domenica 30 maggio 2010

Ninablu

Può essere assai imbarazzante ritrovarsi tra le mani un libro scritto da una persona che si conosce e alla quale si è legati da sentimenti affettuosi, soprattutto se esso è accompagnato da una frase come: "Tengo molto al tuo giudizio".

Nella mia vita mi sono trovata già alcune volte in questa situazione; mi vengono in mente almeno un paio di atroci occasioni nelle quali ho dovuto inventarmi qualcosa per esprimere la mia opinione nel modo più sincero ma anche rispettoso possibile.

Qualunque sia il valore artistico e letterario di un libro, non bisogna mai dimenticare che esso è prima di tutto il riflesso fedele di una dimensione molto intima, molto personale dell'autore: che il testo sia autobiografico o no non importa; esso è rimasto per mesi, per anni a volte, a sobbollire, decantare, rarefarsi o concentrarsi in quella fragilissima storta che è il mondo interiore di un essere umano che ha poi deciso di donare al mondo la sua personalissima creazione. Da questo punto di vista, ogni piccola o grande opera d'arte (e uso il termine nell' accezione più larga possibile, ma nei limiti della decenza e del buon gusto, per così dire) è, prima di tutto, un atto di coraggiosa generosità al quale si deve rispetto e, nei casi per noi più felici, gratitudine.

Ma per tornare a questo libro, quando Tiziana Rinaldi me lo ha inviato, ha pronunciato la fatidica frase di cui sopra ("Tengo molto al tuo giudizio"), invitandomi a leggere la sua Ninablu con il distacco e l'obiettività con cui avrei potuto leggere il libro di una sconosciuta (più facile a dirsi che a farsi) e a riferirle senza alcuna remora ogni possibile critica e appunto.

Non penso di aver mai potuto fingere con me stessa, neanche per un secondo, che Ninablu fosse opera di qualcun altro: c'è talmente tanto dell'autrice in questo racconto che è impossibile ignorarlo. E per fortuna: per chi voglia bene a questo folletto di donna avere tra le mani questa sua creatura, questo piccolo gioiello di poesia, tenerezza, bellezza, garbo e ironia, è una delizia assoluta.

Il libro, pensato per bambini, parla - senza alcun sentimentalismo e leziosità, e ne sia reso grazie all'autrice - dell'infanzia: un'infanzia felice, protetta e sostenuta dalla comprensione e dalla tenerezza degli adulti, e dunque un'infanzia libera, prima di tutto, e naturalmente curiosa, serenamente incosciente, generosamente aperta al nuovo e all'altro, accogliente e disponibile all'ascolto e all'incontro con il mondo esterno.

Un'infanzia cui tutti dovrebbero aver diritto, fatta di scoperte estatiche ed eccitanti in seno alla natura, di lunghe galoppate a briglie sciolte nei regni della fantasia e dell'immaginazione, di condivisione con gli altri delle proprie incursioni nel mondo, di un po' di quella cattiveria spietata ma senza malizia che c'è in tutti i bambini e anche di solitudine, quella solitudine cui anche i piccoli anelano, a volte, e che non è, ovviamente, quella crudelmente e scioccamente impostagli da adulti distratti e poco consapevoli dei loro bisogni, ma quella bellissima e sana, necessaria ad ogni essere umano, anche il più giovane, per maturare dentro di sé, dopo il generoso e gioioso movimento che lo ha portato nel mondo, la sua visione e la sua idea della realtà, per elaborare nella serena e silenziosa quiete del suo stupore, nell'infinita e caleidoscopica ricchezza della sua vita interiore, nuove visioni, nuove curiosità da soddisfare, nuovi modi di incontrare gli altri.

Lo stile del racconto è la trasposizione fedele e limpidissima dello stile pittorico dell'autrice (e bellissime sono anche le illustrazioni, spesso connotate dall'uso di tecniche miste e sempre da una scelta sottilmente elegante dei colori): buffo, tenero, a tratti stralunato e surreale, grondante magia, intelligenza, curiosità, umorismo, rispetto e attenzione per tutto, in primis per il mondo della natura in tutti i suoi aspetti, quelli più facili da amare (la sua bellezza, la sua generosità) e quelli che invece richiedono maggiore disponibilità e immaginazione per essere apprezzati (le sue tempeste, le sue furie improvvise e devastanti, i suoi ritmi oramai sempre più in contrasto con i nostri).

Il racconto ha l'andamento circolare, il tempo ora lento ora incalzante, delle stagioni: armoniosamente inserita in questa saggia e sempiterna dimensione, Ninablu vive libera di fare esperienza di ogni cosa colpisca la sua benedetta e sacra curiosità infantile, consapevole fin dal principio, pur essendo una bambina, che nella vita c'è posto per ogni cosa, che esiste un tempo per tutto e tutto è necessario: la bellezza come la paura, il riso come la malinconia, la presenza delle persone amate e la nostalgia per la loro assenza, la solitudine come la compagnia, lo splendore glorioso del sole e la pallida bellezza della luna, le
serene giornate estive e le notti fredde e in apparenza eterne dell'inverno.

E leggendo di lei, grati e incantati, ce ne ricordiamo anche noi.


Tiziana Rinaldi, Ninablu, Mammeonline, 2009.

domenica 23 maggio 2010

Del mistero dell'amore e di un crumble


Chi capita su questo blog, una tantum o con maggiore regolarità, si sarà accorto di sicuro di alcune cose, ("Per esempio che chi lo scrive è affetta da logorrea". L'avete sentito anche voi? Era la Spia che interloquiva dalla sala), per esempio, dicevo, che non si tratta propriamente di un blog di cucina.

Prima di tutto perché pare ormai essere una caratteristica pressoché irrinunciabile di qualsiasi blog di cucina la presenza di foto bellissime, che invece qui brillano tragicamente per la loro assenza; poi perché tutte le ricette qui presenti non sono frutto né della mia inventiva, né delle mie audaci esplorazioni gastronomiche ("L'altra sera ero stanca morta quando sono tornata dal lavoro e aprendo il frigorifero ci ho trovato soltanto un limone muffito, un vasetto di yogurt e una crosta di formaggio. Ma pensa che ti ripensa mi è venuta l'idea per una ricettina stuzzicante e facile facile etc. etc."), ma della mia passione per i libri di cucina, che amo collezionare come altre fanciulle collezionano scarpe, borse o spasimanti (io trovo già impegnativo conservarmene uno, figuriamoci una collezione).

Altra cosa che non sarà sfuggita è che assai di rado in questi lunghissimi post è possibile imbattersi in ricette di inaudita originalità. Anzi, tanto per dirla tutta, quelle che propongo qui sono tutte straviste e strasentite. Sono quelle che faccio nella mia vita di tutti i giorni, quando ho voglia di cucinare e quando ne ho meno, quando ho il frigo straripante di cose belle appena acquistate e quando invece è quasi vuoto perché non ho voglia di andare al supermercato.
Sono le ricette di una principiante che ha cominciato a cucinare da relativamente poco tempo e che cucina soprattutto per mangiare, e poi anche perché la cosa spesso e volentieri la diverte.

Ho scritto altrove dei miei disastrosi esordi come cuoca e delle mie deliranti e tragicomiche esperienze con il riso, anche se la prima cosa in assoluto che io abbia mai preparato per la Spia è stato un dolce.

Vivevamo insieme, da meno di un mese, nella nostra bella casina a Roma con il suo romantico giardino pensile profumato dai gelsomini rampicanti (e dai vapori di un ristorante cinese lì vicino, ma lasciamo perdere) e un pomeriggio ebbi la brillante idea di preparargli una bella merenda, in attesa che tornasse dall'ufficio.

Sapevo bene che il mio eroe ha quel che gli inglesi chiamano a sweet tooth, vale a dire un debole per i dolci, e dunque cominciai a pensare a quale fosse quello più facile da fare, vista la mia pressoché nulla abilità in cucina.

Dopo attente riflessioni, chiamai la mia mamma e mi feci dare la ricetta del suo crumble. Anche la cuoca analfabeta che ero aveva intuito che si trattava di qualcosa alla mia portata. L'intuizione era effettivamente buona: molti anni e molti crumbles dopo, ora mi sento di dire che avevo scelto la ricetta giusta per cimentarmi per la prima volta nella preparazione di un dolce.

Segnate diligentemente dosi e procedura, mi misi all'opera, probabilmente canticchiando e sospirando, anticipando già con la fantasia il momento in cui la Spia, dopo una dura giornata di lavoro, avrebbe aperto la porta di casa e sarebbe stato accolto da un invitante e delizioso profumo di frutta e pasta frolla dorata e avrebbe pensato che di fronte a sé, con grembiulino e sorriso di ordinanza, aveva la più soave e preziosa delle donne, la sua.

Ma la faccio breve (perché avrete senz'altro capito che c'è un colpo di scena, e non dei più felici).
Forse fu colpa della smemoratissima madre, forse la responsabilità fu dell'ignorantissima figlia, nessuno lo saprà mai, ma quella cosa che alla fine uscì dal forno chiaramente non era un crumble.

Era un oggetto misterioso e inquietante come i giganti dell'Isola di Pasqua, solo più pesante.

