Miriàm accetta, china la testa, si arrende al mistero del sacro e al volere divino, si fa strumento, canale, contenitore.

E lo fa con un incredibile, commovente e sublime coraggio, lo fa con quella grazia che De Luca definisce, attraverso le parole dello sposo di Miriàm, Iosef, come "la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero senza neanche spettinarsi".

Quel Iosef che, dopo un primo comprensibile momento di smarrimento, di sospetto e dubbio, uomo giusto e retto si abbandona con fiducia all'amore per Dio e di Dio e a quello del tutto umano che lo unisce alla sua giovane sposa, perché, dice, "Siamo acque correnti chiamate dal mare a riempirlo, senza possibilità di riuscita, però in obbedienza".

De Luca è poeta, prima che scrittore, e poeta capace di cantare con vivida e sobria commozione la bellezza umile del quotidiano, spesso appannata dalla consuetudine, ma che un occhio attento, insieme compassionevole e lucido, basta a riscoprire (e da questo amore per il quotidiano nascono le straordinarie immagini tratte dalla vita semplice, nuda e cruda, l'attenzione ai dettagli che rendono una storia viva, come se si svolgesse in tempo reale sotto gli occhi del lettore, coinvolgendolo).

A mio parere, De Luca è anche uno dei pochi veri 'saggi' che esistono in Italia al giorno d'oggi.
Un uomo che offre le sue riflessioni con convinzione ma anche senza alcuna traccia di sicumera, con intensità ma senza essere fazioso, che sa indignarsi per le cause giuste e compatire realmente chi merita la compassione degli uomini, che sembra saper sempre distinguere l'essenziale dal superfluo, il luccichio falso e pacchiano dallo splendore vero della realtà.
Un uomo le cui parole non sono mai né superflue, né superficiali, né pronunciate con leggerezza, e hanno sempre e comunque il suono semplice, seducente e terribile della verità.

Per questo, pur essendo uomo, De Luca riesce a cantare con grande semplicità, intensità e rispettosa passione l'amore che come uomo non ha potuto mai provare e non proverà mai, ma che, pure, sembra conoscere bene: quello materno.
Questo libro, infatti, oltre ad una poetica meditazione sull'amore di Dio per l'uomo e dell'uomo per Dio, è anche la storia dell'ennesima, commovente incarnazione, antichissima ed eterna, di quell'amore umano che però ha del divino, quello che unisce una donna al proprio figlio.

La lunga e silenziosa preghiera che Miriàm rivolge a Dio nella notte in cui Ieshu viene al mondo è tra le cose più commoventi e belle che io abbia mai letto.


Erri De Luca, In nome della madre, Feltrinelli 2006.

domenica 21 febbraio 2010

Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi

La ragione per cui ho scelto di leggere questo romanzo è di natura squisitamente affettiva e riguarda mio padre, che ha sempre chiamato me e le altre due sue figlie "le sorelle Materassi" e che da quando ne ho consapevolezza lo ha sempre citato come IL romanzo palloso per antonomasia.

Ho scoperto solo al momento in cui ho iniziato a leggerlo che era ambientato a Firenze, la città in cui non sono nata ma in cui vivo ora e questa cosa me lo ha fatto amare subito un po'. Credo che si costruisca un legame affettuoso con un libro i cui personaggi si muovono in quello stesso paesaggio in cui si muove - anche se anni dopo, anche se in modo diverso - chi lo legge. Ci si sente meno spettatori e più partecipi.

Ora, io non ho trovato affatto palloso questo libro, al contrario.
E non mi sento di essere d'accordo con una recensione poco lusinghiera letta di recente, la cui autrice liquidava sommariamente le due protagoniste definendole 'due tonte'.
In realtà, chiunque abbia letto le Sorelle Materassi di primo acchito potrebbe difficilmente dissentire da un simile giudizio, che però, ad essere poco poco sinceri e un po' meno superficiali, appare senz'altro troppo poco pietoso e soprattutto poco articolato.