Sopra la frutta si stendeva, infatti, uno strato compatto e granuloso, apparentemente inscalfibile, di qualcosa che aveva la consistenza e il peso specifico del cemento armato.
Ormai era troppo tardi per prepararne un altro (e poi ero già sfinita dall'ansia di prestazione per potermi dedicare ad un'altra impresa simile), dunque la Spia tornò dall'ufficio e mi trovò seduta al tavolo della cucina, con davanti quell'oggetto enigmatico e sul viso un'espressione piuttosto avvilita.

Se racconto spesso questa storia (e chiedo scusa a chi l'ha sentita più e più volte) è perché quel giorno ho capito che la Spia è un uomo con tanti difetti e manie e nevrosi - e sicuramente in numero superiore alla media - al quale spesso e volentieri ho la tentazione di spaccare un intero servizio di piatti in testa (zuppiera e salsiera comprese), ma che è anche e soprattutto un uomo gentile.

Non solo si mostrò debitamente riconoscente del pensiero amorevole che avevo avuto nei suoi confronti; non solo non si scompose di fronte all'evidente difficoltà che presentava anche solo servire quel dolce (ci volle tutta la sua forza maschia per riuscire a 'scolpire' due porzioni da quel blocco granitico); non solo riuscì a mangiarsi quel che aveva nel piatto, ma trovò anche la faccia e la voce giuste per dirmi che sì, la consistenza del topping era effettivamente 'particolare', ma lo strato alla frutta era assolutamente delizioso, una delle cose più deliziose che avesse mai mangiato.

Per quanto mi sforzassi di credergli, non potei non giungere alla conclusione che quella roba, qualunque cosa fosse, era soprattutto una schifezza indifendibile che meritava di finire direttamente nella pattumiera. Mi dispiaceva enormemente aver per giunta sprecato farina, zucchero e burro per creare una tale mostruosità (e temevo molto che la Spia se ne dispiacesse, ché è uomo che odia gli sprechi).

A quel punto, con la sua voce pacata e gli occhi ridenti e affettuosi dietro gli occhiali, il mio eroe mi rincuorò e mi disse che non dovevo aver paura che quel crumble andasse sprecato, perché avremmo sempre potuto usarlo come fermaporta.

Lo disse con gentile, amorevole e bonaria ironia e all'inizio quasi non capii che si trattava di una battuta; mi limitai ad assentire distratta e contrita. Poi scoppiai in una di quelle risate che lasciano le persone che non mi conoscono bene (e a volte anche quelle che invece mi conoscono da una vita) piuttosto dubbiose e perplesse circa la mia sanità mentale.

Da quel giorno di dieci anni fa, preparare un crumble è per me qualcosa di più che preparare un crumble. È ritrovare quel momento, quello sguardo e quella voce. È capire che se in questa storia c'è qualcosa di realmente enigmatico e misterioso quanto i giganti dell'Isola di Pasqua non si tratta certamente di quella cosa uscita quel pomeriggio dal mio forno, ma del sentimento che periodicamente si rinnova e si rigenera, a dispetto di ogni appannamento e incertezza, e che mi lega a quest'uomo.
Ed ora basta con gli sdilinquimenti e parliamo di cose serie.

Della ricetta che segue, le dosi per il topping sono quelle di Home Cooking, di Rachel Allen; per la frutta, invece, di solito non seguo una ricetta precisa e improvviso molto in base a quella che ho (è anche un ottimo modo di utilizzarne di moribonda). Costante è invece l'uso dello zucchero di canna Mascobado del commercio equo e solidale e di abbondante cannella (più altre spezie) per condirla.

Crumble di pere e mele

2-3 pere (dipende dalla grandezza)
2-3 mele (come sopra)
3 cucchiai di zucchero Mascobado (ma assaggiate ed eventualmente aggiungetene un quarto)
2 cucchiaini di cannella
un pizzico di noce moscata, pepe nero, chiodi di garofano, cardamomo in polvere

per il topping:

75 gr. di burro tagliato a cubetti (tagliatelo a cubetti per davvero, anche se è un po' una rottura; vi faciliterà le cose poi)
150 gr. di farina
75 gr. di zucchero di canna leggero (io uso il Golden Caster del commercio equo)
[qualche altro ingrediente che in base al ghiribizzo del momento posso decidere all'ultimo minuto di aggiungere: 50 gr. di cioccolato fondente a scaglie, qualche mandorla o noce grossolanamente tagliata]

Preriscaldate il forno a 180° e imburrate appena una tortiera (io ne ho usata una rettangolare di ceramica 20 x 26).

Sbucciate e tagliate a dadi le mele e le pere. Mettetele in una terrina e conditele con lo zucchero e le spezie. Lasciatele lì per un attimo e dedicatevi al topping.

Mettete in un'altra terrina capace la farina e il burro e cominciate a mescolarli sfregando bene con la punta dei polpastrelli. Come è ben noto non bisogna esagerare con lo sfregamento: il burro non si deve sciogliere, ma amalgamare alla farina, creando un composto che abbia la consistenza di grosse e irregolari briciole (crumbs, appunto). Aggiungete anche lo zucchero e mescolate.

Versate la frutta condita con i suoi succhi nella tortiera imburrata (se volete usare anche la cioccolata e le noci o le mandorle distribuitecele sopra) e poi, aiutandovi con un cucchiaio, ricopritela con il topping. Vi sembrerà tantissimo e mi maledirete perché ve ne ho fatto preparare una tonnellata. Abbiate fiducia e schiacciatelo ben bene con il dorso del cucchiaio.

Fate cuocere per circa 35'-40', trascorsi i quali tirate fuori il crumble dal forno e osservatelo. Se vi appare pallido come una damigella di qualche secolo fa, accendete il grill e mettetecelo sotto per 5'-10': non lasciate incustodita la vostra damigella, vigilate su di lei come il più zelante degli chaperons.

Servitela (la damigella) incipriata di zucchero a velo (mai provato) oppure, opzione che preferisco, con panna appena appena montata o gelato alla crema.

Enjoy!

(P.S. Attendo l'arrivo delle albicocche per preparare il crumble con albicocche e mandorle del caro Stefano Arturi, che voglio fare da un po'. Ne riparleremo. Nel frattempo, se vi va, andate a dargli un'occhiata a pag. 145 del suo English Puddings, Guido Tommasi Editore, 2005.)

lunedì 17 maggio 2010

Di nuove amicizie, di una città molto amata e di alcuni bruttissimi biscotti al cioccolato


Questa primavera piovosa, timida ed anomala, oltre a far fiorire discorsi interessantissimi sugli autobus e nei supermercati (e tengo a precisare che non c'è alcuna sfumatura snobistica in queste parole, autobus e supermercati essendo 'luoghi' che frequento assiduamente), rimarrà alla storia nei miei personali annali come la primavera degli incontri con amici telematici. Dopo quello di cui ho parlato qui, infatti, ce ne sono stati altri due, altrettanto felici.

Il primo si è svolto a Bologna, città in cui parzialmente vive la deliziosa signora cui sono andata a dare un volto. Dico 'parzialmente' perché gran parte dell'anno ella lo trascorre in una bella capitale del Nord Europa a me molto cara poiché, le spiegavo, pur essendo una piccola città che vanta la non lusinghiera fama di essere tra i luoghi più piovosi e più noiosi al mondo, vi si sono incrociati i percorsi sentimentali di molti miei amici e dunque, di rimando, anche i miei.

Sto parlando di Bruxelles, luogo dunque a me dilettissimo e che, checché ne dicano in molti, mai ho trovato noioso (piovoso purtroppo sì). Una città dove si offici giornalmente il culto del cioccolato, delle moules e delle frites, e, soprattutto, delle librerie usate, non può che essere per me un luogo dello spirito, quasi una Mecca. E a parte ciò, è talmente ricca di stimoli intellettuali, culturali, artistici, musicali, architettonici e gastronomici che davvero non riesco a immaginare che cosa si possa volere di più (per di più la sua posizione strategica la rende luogo di partenza ideale per sfiziose gitarelle praticamente in qualunque direzione). Forse, davvero, solo un po' più di sole.

Detto ciò, qualche settimana fa, con la mia borsa da viaggio marrone, ho preso il treno e sono scesa a Bologna (dove pioveva!). Da lì, seguendo le indicazioni della mia ospite, a piedi mi sono diretta in centro, dove ella mi attendeva. Mi sono presentata con un mazzo di gemebondi tulipani di un incredibile rosa violaceo (sembravano molto più belli sul banco del fioraio che me li aveva venduti!) e con un pacchettino contenente dei biscotti al cioccolato (e dei sablés salati che però necessitano di qualche miglioria. Se ne riparlerà - se mai - in futuro).

Avevo trascorso la mattina a prepararli e a cuocerli, pregustando il momento in cui glieli avrei offerti, dicendo: "Questi sono per te!".
Mi vado sempre più convincendo che, nella maggior parte dei casi, cucinare con intenzione, amorevolezza e concentrazione ('con consapevolezza' direbbe la mia molto esoterica sorella), incida positivamente sul risultato finale e non solo perché quando si cucina in questo modo si è più attenti e si evita la tentazione di far le cose alla carlona prendendo scorciatoie non sempre felici, dettate dalla pigrizia e dall'impazienza (o dal poco tempo). Chiamatelo 'influsso positivo'. Una roba così.

Questi biscotti sono un mio cavallo di battaglia. Non sempre mi vengono alla perfezione: in genere la prima teglia la strino quasi sempre. Ma nella seconda aggiusto il tiro e il risultato è notevole.

Esteticamente non sono forse tra i biscotti più graziosi al mondo; mi ricordano un po' quei brutti ma buoni che ogni tanto mi comprava mia madre al forno del quartiere e che per me avrebbero potuto benissimo chiamarsi brutti e per giunta neanche tanto buoni.
Lei era convinta (non so in base a cosa) che io ne andassi pazza; quanto a me, ci ho messo anni per vincere la vergogna e l'imbarazzo che provavo anche solo all'idea di distruggere questa sua illusoria certezza e per dirle che grazie, per merenda preferivo mangiare una bella rosetta ripiena di tonno e dei suoi strepitosi carciofini sott'olio. Annovero quell'impresa tra le mie più coraggiose e meritorie.

Ma per tornare a questi biscotti, ovviamente quelli di Linda Collister (la ricetta è sua, presa da Chocolate Baking, ma la trovate anche in Cioccolato, della Luxury Books) sono molto ma molto più belli dei miei. Mi pare però di aver ribadito più volte che il lato estetico della mia cucina è davvero carente. Conto di migliorare con gli anni, ma per ora, pur crucciandomene, mi concentro sulla sostanza - a volte mi sembra già un gran risultato riuscire a non avvelenare i miei cari.

Se è vero dunque che quelli della mia infanzia erano i biscotti brutti e per giunta neanche tanto buoni, questi non possono che essere

i biscotti decisamente brutti ma molto molto buoni

(per una trentina/quarantina di biscotti)

115 gr. di burro a temperatura ambiente
85 gr. di zucchero di canna leggero (io ho usato il Dulcita del commercio equo e solidale, ma credo la prossima volta userò il Golden Caster, sempre del commercio equo e solidale, più chiaro e meno 'grezzo')
1 uovo, grande
60 gr. di farina autolievitante
½ cucchiaino di lievito per dolci
un pizzico di sale (non dimenticatevene, è fondamentale!)
½ cucchiaino di estratto di vaniglia
115 gr. di fiocchi di avena
175 gr. di cioccolato fondente, tagliuzzato ma non troppo

Preriscaldate il forno a 180° e foderate con la carta forno un paio di teglie (forse anche tre).

Lavorate il burro fino a ridurlo in crema, unitevi lo zucchero e proseguite a lavorare fino a quando il composto sia omogeneo (potete usare le fruste elettriche).

Aggiungete l'uovo e incorporatelo.

Unite la farina e il lievito setacciati, il pizzico di sale, l'estratto di vaniglia e i fiocchi d'avena.

Infine, il cioccolato.

Prelevate cucchiaini di composto (mi raccomando che siano cucchiaini davvero, perché questi biscotti hanno la tendenza a diventare enormi, quasi mostruosi, e a spetasciarsi tutti), disponeteli su una teglia foderata di carta da forno lasciando un generoso spazio tra l'uno e l'altro (per il motivo di cui sopra).

Cuocete per un tempo compreso tra i 12 e i 15 minuti, dice la ricetta. Questo il mio consiglio: puntate il timer a 6', trascorsi i quali aprite il forno, tirate fuori la teglia, rigiratela in modo da fuor cuocere i biscotti nel modo più uniforme possibile e poi vigilate, vigilate, vigilate.

Nel mio forno di Lusaka, dopo questa operazione bastavano 4' esatti perché i biscotti fossero perfettamente cotti (dunque 10' in totale). In questo forno di Firenze non ho ancora ben capito. Dovrebbero essere 4 ½' -5'.

Sembreranno fisime da maniaci, ma vi assicuro che non ci vuole nulla perché una teglia di biscotti profumati si trasformi in una teglia di biscotti carbonizzati, soprattutto se avrete lasciato il cioccolato a pezzetti consistenti (tende a bruciarsi con facilità). Il cioccolato sbruciacchiato è tremendo: per me personalmente è l'immagine stessa dello spreco e della catastrofe in cucina. Mi fa venir voglia di piangere e basta.

Quando avrete tolto definitivamente la teglia dal forno, lasciate raffreddare i biscotti per qualche minuto. Poi, con una spatola, disponeteli delicatamente su una gratella. Alcuni si sbricioleranno un po' (ed avrete così la splendida scusa di mangiarvene qualcuno).

Lasciateli raffreddare del tutto, poi conservateli in un barattolo con la chiusura ermetica (se ce la fate a conservarli; non è semplice resistergli, un po' come è difficile resistere a quei bruttoni fascinosissimi un po' sfigati, teneri ma ombrosi e che vi fanno ridere fino alle lacrime, tanto per rendere l'idea).

Enjoy!

lunedì 10 maggio 2010

Il mestiere di riflettere. Storie di traduttori e traduzioni

Da qualche anno collaboro con una casa editrice come traduttrice, la stessa casa editrice per la quale, più di dieci anni fa, ho fatto per un po' la correttrice di bozze, due lavori entrambi tragicamente sottopagati.

Per molti versi, può risultare comprensibile che la correzione delle bozze venga considerata tanto poco in termini retributivi: è un lavoro cui non si attribuisce alcuna valenza 'creativa' e, in quanto tale, rientra nell'ambito della bassa e bruta manovalanza editoriale.

Chi corregge un libro deve solo seguire regole precise, stabilite per convenzione e per lo più condivise dalla maggior parte delle case editrici. Deve dunque avere la conoscenza di queste norme (e una piccola dispensa allungata da un redattore in occasione del primo lavoro è in genere più che sufficiente a garantirla) e, ovviamente, un occhio allenato: su centinaia di pagine può sempre scappare una virgola eccentrica o una e corsiva che invece dovrebbe essere tonda.

Detto ciò, a me pare che sia comunque ingiusto non retribuire dignitosamente un lavoro che per molti versi è assolutamente alienante e provoca livelli di stanchezza fisica e mentale che solo chi lo ha svolto può comprendere.

Risulta, invece, meno comprensibile il motivo per cui anche il lavoro del traduttore sia tanto poco riconosciuto. Che nella traduzione, infatti, sia presente un forte elemento creativo, mi pare fuor di dubbio. Eppure, sono stati pubblicati libri su libri che indagano il rapporto ambiguo, sfuggente, complesso (traduttore-traditore è una vecchia espressione sempre tirata in ballo in questo contesto) tra il testo letterario originale, nato dalla mente, dalla sensibilità, dall'esperienza di un autore e quello in un certo senso 'nuovo', anche se generato da quello stesso testo, partorito invece dalla mente, dalla sensibilità e dell'esperienza di un traduttore, un essere umano, quasi sempre un filo nevrotico e spesso con spiccate tendenze eremitiche, che passa gran parte delle sue giornate solo come un cane, ossessionato dalle parole anche nel sonno, e la cui principale relazione, per mesi, è con un libro, un computer e svariate tonnellate di dizionari (i profani non immaginano di quanti tipi ne esistano).

Chi traduce narrativa (perché è di questo che si parla qui; la traduzione saggistica è, in parte, un'altra cosa e, anzi, tanto per sgombrare il campo di ogni possibile equivoco, chiarisco subito che io per ora ho tradotto solo testi di astrologia), chi traduce narrativa, dicevo, è davvero chiamato, a mio parere, ad assumersi responsabilità non da poco. Si fa mediatore e canale di trasmissione tra due mondi: quello dell'autore e quello di un pubblico che altrimenti non potrebbe leggere, godere, vivere libri scritti in idiomi stranieri e che resterebbe dunque tristemente all'oscuro dell'esistenza di testi meravigliosi e fondamentali.

Per questo fa tanta più rabbia ritrovarsi tra le mani libri tradotti in modo sciatto, superficiale, disattento, nati dal poco amore - in parte comprensibile - per un mestiere che invece, per quanto sottopagato e vilipeso, può davvero far molto per la diffusione della cultura e della passione per la lettura. Un testo tradotto e rivisto male (perché un libro mal tradotto che arriva in libreria è anche e soprattutto un libro mal rivisto, o rivisto con la stessa sciatteria, superficialità e disattenzione con cui è stato tradotto) nuoce a tutti: all'autore che l'ha scritto, che vede la sua creatura, partorita spesso con appassionato e doloroso accanimento, stravolta dal pressapochismo e dall'incuria altrui; al traduttore che lo traduce, che si priva della possibilità di redimere la fatica del suo mestiere nella bellezza e nel senso di umile orgoglio che può provare nel farsi prezioso mediatore e, soprattutto, al lettore che, a parte rari casi di assoluta insensibilità, invece di esser messo in condizione di avvicinarsi con piacere e con passione ad una nuova occasione di conoscenza e di bellezza e, prima di tutto, ad un altro essere umano (l'autore), ne viene brutalmente allontanato.

Da accanita e ossessiva lettrice (e da traduttrice), non dimentico mai il debito di gratitudine che porto ai tanti eremiti nevrotici che mi hanno permesso, negli anni, di leggere testi che altrimenti mi sarebbero rimasti ignoti. Anche perché spesso i traduttori sono anche i promotori di un libro: lo hanno letto, se ne sono innamorati, lo hanno proposto a qualche casa editrice e ne sono poi diventati traduttori. È grazie anche al loro amore per un libro e all'ostinazione con cui, spesso, se ne sono fatti padrini, a dispetto dell'indifferenza o dell'ignavia delle case editrici (soprattutto quando si tratta di testi coraggiosi, importanti), che anche noi veniamo presi da passione e da amore per quel libro. Uno splendido, e a volte assai faticoso, circolo virtuoso.