La storia di Teresa e Carolina Materassi è senz'altro una storia patetica e in certe pagine anche grottesca. Quando le si incontra, all'inizio del romanzo, sono due zitelle cinquantenni che con il loro mestiere di ricamatrici sono riuscite a risanare una situazione finanziaria catastrofica ereditata dal padre e che per farlo si sono annullate in una vita fatta esclusivamente di lavoro, sacrifici e rinunce.

Insieme a loro vive la fedelissima domestica Niobe, dal passato non proprio integerrimo ma solo per candore e per una genuina e innocente natura sensuale, e Giselda, la più bella e la più giovane delle Materassi che, a differenza di Teresa e Carolina, non si è sacrificata nel tentativo di recuperare i possessi e la dignità perduta della famiglia ma anzi, ha contribuito in parte alla sua disgrazia, ignorandone il divieto di sposare un uomo bello e egoista che dopo poco l'ha abbandonata, costringendola a fare un triste ed amaro ritorno alla casa paterna.

Tra le tre sorelle esistono violente correnti di rancore e invidia, gelosia e odio: Giselda odia Teresa e Carolina per la loro vita integerrima e la forza e l'abilità dimostrata nel recuperare una posizione sociale che sembrava ormai impossibile da recuperare, tutte cose che le due sorelle non si premurano di sbatterle in faccia ogni volta che possono; Carolina e Teresa odiano Giselda perché, essendosi imposte il sacrificio di ignorare il lato piacevole e sensuale della vita, non le perdonano di non aver fatto altrettanto e invidiano la sua conoscenza, anche se breve e pagata a caro prezzo, del piacere sensuale e dell'amore.

Privandosi di una realizzazione sentimentale e personale, Teresa e Carolina sono, all'inizio della storia, finalmente agiate, anche se incapaci di godersi il frutto del loro lavoro, hanno conquistato una nomea professionale d'eccellenza e vantano una fama di moralità impeccabile che le risarcisce di un passato di vergogna in cui si sono sentite in difetto per essere le figlie di uno scialacquatore incosciente.

È in questa situazione di benessere e di tranquillità che arriva, come un fulmine a ciel sereno, la morte di una quarta sorella, che ha vissuto in una città lontana una vita grigia e ai limiti della miseria, ma che per qualche strano scherzo del destino ha messo al mondo un fanciullo che per fascino, bellezza ed innata eleganza pare essere il figlio stesso degli dèi.

E come un dio, la cui apparizione acceca il misero mortale che non può tollerarne lo splendore, Remo appare nella vita di Teresa e Carolina e la stravolge.
Le due zitelle, ne sono, in fondo, le salvatrici: invece di abbandonarlo ad un destino probabilmente magro e anonimo, prendendolo sotto la loro ala protettrice e subito morbosa, gli offrono una vita splendida, un amore incondizionato e oblativo, un'ammirazione sconfinata e ai limiti dell'idiozia, un'accettazione totale e assoluta anche e soprattutto dei suoi difetti, del suo egoismo e della sua assenza di considerazione per niente e per nessuno che non sia lui o il suo amico Palle.

Remo, infatti, si concede (con fredda e paziente rassegnazione la maggior parte delle volte, con grazia in altre rare occasioni) all'adorazione delle sue benefattrici, pur restando sempre e comunque compreso in uno spazio vitale solo suo. Come spesso accade a chi è nato bello e sa di esserlo e sa bene quanto possa la sua bellezza sugli altri, egli agisce da catalizzatore di tutto il vissuto emotivo represso di queste due donne, ma pretende in cambio la soddisfazione immediata e incondizionata di ogni suo più piccolo capriccio venale.

Anche Niobe è vittima di questo potente incantesimo, mentre Giselda, che sulla sua pelle ha ancora il marchio dolorante che le ha lasciato l'amore per un uomo come Remo, è l'unico personaggio di tutto il romanzo a rimanere immune al suo fascino ipnotico.

Fin dalle prime pagine si sa che questo Adone amorale e sempre olimpico nella sua serenità e indifferenza degli altri porterà alla rovina queste due zitelle il cui unico ma imperdonabile e fatale errore è quello di esserglisi aggrappate come alla loro ultima occasione di speranza, bellezza, gioventù e amore, di aver proiettato su di lui ogni loro residuo sogno di passione, eccitazione, libertà e piacere.
Il loro ritratto è dunque un capolavoro finissimo di sfumature e complessità: sono al contempo due personaggi ridicoli e intollerabili nella loro cecità di fronte all'evidente, egoista meschinità del nipote e sublimi nella loro capacità di amare incondizionatamente chi è tanto poco degno di un amore tanto grande.

La dinamica psicologica che unisce i componenti di questo bizzarro terzetto è sottile e profonda e ahimé quanto vera e reale e crudele. Ho trovato notevole, quasi paranormale, l'acutezza con cui l'autore è riuscito a descriverla, a sviscerarla, a darle vita in un romanzo che, anche solo per questo, merita, a mio avviso, di essere letto.

Infine, ho la netta impressione che Palazzeschi sia stato un uomo cresciuto dalle donne o che le donne, per qualche suo motivo, deve averle conosciute o quanto meno studiate assai.
Forse per amore, forse per rancore, forse per tutte e due le cose.




martedì 16 febbraio 2010

Meditazione in forma di gioco davanti a una libreria



La cara Wenny mi ha chiesto di partecipare ad un altro meme che attualmente circola nella blogosfera. Trattandosi di libri, mi è stato praticamente impossibile rifiutare (e tu lo sapevi, vero diabolica Wenny?).
Anzi, a conti fatti, la devo ringraziare, e molto, per avermi coinvolta: grazie a lei, mi sono seduta sul divano di fianco alla mia libreria e per un po' mi sono immersa in una piacevole meditazione.

Ecco qui, a chi sia interessato!

SEI UN UOMO O UNA DONNA? Orlando di Virginia Woolf

DESCRIVITI: La lettrice di Annie François

COME TI SENTI? Pellegrina e straniera di Marguerite Yourcenar

DESCRIVI DOVE VIVI AL MOMENTO: Camera con vista di Edward Morgan Forster

SE POTESSI ANDARE OVUNQUE, DOVE ANDRESTI? Eremita a Parigi di Italo Calvino

CHE COSA AVRESTI VOLUTO FARE DA GRANDE? La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani

LA COSA CHE TI FA SOFFRIRE MAGGIORMENTE: Distacchi di Judith Viorst

UNA COSA CHE NON FARAI MAI: Il piacere di soffrire di Alain de Botton

TU E IL/LA TUO/TUA MIGLIORE AMICO/A SIETE: Andante con tenerezza di Laura Mancinelli

CHE COSA TI MANCA: La casa degli spiriti di Isabel Allende

LA STAGIONE IN CUI TI SENTI PIÙ VIVO: Racconti d'inverno di Karen Blixen

MOMENTO PREFERITO DELLA GIORNATA: Ore in biblioteca di Virginia Woolf

SE LA TUA VITA FOSSE UNO SHOW TELEVISIVO, COME SI CHIAMEREBBE? Home Cooking di Laurie Colwin

COS'È LA VITA PER TE? La rivoluzione interiore di Osho Rajneesh

UN ANNO CHE NON SI PUÒ DIMENTICARE: Come io mi voglio di Giulietta Rovera

LA TUA RELAZIONE: Un riflesso dell'altro di Virginia Woolf

HAI PAURA DI: I barbari di Alessandro Baricco

IN ALCUNI MOMENTI TI SENTI: Uno splendido isolamento di Edna O'Brien

UN LUOGO IN CUI NON SEI MAI STATO: L'odore dell'India di Pier Paolo Pasolini

MEZZO DI TRASPORTO PREFERITO: Il barone rampante di Italo Calvino

QUAL È IL MIGLIOR CONSIGLIO CHE TU POSSA DARE? Il destino come scelta di Thorwald Dethlefsen