Il traduttore è chiamato dunque a svolgere un compito paradossale: in parte ricrea il testo, perché comunque lo fa rinascere in un idioma diverso da quello in cui è stato pensato e generato e per farlo attinge alla propria esperienza, non solo linguistica, ma anche personale, di vita; in parte, invece, si nasconde, si rende invisibile, si concentra tutto nell'ascolto della voce del 'suo' autore: cerca di ricrearla, di riprodurne la cadenza, il timbro, le particolarità, come un imitatore che di un personaggio studi la postura, il modo di camminare, i tic, gli intercalari, le espressioni tipiche.

Si tratta di un'operazione complessa, che richiede sensibilità, umiltà, disponibilità e una certa assenza di protagonismo. Un'operazione che può insegnare una nuova forma di rispetto e di attenzione: per un testo, in primis, ma anche e soprattutto per l'essere umano che a quel testo ha dato vita.
La traduzione è per me, oltre che un lavoro disperante e bellissimo che assai di rado e in modo del tutto discontinuo mi dà qualche soldo, soprattutto una disciplina quasi spirituale. Come dice Emanuela Bonacorsi (uno dei traduttori-autori di Il mestiere di riflettere): (...) basta una svista, un errore oppure un abbaglio, una stanchezza, un narcisismo per piegarsi a inseguire un vagheggiamento che non appartiene al testo, ed ecco perpetrato il tradimento.

Il mestiere di riflettere è una raccolta di brevi testi, a metà tra il saggio e il mémoir, scritti da alcuni noti traduttori italiani. Ognuno ha il suo stile, il suo taglio particolare: ironico, intimista, autobiografico, tecnico, meditabondo, astratto. Tutti hanno in comune questo tormentato interrogarsi su quel confine scivoloso e ambiguo che esiste, appunto, tra traduzione come operazione 'neutra' e traduzione come operazione, invece, 'creativa'. Tutti oscillano tra il desiderio di rivendicare il proprio personale, artistico contributo e il bisogno di riconoscersi strumento flessibile, il più possibile trasparente e non invasivo, della voce altrui.

Non tutti questi testi sono a mio parere interessanti; alcuni li ho anzi trovati privi, per me, di stimoli e spunti di riflessione. Ho amato invece, moltissimo, quello di Giuseppe Iacobaci, così personale e 'scoperto' e disarmato nel confessare senza mezzi termini la straniante miscela di insicurezza, paura, euforia, eccitazione e angoscia che ogni nuovo testo (soprattutto se molto amato) porta con sé.

A chi fosse interessato, per questioni professionali o di puro masochismo intellettuale, a leggere qualche altra riflessione 'dall'interno' sul mestiere della traduzione, sentirei invece di consigliare l'ottimo Gli autori invisibili di Ilide Carmignani, una raccolta di interviste a famosi e autorevoli traduttori italiani (ma anche a chi di traduzione si è occupato 'tangenzialmente' ma con maestria, come Claudio Magris o Cesare Cases).

Difficile dire, tra le molte interviste, quale io prediliga, ma quella a Delfina Vezzoli (traduttrice, tra le altre cose, dei romanzi di David Leavitt, di Underworld di Don De Lillo, de Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, tanto per citare alcune delle sue fatiche) è senz'altro tra le mie preferite.

Ai giovani che abbiano la pazza idea di diventare traduttori, la Vezzoli consiglia di farsela passare, prima di tutto.
Qualora però la passione, il sacro fuoco e la volontà masochistica di condannarsi ad una vita quasi di stenti siano superiori a qualunque considerazione razionale e pratica, bisognerebbe almeno che non si leggessero nel dettaglio i codicilli del contratto di traduzione perché "È un contratto di lavoro a cottimo, preindustriale: non fateci caso, altrimenti la tentazione di maciullare il testo invece di tradurlo potrebbe essere travolgente. La gente dell'editoria per fortuna è molto migliore dei contratti che stila".

Verissimo.
Secondo me è anche per questo che esistono ancora molti eremiti nevrotici sfruttati ai limiti dell'indecenza che amano appassionatamente questo mestieraccio infame e meraviglioso.


Autori Vari, Il mestiere di riflettere. Storie di traduttori e traduzioni, Azimut 2008.

Ilide Carmignani, Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria, Besa 2008.

lunedì 3 maggio 2010

La mia cucina, il lunedì mattina

La cara Wenny ci vizia settimanalmente con splendide foto del suo giardino fiorito.

Io non ambisco a tanta bellezza e perfezione, non ne ho i mezzi (la mia macchina fotografica va praticamente a pedali, io come fotografa faccio più che pietà e di giardini, qui, nemmeno l'ombra).

Però, quasi senza accorgermene, da qualche tempo ogni settimana mi ritrovo a comprare un mazzo di fiori.

Per anni non ne ho voluti. Il fidanzato che mi chiamava 'animista sincretica', avendomi un giorno omaggiata di un bellissimo mazzo di rose, si sentì dire che non mi piacevano i fiori recisi. Concluse filosoficamente che, dati i miei gusti, mi avrebbe fatto cosa più gradita regalandomi una dozzina di salsicce (e non aveva torto, tutto sommato).

È che per anni non ho potuto sopportare la malinconia che mi trasmettevano dei fiori che, per quanto bellissimi, sapevo comunque destinati prima ad un triste, ineludibile appassimento, poi alla pattumiera.

Forse perché sto invecchiando, forse perché ora i fiori me li compro da sola e la cosa mi dà tutta un'altra soddisfazione, adesso accetto di buon grado che anche loro, come tutto, prima o poi comincino a deteriorarsi e finiscano in ultimo per raggiungere le bucce di patate e i fondi del caffé nel contenitore dell'umido, pronti per nutrire altri fiori di là da sbocciare.

La bellezza e la serenità che mi trasmettono fino a quel momento valgono sicuramente il senso di lieve mestizia che mi prende quando per l'ultima volta li tolgo dal vaso.

Spero piacciano anche a voi quanto piacciono a me.

Enjoy!

giovedì 29 aprile 2010

Della gratuità, dell'impazienza e di una torta alle carote


Ci sono poche cose che mi mettono maggiormente di buonumore che preparare una torta.
Cucinare è un'attività che generalmente mi rilassa, soprattutto quando si tratta di seguire più preparazioni contemporaneamente, il che, mi rendo conto, per molti è esattamente una delle condizioni necessarie e sufficienti allo scatenamento di una piccola crisi isterica, altro che rilassamento (potete vedere anche da lì la Spia che scuote la testa in segno di incredulità e di sbigottimento?).

Ma preparare una torta è un'altra cosa. Forse perché quando si decide di farne una c'è qualcosa da festeggiare, fosse anche solo un giorno trascorso in serenità - che non è poco, a mio parere -, o una spesa particolarmente fortunata al mercato dove si è trovato qualche bell'ingrediente fresco che fa venire subito in mente una particolare ricetta (a voi non capita mai? A me molto spesso).

Forse perché cucinare per pranzo e per cena richiama anche l'ineluttabile necessità di doversi nutrire - e preferibilmente con qualcosa di sano - mentre una torta è qualcosa di meravigliosamente superfluo, voluttuario, un indulgere (più o meno colpevole, più o meno criminale) nel puro e semplice piacere.

E che dire poi del profumo che da certe torte nel forno si spande per tutta casa?

Esistono degli aromi in cucina che evocano in me subito sensazioni di pura beatitudine. La cipolla e l'aglio che appassiscono lentamente nel burro, per esempio. La cannella e l'arancia. I semi di cumino che sfrigolano nell'olio caldo. Il cioccolato che si fonde a bagnomaria. Un arrosto di maiale con aglio e rosmarino che cuoce lentamente. Un pollo arrosto profumato di limone e di salvia e la sua pelle che si dora e diventa croccante. La noce moscata grattata sopra un purè di patate bollente. La panna che si insaporisce di un baccello di vaniglia e di una scorza di limone per diventare poi un gelato alla crema (prossimamente ne parlerò). Dadini di pancetta che sfrigolano nella padella.

E questa torta alle carote.

In sé e per sé, come diceva qualcuno di mia conoscenza prima di aver assaggiato questa versione, la torta di carote evoca immagini un po' tristi di dolce 'sano', quasi spartano, da merenda 'punitiva' preparata da mamme severe ed efficienti.

Ecco, questa torta non ha molto di sano, in realtà, soprattutto se vorrete preparare anche la glassa, che per me è un suo elemento irrinunciabile, ma che ad alcuni potrà apparire davvero eccessiva (e lo è, non c'è dubbio). La mia amica Annalisa, che ha un talento speciale e inimitabile per esprimere in poche parole un concetto, un'idea, l'essenza di una situazione o di una persona, la chiama torta di carote con topping al triplo cheesecake.

Non mi sento di aggiungere altro.


Torta di carote con topping al triplo cheesecake da Falling Cloudberries di Tessa Kiros

per una tortiera di 24 cm di diametro, imburrata e infarinata

4 uova
250 gr. di zucchero
185 ml di olio di girasole
300 gr. di farina
¾ di cucchiaino di sale
2 cucchiaini di lievito
1 cucchiaino di bicarbonato
2 cucchiaini di cannella in polvere
400 gr. di carote, pulite e grattatugiate
55 gr. di noci a pezzetti

per la glassa: (nella versione originale le dosi sono doppie rispetto a queste; a me pare davvero un'enormità, ma insomma, fate voi)

90 gr. di burro
125 gr. di zucchero a velo
90 gr. di formaggio spalmabile
1 goccia di estratto di vaniglia

Preriscaldate il forno a 180°.