UNA COSA DI CUI SEI CONSAPEVOLE: È difficile parlare di sé di Natalia Ginzburg

OGNI TANTO PENSI CHE: Una pietra sopra di Italo Calvino

DI CHE COSA HAI BISOGNO IN QUESTO MOMENTO? Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf

OGNI TANTO TI DOMANDI: Quoi? L'Eternité di Marguerite Yourcenar

PENSIERO DELLA GIORNATA: La vita davanti a sé di Romain Gary

SE POTESSI RIAVERE INDIETRO QUALCOSA DELLA TUA VITA CHE COSA VORRESTI? Bambini nel tempo di Ian McEwan

IL TUO MOTTO: Possiedo la mia anima di Nadia Fusini

venerdì 12 febbraio 2010

Delle orecchie a sventola e di una manualità ritrovata


Qualche tempo fa, la Spia, in un dopo pranzo silenzioso e assorto, se n'è uscito dicendo, come se riprendesse una conversazione interrotta pochi istanti prima (che invece non era mai iniziata):
"Tra l'altro nel tuo blog non scrivi mai delle cose che fai con le perline, la lana etc."
Mi ha presa in contropiede e ho dovuto dargli ragione (di solito, pur di non dargli questa soddisfazione, mi produco in circonvoluzioni mentali degne di un contorsionista, ma ho bisogno di un minimo preavviso).

In effetti, in questo blog, che porta addirittura nel titolo un'indicazione della mia passione per la manualità, di manualità si parla ben poco. Per non dire che non se ne parla affatto, se si esclude quella che si esplica in cucina (e che poi, ad essere sinceri, è poca cosa, considerato che evito come la peste qualunque ricetta richieda la minima destrezza).

Delle mie ore trascorse assorta e concentrata a far qualcosa con le mie mani, in effetti non ho mai parlato, se non di sfuggita.

Perché il problema è che io, sì, mi dedico con grande divertimento ed entusiasmo alle mie innumerevoli attività manuali, ma non sono molte le volte in cui sono davvero soddisfatta di ciò che alla fine riesco a combinare e l'idea di mostrare le mie 'creature', soprattutto in uno spazio come questo, mi ha sempre lasciata piuttosto perplessa (se avete voglia, date un'occhiata a qualcuno dei blog che segnalo e capirete che cosa intendo).

Non per fare la piccola fiammiferaia che cerca di impietosirvi, ma per fare la piccola fiammiferaia che cerca di impietosirvi vi racconterò un illuminante aneddoto, nella cui eloquenza confido.

Per molti, moltissimi anni, ho avuto il complesso delle orecchie a sventola.
Da piccola pregavo i miei genitori perché mi dessero il permesso di farmi crescere i capelli, così da parzialmente occultare quelle due foglie di verza che pensavo di avere al posto delle orecchie.
I miei, ovviamente, si guardavano bene dall'accontentarmi ("I capelli corti sono più pratici e igienici, e poi stanno bene a tutti!"), continuavano a portarmi regolarmente dal barbiere di mio padre (specializzato nel taglio 'a carciofo') e minimizzavano il mio complesso, salvo poi unirsi ai cori scherzosi dei miei fratelli che mi chiamavano Dumbo o Andreotti o Glemp (un cardinale polacco che quando ero piccola era un giorno sì e l'altro pure in tv, non ricordo il motivo).

Intorno ai 14 anni, mi svegliai dal mio torpore e decisi che dal barbiere non ci sarei più andata. Punto e basta.
Ricordo ancora la sera in cui lo comunicai, tremebonda, ai miei. Mi aspettavo chissà quali furibonde reazioni. Invece niente, annuirono distrattamente e tornarono a dedicarsi alla loro cena (allora avrei dovuto trarre da quel fatto conclusioni più generali che invece ho impiegato anni a trarre, ma lasciamo stare).