Sbattete le uova e lo zucchero fino ad ottenere un composto cremoso; aggiungete poi l'olio, continuando a sbattere.

Setacciate insieme la farina, il sale, il lievito, il bicarbonato e la cannella. Aggiungeteli alle uova e allo zucchero, sempre sbattendo.

Unite le carote e le noci, amalgamate bene tutto e versate il composto nella teglia.

Fate cuocere per circa 1 ora/1 ora e 10': il famigerato stecchino dovrà uscire asciutto dal centro della torta, che sarà molto alta.

Mettete la torta su una gratella; dopo un po' estraetela dalla tortiera, ma lasciatela sempre sulla gratella.

Nel frattempo, preparate il topping al triplo cheesecake.

Con le fruste elettriche montate il burro e lo zucchero finché non siano perfettamente amalgamati in un composto piuttosto sostenuto.

Aggiungete il formaggio da spalmare e la vaniglia.

Glassate la torta, evitando di creare una superficie perfettamente liscia, impeccabile. Questa non è una Sacher, ma una torta alle carote, anche se piuttosto volgare e vistosa.

Un avvertimento fondamentale!
Procedete alla glassatura solo quando la torta sarà completamente fredda.
Se sarete impazienti come qualcuno che conosco, dopo pochi minuti che l'avrete spalmata, la glassa comincerà rovinosamente a sciogliersi e a colare dappertutto, con effetti estetici di dubbissimo gusto.

La torta sarà nondimeno sempre buonissima, ma perché turbare i felici mortali cui ne offrirete una fetta, quando sarebbe possibile, con un piccolo esercizio di pazienza, evitare loro il benché minimo sconcerto?

Enjoy!



lunedì 19 aprile 2010

Di avatar che prendono corpo e di alcuni muffins al formaggio


Chi frequenta il mondo della rete sa benissimo quanto sia facile dare vita a rapporti di vario genere con gli altri suoi frequentatori. Trasformare questi rapporti in legami autentici e significativi è evidentemente, invece, un altro paio di maniche.
È indubbio, però, che il tipo di relazione che può nascere tra due persone che non si conoscono, non si sono mai viste e che, almeno all'inizio, non sanno nemmeno che suono abbia la voce dell'altro sia singolarissimo, per certi versi assolutamente unico e inimitabile. Sociologi, psicologi, giornalisti, tuttologi e cialtroni vari hanno scritto pagine e pagine sul tema 'Le relazioni personali nell'era di internet'. Dunque non aggiungerò banalità a banalità.

Posso però dire che, quando una creatura abitatrice della rete entra nella mia vita e, dopo i primi scambi, ne diventa una piacevole costante, a me viene quasi subito il desiderio di darle una voce, in primis, e poi anche un volto. Mi piace anche di più ritrovarmela accanto, guardarla negli occhi, vedere come si muove nello spazio, come si siede su una poltrona, se quando parla si tocca spesso i capelli o gesticola con le mani, se sorride spesso, se ha rughe d'espressione.
Insomma, mi piace incontrarla in carne ed ossa.

Finora non sono state molte le persone che, partendo da un avatar o da un nickname, hanno acquistato davanti ai miei occhi materia e spessore, ma sono state tutte belle conferme: uomini e donne che non hanno mostrato in rete un'immagine 'ripulita' e insincera di loro stessi e il contatto con i quali non ha ingenerato in me alcuna piccola o grande delusione ma, al contrario, grande tripudio, e la sensazione nettissima e confortante di essere una persona per molti versi fortunata.

Qualche giorno fa, nel salotto di casa mia, si è materializzato un mio amico conosciuto su aNobii. Insieme alla sua compagna e alla Spia abbiamo trascorso il tempo di un pranzo.
Pranzo improvvisato (non era previsto) e per questo tanto più gustato e condiviso in un reale spirito di intimità e di rilassatezza.

Il pezzo forte era costituito da dei muffins al formaggio che avevo preparato per il mio amico e la sua compagna e che avevo diligentemente infilato in un sacchetto del pane per fargliene omaggio. Cambiati i programmi, sono stati messi al centro della tavola, accompagnati da affettati e da un'insalata.

La ricetta è questa, tratta da Nigella Bites della mia Nigellona (a proposito! A settembre uscirà in Inghilterra il suo nuovo libro. Ovviamente ho il dito già pronto sul tasto buy it nella libreria online dalla quale in genere mi servo).

Welsh-Rarebit Muffins (chi di voi fosse curioso e leggesse l'inglese potrebbe aver piacere a consultare la pagina di Wikipedia relativa a questo singolare piatto gallese, il welsh rarebit, appunto, di origine settecentesca, al quale Nigellona si è moooolto liberamente ispirata per la rielaborazione di questa ricetta, apparsa originariamente in un libro americano, The Joy of Muffins. Troppo complicato? In questo caso, passate direttamente agli ingredienti e lasciate le preoccupazioni filologiche a chi voglia perderci qualche minuto).

Dicevamo...

(per Jörg e Luisa)

Welsh-Rarebit Muffins


(per 12 muffins)

225 gr. di farina autolievitante
50 gr. di farina di segale (io ho usato una normale farina integrale)
1 cucchiaino di lievito
½ cucchiaino di bicarbonato
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaino di senape in polvere
125 gr. di formaggio grattugiato (nella ricetta originale è il Cheddar; io in genere colgo l'occasione per dare un senso agli ultimi istanti di vita di pezzetti di formaggio che languono nel mio frigo; di solito opto per formaggi abbastanza saporiti: del pecorino, per esempio, 'tagliato' con un po' di caciotta di mucca o di Asiago; mai provato il parmigiano; voi sbizzarritevi)
6 cucchiai di olio (vegetale nella ricetta originale, ed è quello che uso io; se vi fa orrore anche solo l'idea, provate con dell'olio di oliva leggero)
150 gr. di yogurt intero (greco nell'originale)
125 ml. di latte intero
1 uovo
2 cucchiai di salsa Worcestershire

Preriscaldate il forno a 200°.

La procedura per i muffins è più o meno sempre la stessa.

Mettete in una ciotola capiente tutti gli ingredienti secchi.

In un bricco dosatore tutti gli ingredienti liquidi.

Versate questi ultimi nella ciotola di cui sopra, mescolate con una forchetta giusto per amalgamare (la mia amica Paolina dice che bisogna girare 7 volte, non una di meno e soprattutto non una di più), versate il composto grumoso nella teglia da muffins, eventualmente rivestita da pirottini di carta.

Fate cuocere per 20', trascorsi i quali tirate fuori velocemente la teglia, aggiungete un paio di gocce di salsa Worcestershire sul cucuzzolo di ogni muffin, rimettete sempre con velocità la teglia nel forno e aspettate altri 5'.

Non mangiateli appena sfornati (la temperatura sarà più o meno quella dei pomodorini di Fantozzi), ma non lasciateli raffreddare troppo. L'ideale è che siano ancora tiepidi (detto ciò, si riscaldano benissimo).

Anzi, l'ideale è che li mangiate insieme a qualche bella persona che fa parte della vostra vita, che ci sia entrata fin da subito in carne e ossa o sotto forma di parole su un monitor, sentendovi incredibilmente fortunati e privilegiati per aver incrociato la sua strada.

Enjoy!

sabato 10 aprile 2010

Un post su commissione 2: la super-crostata di ricotta

Nel suo commento al post sulla crostata sincretica di ricotta, Stefano Arturi ha espresso il desiderio di leggere la versione originale della torta di Ada Boni da cui la 'mia' (si fa per dire) ricetta ha preso ispirazione.

Siccome è un caro fanciullo cui vogliamo bene, lo accontentiamo immantinente, e con grande piacere!

Super-crostata di ricotta da Il talismano della felicità di Ada Boni (verbatim)

Burro g. 150
Zucchero al velo, 2 cucchiai e mezzo
Farina, 5 cucchiai colmi
Fecola di patate, 4 cucchiai
Buccia di limone
Zucchero in polvere, 5 cucchiai
Uova intiere, 3
Tuorli d'uovo, 2
Latte, un bicchiere
Ricotta, g.300
Cannella
Scorzetta di cedro ed arancia candite, 3 cucchiai
Uovo sbattuto
Zucchero vainigliato


Per la pasta frolla ci serviremo della nostra eccellente pasta frolla senz'uova. Impastate 150 g. di burro con due cucchiaiate e mezzo di zucchero al velo, e quando lo zucchero è assorbito, incorporate al burro quattro cucchiaiate colme di farina, quattro cucchiaiate di farina di patate e la raschiatura d'un limone. Unite bene tutti i vari ingredienti, fate una palla della pasta e lasciatela riposare un poco. Confezionate intanto una crema pasticciera con due cucchiaiate di zucchero in polvere, due rossi d'uovo, un cucchiaio colmo di farina e un bicchiere di latte. Dopo aver preparato la pasta e la crema bisogna preparare il composto di ricotta. Lavorate con un mestolo di legno in una terrina grammi 300 di ricotta, tre rossi d'uovo, tre cucchiaiate di zucchero in polvere e un pizzico di cannella; e quando la ricotta sarà ben sciolta, uniteci la crema pasticciera fredda, tre cucchiaiate tra cedro e scorza d'arancio canditi, che avrete tagliato in pezzettini, e tre chiare montate in neve. Amalgamate con garbo ogni cosa. Dividete la pasta frolla in due pezzi disuguali e col rullo di legno stendete il più grande allo spessore di pochi millimetri. Imburrate leggermente una teglia di venti centimetri di diametro - o meglio un cerchio da flan dello stesso diametro - e foderatela con la pasta già spianata, in modo da formare una specie di scatola. Versate in questa il composto di ricotta, e servendovi dell'altra pasta fate delle strisce come fettucce, che disporrete a reticolato sulla ricotta. Con la lama di un coltello regolarizzate intorno la crostata, doratela con un po' d'uovo sbattuto e mettetela in forno di giusto calore per mezz'ora abbondante. Quando sarà cotta accomodatela in un piatto e spolverizzatela di zucchero vainigliato.


martedì 6 aprile 2010

Di un (triste) anniversario, di colombe e solidarietà e di un semifreddo al torrone



Il post di oggi nasce da un'idea piccola ma geniale della cara Artemisia, di cui ho già parlato qui.