Cominciai a farmi crescere i capelli, dunque, facendo però sempre bene attenzione a non scoprire le orecchie: niente code, niente trecce, niente di niente. Solo i capelli con la riga in mezzo, portati lunghi e mossi come una nostalgica degli anni '70, come una Janis Joplin de noantri ("come la Madonna del petrolio", diceva mia madre).

Ci son voluti anni perché io mi liberassi, in un pomeriggio, di un complesso del quale, ora ne sono perfettamente consapevole, posso fare a meno di soffrire.
Io ho tante cose che non vanno, ma non ho le orecchie a sventola, non le ho mai avute. Però sono stata per tantissimi anni convinta di averle, perché così mi era stato detto e io ci ho creduto, perché, come diceva l'eroina di non ricordo più quale film, è più facile credere alle cattiverie che ai complimenti (o qualcosa del genere).

Così, ci sono voluti anni perché io mi liberassi - e solo parzialmente - anche della convinzione di non essere capace di fare nulla con le mani. In una famiglia composta di persone assai dotate da questo punto di vista, io ero l'eccezione, quella che sapeva a malapena allacciarsi le scarpe.

Poi, quando ero all'università, quasi di nascosto e vergognandomene, con aria da cospiratrice, un pomeriggio chiesi a mia madre di insegnarmi a lavorare ai ferri.
Fu un incubo.
Sotto lo sguardo allibito della mia genitrice, in qualche ora riuscii a creare qualcosa che non aveva una forma conosciuta né in natura né in geometria, su cui proliferava una fitta vegetazione di fili aggrovigliati, crateri, gnocchi, maglie perse per strada o magicamente moltiplicatesi per partenogenesi.

Il mio fidanzato di allora credette di incoraggiarmi chiedendomi di confezionare per lui una sciarpa a righe.
Ci misi dei mesi per produrne una, orrida e sbilenca (e, essendo fatta di scarti e rimasugli, dai colori raccapriccianti). Lui ne fu commosso fino alla demenza, che Dio lo benedica, ma sua madre - che per altro mi adorava, ricambiata - gli impedì tassativamente di indossarla, cosa per la quale neanche allora fui capace di biasimarla (lui la indossò un paio di volte, di nascosto, per la cronaca. Poi fui io stessa a pregarlo di bruciarla).

Ho impiegato quasi un decennio per cominciare a produrre qualcosa, non dico di bello, ma di riconoscibile ("questo è indubbiamente e incontrovertibilmente un maglione"), e un altro decennio per creare con le mie mani qualcosa che non mi vergognassi di regalare.
Benché spesso frustrata e insoddisfatta dei risultati e innervosita fino alle lacrime da schemi che non capivo, maglie che sparivano, punti che non venivano etc etc., non ho desistito. Novella Penelope, ho fatto, sfatto e rifatto infinite volte maglioni, sciarpe, scialli e coperte, tutto senza la supervisione materna. Quando si vive a migliaia di chilometri di distanza, non è facile farsi spiegare per telefono come si chiudono le maglie o come si fa una cucitura invisibile. E si ricorre ai libri (che Dio benedica anche loro).

Sono contenta di averlo fatto. Molto contenta. Contenta di aver perseverato, di non essermi arresa, di aver continuato a coltivare, con pazienza, con dedizione, in silenzio, quella manualità di cui sentivo una grande nostalgia e un grande bisogno. Di aver liberato una parte di me repressa e per anni negletta, finendo, così, davvero per risvegliarla.

Negli anni mi sono infatti dedicata anche al ricamo, alla pittura sul vetro, alle perline, e infine al cucito.

Ovviamente, siccome tendenzialmente sono una maniaca, quando mi infervoro per qualche nuova tecnica devo possedere:

a. tutti i libri che sono stati scritti sull'argomento
b. tutto il materiale necessario (soprattutto quello accessorio e facoltativo)
c. un luogo specifico e dedicato per mettere tutta questa roba - al momento la stanza degli ospiti, dove ora campeggia trionfalmente la famosa vetrina dell'Ikea, oggetto del mio desiderio su cui, at last!, ho potuto (rocambolescamente) mettere sopra le mani.