Un modo semplice ma concreto di sostenere, per quel che è possibile, qualcuno che proprio oggi, è ormai già un anno, ha visto la propria vita sconvolta e devastata dal terremoto in Abruzzo.

Un modo spontaneo e gaudente, a misura della sensibilità di ogni partecipante, di contribuire a un gioioso movimento di solidarietà.

L'iniziativa, rivolta a foodbloggers e non e coordinata in un blog nato per l'occasione, 99 colombe , intendeva sostenere e far conoscere un'azienda dolciaria abruzzese di fama e tradizioni antiche, la Sorelle Nurzia, da un anno a questa parte in (comprensibili) difficoltà.

La risposta, generosa e direi travolgente, è stata multiforme e varia: alcuni hanno creato poesie, foto, disegni, racconti, gioielli e fantasmagoriche colombe ritagliate nella carta; altri hanno acquistato dei prodotti della Sorelle Nurzia e li hanno utilizzati per la preparazione di una ricetta da pubblicare, tutti insieme, nel giorno di questo triste anniversario.

Io ho fatto il mio ordine circa due settimane fa e sono rimasta piacevolmente colpita dalla rapidità e dall'efficienza con cui è stato evaso ed è arrivato qui, a casa mia. So che gli ordini sono stati tanti, tantissimi, al punto da rendere necessaria la felice riassunzione di due persone che tempo fa, date le difficoltà, erano state licenziate. Non so come siano riusciti nel piccolo miracolo di far fronte a tutte le richieste, ma ci sono riusciti, e brillantemente. Un segnale di ottimismo e di grande coraggio e serietà, che rinfranca chi ogni tanto pensa gli sia toccato in sorte di vivere in uno dei periodi più bui e miseri della storia recente.

Quanto alla ricetta, ho pensato subito a un semifreddo al torrone, un altro cavallo di battaglia della mia mamma che, pur piacendomi moltissimo, chissà perché non avevo mai pensato di preparare.

Non so dove mia madre abbia preso la ricetta. Me l'ha dettata al telefono qualche sera fa, leggendola da un suo quadernino disordinatissimo e pieno di scarabocchi e appunti illeggibili (a lei per prima, tengo a precisare); ogni mio tentativo di conoscerne l'origine è stato vano.

Farsi dettare una ricetta al telefono da mia madre è un'esperienza. A volte comica, altre tragica.
È comunque e sempre una forma di espiazione, forse quella che mi è stata destinata in questa vita perché io mi purghi di certi orrendi crimini commessi in qualche esistenza precedente.

Ma tornando alla ricetta.
Solo dopo averla preparata e fotografata (e mangiata), mi sono accorta che era già stata proposta, in due varianti leggermente diverse, nel blog collegato all'iniziativa.
Ohibò, evidentemente altri hanno avuto la stessa idea. Ma non importa (spero).

Più che altro potreste pensare che un dolce del genere sia un po' fuori stagione, dato l'ingrediente principale.
Ma il torrone lo si può ordinare tranquillamente sul sito della Sorelle Nurzia, in ogni momento dell'anno.
Vi assicuro che ne vale la pena.



Semifreddo al torrone bianco della Sorelle Nurzia (da una ricetta della mamma di Duck, di origini ignote)

200 gr. di torrone bianco
2 uova, separate
4 cucchiai di zucchero
3 cucchiai di brandy
200 ml di panna

per la salsa

50 gr. di cioccolato fondente
50 ml di panna

Tagliate a pezzi il torrone (preferibilmente senza amputarvi qualche arto fondamentale; è una delle cose più dure che esistano in giro) e poi mettetelo in un robot da cucina e riducetelo in polvere. A me piace che rimangano dei pezzetti di mandorla interi, ma insomma è una questione di gusti.

Montate con la frusta i due rossi d'uovo con i 4 cucchiai di zucchero.

Unite il torrone e il brandy.

Montate la panna e aggiungetela delicatamente.

Montate a neve le chiare d'uovo e incorporatele con leggiadria e mano gentilissima.

Foderate una teglia da plumcake con la pellicola trasparente e versatevi il semifreddo.

Mettete in freezer e aspettate almeno 24 ore prima di mangiarlo, servendolo con la salsa al cioccolato (che preparerete versando sulla cioccolata a pezzetti la panna fatta riscaldare quasi fino al punto di bollore).

Tenete presente che è un semifreddo morbido, non indurisce anche dopo giorni e giorni nel freezer. Per questo motivo potreste forse preferire versarlo in un contenitore tipo Tupperware e servirlo come fosse una mousse, a cucchiaiate, in coppette o bicchierini in vetro (cosa che farò io la prossima volta).

Io l'ho preparato qualche giorno fa, dopo pranzo, un momento della giornata sempre molto silenzioso e quieto in questa casa, in cui i 3/4 della famiglia (la Spia e le due gatte) sonnecchiano beati in altre stanze.

Volevo esser sola e preparare tutto con concentrata attenzione, pensando bene a ciò che stavo facendo, al suo valore simbolico.

Ed ho pensato a quanto appagante sia dare il proprio piccolo, piccolissimo contributo ad un'impresa comune come questa, che è nata da un'idea apparentemente bizzarra e si è alimentata dell'energia solidale ed entusiasta di tutti i 'bizzarri' che se ne sono fatti portavoce e sostenitori.

Ed ho anche riflettuto su quanto poco ci voglia per dare una mano agli altri e su quanto spesso ce se ne dimentichi.

Ringrazio ancora Artemisia per avermelo ricordato e la Sorelle Nurzia per avermi fornito la materia prima di questo delizioso memento.

Enjoy!

sabato 3 aprile 2010

Del sincretismo e di una crostata di ricotta


Un mio vecchio fidanzato aveva l'abitudine di definirmi, con un tocco di divertito e compiaciuto snobismo, "un'animista sincretica".

Della mia indubbia propensione all'animismo ho già parlato in un altro post; quanto al sincretismo, quel signore alludeva alla mia spiccata tendenza a prendere dalla realtà gli elementi che in qualche modo 'parlano' alla mia sensibilità, anche se provenienti da dimensioni e territori diversi e a volte apparentemente inconciliabili, e ad associarli in nuove combinazioni che hanno senso magari (anzi, molto spesso) anche solo per me, e magari solo per un periodo della mia vita; combinazioni si spera armoniose che rispondano ad uno dei miei bisogni più sentiti, più genuini e vitali: trarre il meglio dalle mille realtà che mi trovo tra le mani ogni giorno.

La vita, però, non si piega sempre a queste operazioni combinatorie, più o meno ardite, cui spesso la sottopongo. Ci sono davvero alcune situazioni ed occasioni in cui ciò non è possibile. Credo che la mia personale idea di saggezza sia, tra le altre cose, la capacità di distinguere caso per caso, il capire quando mi è concesso uno spazio di manovra e quando invece mi viene chiesto di fare i conti con la mia impossibilità di modificare il reale e con la necessità di accettarlo per quello che è.

Per fortuna, la natura, la sorte, gli dei o chi per loro, mi hanno concesso un temperamento che si entusiasma e si compiace anche di piccoli, piccolissimi successi, e non si sente immiserito dall'applicazione di questa naturale tendenza al sincretismo anche agli ambiti più prosaici, modesti e quotidiani dell'esistenza.

Ultimamente, per esempio, sono stata scioccamente fiera di una crostata di ricotta, nata dall'elaborazione di tre diverse ricette, ma soprattutto dal desiderio di ricreare il gusto di una delle torte che amo di più e che mia madre mi faceva molto spesso per merenda quando ero piccola.

Negli ultimi anni, però, la ricetta che per anni ha dato vita ad infiniti e sublimi bocconi è stata sostituita da un'altra, altrettanto buona ma per me fatalmente meno 'suggestiva'.
Benché abbia tentato più volte di recuperare l'originale, non ci sono riuscita (la memoria di mia madre è quella che è e, data quella della figlia, la cosa non dovrebbe sorprendere affatto).

Poi, però, sono andata a prendere un tè nella fantasmagorica casa della mia amica Piera, un appartamento magico e fiabesco, labirintico e misterioso nel centro di Firenze, con una terrazza arrampicata sui tetti e una mansarda sospesa sulla città, piena di libri, gatti, fotografie e ricordi. Sono sicura che a casa di Piera entrando in un armadio si può accedere ad altri regni e di notte, per le scale, salgono e scendono benevoli folletti che la proteggono.

Nella sua cucina, con la gatta Lilly a ronfare sulle mie ginocchia, ho ascoltato con grande partecipazione il racconto (che intuisco essere solo un 'antipasto') della sua vita.

Sul tavolo di quella cucina, ad un certo punto, Piera mi ha messo di fronte una vecchia copia del ricettario della sua mamma, Il talismano della felicità di Ada Boni. Libro feticcio, libro culto di generazioni di donne italiane, libro che in alcune famiglie faceva parte della dote con cui si mandava in sposa una fanciulla, con quel bel titolo, un po' pretenzioso e un po' ingenuo, che alludeva a quotidianità serene ed operose, allietate da goduriosi ma legittimi piaceri casalinghi.
Che contrasto stridente tra il destino di questo libro, presente in tutti i tinelli e in tutte le cucine d'Italia da quasi ottant'anni, e il tono distaccato, assai poco simpatico e caloroso dell'autrice, che immagino essere stata tutto tranne una bonaria casalinga desiderosa di condividere i suoi segreti con altre 'colleghe'.

Un libro di cucina di famiglia, insomma, di quelli vecchi e marcati dal segno lasciato dal fondo di un bicchierino sporco di caffé, bevuto magari pensando a cosa fare per cena, con infilati tra le sue pagine liste della spesa e foglietti di appunti scarabocchiati di corsa per non dimenticare la variante della zia, dell'amica o della suocera, passato di madre in figlia. Forse ciò che più si avvicina alla mia personale idea di 'casa'. Non è un caso che io non ne abbia neanche uno.

Ma tenere in mano questo, che pure non è mio ma parla comunque, e a voce alta e in modo commovente e poetico, di una vita trascorsa anche in cucina, a far da mangiare a tanti figli e a tanti amici, è pur sempre un'esperienza emotiva di grande intensità e consolazione per me. E per questo ringrazio Piera, che forse intuendo il mio disagio nel custodire - anche se temporaneamente - un oggetto tanto prezioso appartenente ad altri e così poco in risonanza con la mia effettiva storia familiare, ha affettuosamente insistito perché io lo prendessi in prestito e lo sfogliassi, offrendomi il dono di vivere anche io un po' di quelle belle atmosfere.

Ecco dunque la ricetta di oggi: un misto della Super crostata di ricotta di Ada Boni, di una torta, sempre di ricotta ma al cioccolato di Tessa Kiros (di cui ho utilizzato anche le dosi per la pasta frolla), e della ricetta 'moderna' e 'spuria' della mia mamma.

Un tentativo quasi filosofico, appunto, di ricreare, da tutte queste suggestioni, una delle esperienze gastronomiche più appaganti della mia infanzia.


Crostata di ricotta (sincretica) di Ada Boni, Tessa Kiros e della mamma smemorata di Duck

pasta frolla:

250 gr. di farina
125 gr. di burro
125 gr. di zucchero
1 uovo intero + 1 tuorlo

per la crema:

300 gr. di ricotta
3 uova, separate
3 cucchiai di zucchero
cannella
scorza di un'arancia
100 gr. di cioccolato fondente, tagliato a pezzi (per me non troppo piccoli, grazie)

Per la pasta frolla, potete seguire un metodo assai poco ortodosso ma a mio parere ottimo e sperimentato (ne parla, ad esempio, anche l'ottimo Stefano Arturi nel suo English Puddings, di cui ho parlato qui).

Preparatela nel robot da cucina, usando burro tagliato a dadini e freddissimo (tenetelo in freezer per circa 15'): lavoratelo rapidamente, usando la funzione pulse, insieme alla farina e allo zucchero, in modo da ottenere qualcosa di simile alla sabbia umida.

Aggiungete poi l'uovo intero e il tuorlo e, sempre usando la funzione pulse, aspettate che il composto arrivi quasi al punto di creare un'unica palla. A quel punto tirate fuori l'impasto, compattatelo senza strapazzarlo troppo, schiacciatelo e avvolgetelo nella pellicola.
Lasciatelo riposare in frigo per una mezz'oretta.

Accendete il forno a 180° e stendete la frolla nella tortiera (per me un'impresa epica; sono una frana assoluta in questo e lo si nota dal bordo sfrangiato - che pare mangiato dai topi - della mia crostata).

Preparate la crema. Lavorate con la frusta i tre rossi con i tre cucchiai di zucchero, aggiungete la ricotta, la cannella, la buccia di arancia e la cioccolata. Infine le chiare montate a neve.

Versate la crema nel guscio di frolla (forse si può cospargere leggermente quest'ultimo di pan grattato per assorbire un po' l'umido della crema? La prossima volta ci provo); dedicatevi poi amabilmente alla creazione del motivo grigliato con gli avanzi della pasta. Io, per evitare di avere una crisi di pianto, chiamo in mio soccorso la Spia (quella di fare i cordoncini di pasta è un'altra operazione capace di ridurmi in lacrime per la frustrazione e il nervoso; non so perché).

Mettete in forno e cuocete per circa 35'-40'.

Potete servire la crostata dopo averla cosparsa di zucchero a velo (la quantità di zucchero nella crema è in effetti piuttosto misera; tenete presente che nella ricetta originale della Boni, insieme alla crema di ricotta, è prevista anche una bella dose di crema pasticcera), ma io la trovo perfetta anche così.

Mangiate, preferibilmente per merenda, con un bicchiere di latte freddo e ascoltando il disco di Walt Disney di Alice nel paese delle meraviglie.

Oppure, come ho fatto io qualche giorno fa, per colazione, il giorno dopo.

Ancora più buona.

Ancora più consolatoria e sincretica.

Enjoy!


sabato 27 marzo 2010

Della primavera, della pigrizia e di una vellutata di spinaci


La sera è raro che abbia voglia di cucinare.

Non so, di pomeriggio mi prende una pigrizia tutta particolare che mi fa spesso trascorrere le ore in modo poco produttivo e mi fa arrivare all'ora di cena con la sgradevole e strisciante sensazione di aver concluso poco o nulla e la certezza, assolutamente non strisciante ma granitica, di non voler combinare granché neanche per procacciarmi del cibo.

Per questo, spesso, preparare la cena è compito della Spia, che ciò significhi cucinare o semplicemente riscaldare qualcosa di già pronto preparato in precedenza.

In primavera la situazione degenera.

La natura si risveglia, gli uccelli cinguettano ubriachi fino al tramonto, le piante sul terrazzo sono tutto un tripudio di gemme e teneri germogli, le gatte Linda e Matilde saltano, corrono e chiacchierano più del consueto in preda a misteriosa frenesia ed io, invece, vengo presa da enorme sonnolenza. Vado in letargo quando tutto e tutti si destano dal lungo sonno invernale.

È sempre stato così.

Ricordo che a scuola i professori delle ultime ore si disperavano perché se non dovevo essere interrogata e non avevo dunque seri incentivi a rimanere sveglia, semplicemente mi accasciavo sul banco, occultata dalla mole massiccia del ragazzo seduto davanti a me, e rimanevo anche delle ore in stato di dormiveglia, cullata dal ronzio delle api in giardino e dal profumo delle rose che il bidello Artemio curava con il garbo e la passione che avrebbe avuto, al suo posto, una pallida e delicata gentildonna inglese del secolo scorso.

Ci sono delle sere, però, nelle quali, per qualche strana congiuntura astrale (e non sempre si tratta di quella stessa congiuntura astrale che fa sì che non ci sia nessun avanzo da riscaldare), spignatto ugualmente e senza lamentarmene, soprattutto quando si tratta di fare davvero quattro fesserie, come nel caso di questa vellutata, che praticamente si cucina da sola.

Uno di quei piatti che quando si è in letargo è bene conoscere.

Velouté d'épinards au cumin

ovvero sia, per la serie 'parla come magni'

Vellutata di spinaci e cumino da La cuisine de Julie di Julie Andrieu (con qualche modifica)

per 4 persone

1 cucchiaio di olio extravergine di oliva
1 cucchiaino di cumino in grani
1 spicchio d'aglio
350 gr. di spinaci surgelati (ovviamente sarebbe bello poterne usare di freschi, nel caso si possa; circa la quantità, però, non so aiutarvi; io farei almeno due bei mazzetti)
70 cl di brodo (vegetale o di pollo)
panna fresca o yogurt
parmigiano

Se siete di quelle persone che al solo pensiero di usare un brodo granulare si coprono di bolle e vengono prese da indignazione, non leggete ciò che sto per scrivere, e cioè che io lo uso quasi sempre, perché è rarissimo che abbia in casa tutti gli ingredienti per preparare un brodo vero decente.

Qualcuno sicuramente potrà trovare pretestuoso il mio giustificarmi affermando che nella mia cucina raramente si registra la compresenza di cipolle, carote e sedano, ma tant'è, è la verità, e io non la nascondo.

Di qualunque brodo vi serviate, comunque, portatelo a bollore in un pentolino e tenetelo in caldo da parte.

Fate scaldare il cucchiaio di olio d'oliva, soffriggetevi i grani di cumino per un paio di minuti a fuoco medio, aggiungete lo spicchio d'aglio (intero se poi volete eliminarlo, passato allo spremiaglio in caso contrario) e gli spinaci, lasciando cuocere per 5'.