Nelle foto che vedete sparse nel post ci sono alcune delle cose che ho fatto di recente.
Vado particolarmente fiera del microscopico scaldacuore (un modello che faccio da anni per tutte le mie amiche che aspettano un bambino, una specie di maglione portafortuna) e soprattutto delle prime, primissime cose che ho cucito.

La macchina per cucire, modello dismesso dalla mamma, mi intimidisce.
Non so perché ma ho il terrore di romperla, e ogni volta che mi accingo ad usarla, per un lungo istante, mi passano davanti agli occhi scene raccapriccianti e apocalittiche di aghi spezzati, spolette aggrovigliate, clangori sinistri provenienti dal motore, tecnici basiti che scuotono la testa e mi dicono "In tanti anni che faccio questo mestiere non ho mai visto niente del genere".

Poi, la paura che questa catastrofe accada (e proprio a me, e proprio in questo momento) lascia il posto a un po' di ragionevolezza. Potrebbe accadere, certo. Ma potrebbe anche non accadere. E allora, nell'incertezza, perché intanto non provare?


Enjoy!

mercoledì 10 febbraio 2010

Diario di scuola di Daniel Pennac

Era tanto che non leggevo Pennac.

Sono stata (come moltissimi) fulminata, anni fa, dal suo Malaussène (soprattutto dai primi tre romanzi), ho amato il suo saggio sulla lettura, poi ho smesso di comprare i suoi libri, che mi hanno 'trovata' lo stesso, grazie ad amici generosi che me li hanno prestati.
Ma non ho più rivissuto la magia degli inizi.

Pennac è uno scrittore generoso, un uomo simpatico che emana calore, intelligenza, tolleranza, sensibilità. Questo penso nessuno possa metterlo in dubbio, neanche il più prevenuto dei lettori.

La sua voce, anche in questo suo Diario di scuola, è calda, venata di umorismo, addolcita di comprensione, a volte vibrante di passione indignata per quella scuola in cui ha lavorato e vissuto per venticinque anni. Si sente che ha messo l'anima nel suo lavoro, che ha saputo davvero conoscere e, in qualche caso, cambiare in meglio la vita dei (fortunati) ragazzi che lo hanno avuto come professore.

Però questo libro non mi ha convinta.
Le prime pagine con il ritratto affettuoso e ironico della madre che non riesce a capacitarsi di come il suo figlio più piccolo, ex somaro, poi professore e ora scrittore tra i più osannati e amati in patria e all'estero, sia ormai un uomo di successo, e il cui futuro continua ciò nonostante ad angustiarla, sono deliziose.

Poi, non so che cosa sia successo. Mi sono disamorata. La voce di Pennac, pur simpatica e piacevole, mi ha quasi fatto addormentare.

Dunque, son certa di rendere omaggio a questo autore che un tempo ho tanto amato, abbandonando questo suo libro al suo destino, obbedendo così a due dei suoi diritti imprescindibili del lettore:

II. Il diritto di saltare le pagine
III. Il diritto di non finire un libro.



Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli 2008, traduzione di Yasmina Melaouah.


giovedì 4 febbraio 2010

Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi

Benedetta Tobagi ha 33 anni, l'età che aveva il padre, Walter, quando fu assassinato a Milano nel 1980 da un gruppuscolo di terroristi rossi. Lei allora, di anni ne aveva 3.
Essendo stato Tobagi freddato sotto casa, colpito alle spalle, la sua bambina fece in tempo a scendere con la madre e a vederne il corpo senza vita, riverso tra il marciapiede e la strada, immerso in una pozzanghera, la nuca sporca di sangue, prima che un cameriere di una trattoria lì vicino lo coprisse pietosamente con una tovaglia bianca.