Versate quindi il brodo, portate a bollore, mettete un coperchio e lasciate sobbollire dolcemente per circa 15'.

A questo punto potete spegnere, ridurre la minestra in crema usando il frullatore a immersione e versare nei piatti.

Aggiungete, a discrezione, qualche cucchiaiata di yogurt o di panna fresca e, se volete, anche delle scaglie di parmigiano.

Se siete come me, dopo aver consumato questa 'entrée raffinée' - per dirla con Julie Andrieu - trascinatevi anche voi verso il divano più vicino, tirate fuori il vostro lavoro a maglia e rimanete imbambolate per almeno un quarto d'ora, con i ferri in grembo e una mano a giocare con le orecchie del vostro compagno.

Indi, rassicurate circa la vostra sorte (il vostro compagno è lì, e di buon grado vi lascia giocare con i lobi delle sue orecchie) e consapevoli di esservi offerte e avere offerto una cena tra le più salutari e delicate che esistano, trascorrete in beata sonnolenza la serata.

Enjoy!


giovedì 18 marzo 2010

99 colombe

Una breve nota per avvertirvi che la vulcanica e generosa Artemisia sta coinvolgendo molti foodbloggers italiani in un'iniziativa lodevole quant'altre mai: dare una mano ad una storica azienda dolciaria abbruzzese, la Sorelle Nurzia, famosa soprattutto per i suoi torroni - di cui da bambina ammiravo l'incarto, con le due ninfe danzanti stile Art-Déco -, ma non solo.

Allo scopo è nato un blog, che avrà vita breve ma si spera assai intensa, 99 colombe: uno spazio aperto a quanti vorranno farsi coinvolgere, per una volta tanto, in una cosa bella, buona e giusta.

Dati i tempi che corrono, un'occasione da non perdere.

domenica 14 marzo 2010

Cani neri di Ian McEwan

Ho letto diverse recensioni di questo romanzo su aNobii e se non ricordo male ve ne erano almeno un paio il cui senso era più o meno: dicono che questo sia un grande romanzo, ma evidentemente deve essermi sfuggita la ragione di questa sua grandezza.

E pensavo al fatto che, secondo me, dei libri capiamo tutto quello che, in quel momento, ci serve capire, tutto quello che di essi può tradursi, più o meno felicemente, nella nostra vita vissuta.
Questa è la cosa importante, e basta: che ciò che leggiamo diventi davvero parte del tessuto della nostra vita. Il resto, tutto ciò che non capiamo, che non cogliamo, che non sentiamo vibrare dentro di noi, non è importante, non ci è 'utile'. Magari lo sarà più in là, quando altre esperienze avranno aperto in noi altri occhi e altre orecchie per vedere e sentire cose che adesso non vediamo e non sentiamo. Magari no. E va benissimo così.


Quanto a me, ogni nuovo libro di McEwan che incrocia la mia strada è un incontro con quello che, ora posso ben dirlo dopo aver letto diversi suoi romanzi, è sicuramente uno dei miei scrittori di riferimento e insieme un'occasione, ogni volta differente ma ugualmente significativa e importante e preziosa, di riflessioni su temi assai vicini alla mia sensibilità.

Il mio amico Alberto mi chiedeva se quel giorno in cui ho sfilato dallo scaffale della biblioteca questo smilzo volume dell'Einaudi sapessi già qualcosa della storia o se invece mi sia imbattuta in Cani neri esclusivamente in base a quella sincronicità* che spesso invoco quando cerco di spiegare certi incontri misteriosamente 'tempestivi' con alcuni libri.

Non riesco a convincermi che sia stato un puro caso che questo romanzo di cui, incredibile a dirsi, non avevo mai sentito parlare, mi sia quasi caduto in grembo proprio in un momento in cui mi interrogavo, non senza strazio e intensità, su molte questioni in esso affrontate e fondamentali nella mia esistenza, non ultima le differenze profonde tra me e colui cui ora mi accompagno.

In molte pagine ho avuto la straniante sensazione che McEwan avesse scritto questa storia pensando proprio a noi, alle nostre spesso inconciliabili filosofie di vita, alla fatica che facciamo per raggiungerci superando i baratri che, in alcune occasioni, ci si aprono sotto i piedi e ci troviamo, io da una parte lui dall'altra, a guardare alla stessa realtà da prospettive diametralmente opposte, giungendo dunque a conclusioni diversissime e patendo il senso di solitudine e di impotenza che ci assale quando, con malinconia, ci rendiamo conto che l'altro, per quanti sforzi faccia e per quanto desideri vedere il mondo con i nostri stessi occhi, non può farlo.

È evidente quanto i due protagonisti di questa storia siano dei personaggi di gran lunga più estremi e interessanti e 'pittoreschi' di quanto possiamo esserlo (anche nelle nostre giornate peggiori; o migliori, dipende dai punti di vista) io e il mio compagno.
June e Bernard si innamorano durante la seconda guerra mondiale e scoprono nello stesso momento l'esaltazione dell'amore e della passione politica condivisa per il comunismo.
Durante la loro luna di miele in Francia, tra passeggiate nelle campagne e soste in piccole locande, i due giovani discutono per ore infervorati di politica e di idee, progettano entusiasti e pieni di speranza un futuro comune, fatto di impegno sociale, operosità, cambiamenti, eccitanti prospettive.

Ma durante una delle loro lunghe escursioni accade qualcosa che cambia radicalmente il loro destino e scava una distanza che con gli anni si farà sempre più profonda e incolmabile e li porterà, infine, a decidere di vivere separati, ognuno abbracciando una visione della vita diametralmente opposta e inconciliabile con quella dell'altro.

In quella mattina accecata dal sole, June, per la prima volta in vita sua, accede a quella dimensione spirituale dell'esistenza cui è sempre stata cieca e insensibile: la sua è un'esperienza intensa, traumatica e terrorizzante, e vissuta in piena solitudine, dunque in definitiva incomunicabile, come spesso è ogni incontro tra l'umano e il divino (qualunque cosa questo termine abusato e vago possa significare per ognuno di noi), che demolisce ogni legame con il passato e con quelle che, ai suoi occhi, sono diventate idee limitate e false della realtà.
Bernard, che è rimasto escluso da quell'esperienza della quale, dunque, non ha vissuto la violenza e la potenza trasformatrice, interpreta questa profonda metamorfosi della donna che ama come un tradimento personale e una delusione profonda.

Il baratro che si scava tra i due è tale da costringerli a separarsi fisicamente: June rimarrà in quella terra francese dove ha vissuto la sua personale esperienza di illuminazione e vivrà una vita di raccoglimento e meditazione; Bernard tornerà in Inghilterra e si dedicherà attivamente e generosamente alla politica. Per i successivi cinquant'anni, i due continueranno a combattere una personalissima guerra senza quartiere, nel disperato e aspro tentativo di conquistare l'altro alle proprie ragioni e alle proprie convinzioni, senza riuscirci mai. Pur continuando ad amarsi e a considerarsi, in fondo, interlocutori privilegiati, quest'uomo e questa donna non saranno più capaci, in tutta la loro lunga vita, e nonostante la presenza dei figli, di vivere insieme, ma neanche di smettere di amarsi e di essere ossessionati l'uno dall'altra.

Il contrasto quasi epico tra queste due opposte visioni della vita è, però, solo uno dei temi portanti del romanzo, ed ogni volta è per me fonte di ammirata sorpresa accorgermi di quanto un autore come McEwan (o come Roth, a mio avviso) riesca, in poche pagine, a costruire non solo una storia perfettamente autonoma e credibile e coinvolgente, ma anche a porgere al lettore una quantità di stimoli incredibile, tutti di grande spessore e, quel che ha del miracoloso, tutti perfettamente inseriti nel racconto.

C'è infatti un altro, per me interessantissimo, tema centrale nel romanzo, la riflessione affidata alla voce narrante, quella di Jeremy, che di June e Bernard ha sposato la figlia, trovando in questa vecchia coppia di estremisti quei genitori che un incidente automobilistico gli ha sottratto all'età di otto anni.

Molte sono le pagine in cui questo personaggio si fa portavoce di riflessioni a tratti malinconiche, a tratti invece di obiettiva e spartana lucidità, su quello che significa crescere senza il sostegno e la protezione che due genitori dovrebbero garantire ai loro figli, su quanto questa mancanza, quest'assenza incida, in modi spesso inaspettati e apparentemente irrelati, non solo sul proprio modo di vivere i rapporti, ma anche sulla visione della vita che durante il proprio percorso ci si costruisce e su come non sia impossibile, benché di sicuro sia doloroso e difficile, curare se stessi prendendosi amorevolmente cura dei propri figli, per sanare, amandoli, le ferite che da bambini abbiamo patito.

Come già in Bambini nel tempo, dalla penna di McEwan fluiscono pensieri e immagini che si sente essere nati da un autentico, sincero sentimento di compassione e di comprensione per il mondo in fondo misterioso e assai frainteso dell'infanzia che questo scrittore approccia sempre con grande garbo, con vero e raro rispetto, senza nessuno smielato sentimentalismo di maniera.


*(da Wikipedia:

La sincronicità è un termine introdotto da Carl Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. La sincronicità è relativa quindi alle 'coincidenze significative'.)



Ian McEwan, Cani neri, Einaudi 1993, traduzione di Susanna Basso.