Per anni la bambina Benedetta penserà di essere stata la crudele responsabile di quella morte, perché pur avendo disperatamente chiesto a tutti i presenti di chiamare un dottore, fu ignorata da tutti, che in parte erano sotto choc e in parte pensavano che, ignorandola, avrebbero potuto distrarla da quel fatto traumatico e crudele.

È difficile scrivere qualcosa su un libro come questo senza scadere immediatamente nel mélo, nel retorico e nel sentimentale. Ancora più difficile sarà stato scriverlo, facendone al tempo stesso una ricognizione puntuale e informata del variegato - per non dire caotico - mondo del terrorismo italiano, una biografia professionale e privata del giornalista Tobagi e uno struggente atto d'amore di una figlia per un padre perso troppo presto, nei confronti del quale, come è scritto nel bellissimo epilogo, Benedetta sente di avere un doppio debito di riconoscenza: perché questo padre l'ha generata e le ha dato poi la forza di nascere una seconda volta, quando il suo esempio e la sua lezione l'hanno spinta, pur in preda al disagio e alla disperazione a cospetto di un vuoto troppo grande, a voler capire, a voler conoscere, a cercare di dare un significato, o quanto meno una ragione, a una perdita tanto crudele. A scegliere, insomma, la vita.

La sofferenza, lo straniamento, il vuoto atroce che una morte così tragica e insensata ha provocato sono raccontati con sincerità e pudore, con accenti accorati ma sobri, in un gioco sapiente e fragilissimo di equilibrismo tra sentimenti e indignazione, pietà e struggimento, analisi storica e ricerca del padre, nel tentativo di restituire alla vita quell'uomo che, circondato dalla retorica e dall'epica dell'eroismo, per troppi anni è apparso alla figlia come Ettore appare al piccolo Astianatte prima di andare in battaglia, nascosto sotto l'elmo che ne fa un essere estraneo e spaventoso e fa scoppiare in lacrime il bambino che non lo riconosce. Spogliando il padre dell'aura perfetta del martire, Benedetta ha finalmente ritrovato l'uomo che visse per il suo lavoro e per la sua famiglia e temeva di morire prima di esser stato capace di "scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa".

Quella riflessione Tobagi non fece in tempo a scriverla, ma le parole che avrebbe probabilmente scelto per essa sono tutte lì, nei suoi articoli lucidi e coraggiosi, nei suoi quaderni privati dove annotava tutto (conversazioni, appunti, meditazioni, spunti) e soprattutto nel modo in cui ha saputo vivere la sua vita, i suoi rapporti di amicizia e d'amore, e trasmettere ai figli un'eredità fatta di fiducia nella capacità degli uomini di "cercare soluzioni realistiche e rispettose, per ricavare il meglio dalla realtà, per trasformare e costruire piuttosto che distruggere".

Bellissima quella pagina in cui Benedetta racconta del ritrovamento di un vecchio nastro, registrato in casa in occasione del penultimo compleanno del padre, in cui lo si sente invitare amorevolmente la piccola 'Bebina', intimidita e messa in ombra dal più esuberante e ciarliero fratello maggiore, a dire qualcosa nel registratore.

"Mio padre tiene a bada Luca e ripetutamente, con pazienza e immensa tenerezza, mi invita a parlare, finché non mi faccio coraggio e affronto il microfono. (...) Ogni tanto penso a quella voce dolce e mi ci avvolgo dentro. Non riesco ad ascoltarla spesso, è un'emozione troppo forte, uguale ogni volta. Un minuscolo caleidoscopio di relazioni. Un minuto e cinquantaquattro secondi che mi hanno fatto capire tante cose.
Lo immagino così, un buon padre: una persona che ti sostiene, ti protegge e ti sollecita, amorevole, affinché trovi il coraggio di tirare fuori la tua voce."

Se questo è un buon padre (ed io tendo a pensare che lo sia), in un modo misterioso e sublime Walter Tobagi lo è stato.

Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi 2009.