
Da qualche anno collaboro con una casa editrice come traduttrice, la stessa casa editrice per la quale, più di dieci anni fa, ho fatto per un po' la correttrice di bozze, due lavori entrambi tragicamente sottopagati.
Per molti versi, può risultare comprensibile che la correzione delle bozze venga considerata tanto poco in termini retributivi: è un lavoro cui non si attribuisce alcuna valenza 'creativa' e, in quanto tale, rientra nell'ambito della bassa e bruta manovalanza editoriale.
Chi corregge un libro deve solo seguire regole precise, stabilite per convenzione e per lo più condivise dalla maggior parte delle case editrici. Deve dunque avere la conoscenza di queste norme (e una piccola dispensa allungata da un redattore in occasione del primo lavoro è in genere più che sufficiente a garantirla) e, ovviamente, un occhio allenato: su centinaia di pagine può sempre scappare una virgola eccentrica o una
e corsiva che invece dovrebbe essere tonda.
Detto ciò, a me pare che sia comunque ingiusto non retribuire dignitosamente un lavoro che per molti versi è assolutamente alienante e provoca livelli di stanchezza fisica e mentale che solo chi lo ha svolto può comprendere.
Risulta, invece, meno comprensibile il motivo per cui anche il lavoro del traduttore sia tanto poco riconosciuto. Che nella traduzione, infatti, sia presente un forte elemento creativo, mi pare fuor di dubbio. Eppure, sono stati pubblicati libri su libri che indagano il rapporto ambiguo, sfuggente, complesso (
traduttore-traditore è una vecchia espressione sempre tirata in ballo in questo contesto) tra il testo letterario originale, nato dalla mente, dalla sensibilità, dall'esperienza di un autore e quello in un certo senso 'nuovo', anche se generato da quello stesso testo, partorito invece dalla mente, dalla sensibilità e dell'esperienza di un traduttore, un essere umano, quasi sempre un filo nevrotico e spesso con spiccate tendenze eremitiche, che passa gran parte delle sue giornate solo come un cane, ossessionato dalle parole anche nel sonno, e la cui principale relazione, per mesi, è con un libro, un computer e svariate tonnellate di dizionari (i profani non immaginano di quanti tipi ne esistano).
Chi traduce narrativa (perché è di questo che si parla qui; la traduzione saggistica è, in parte, un'altra cosa e, anzi, tanto per sgombrare il campo di ogni possibile equivoco, chiarisco subito che io per ora ho tradotto solo testi di astrologia), chi traduce narrativa, dicevo, è davvero chiamato, a mio parere, ad assumersi responsabilità non da poco. Si fa mediatore e canale di trasmissione tra due mondi: quello dell'autore e quello di un pubblico che altrimenti non potrebbe leggere, godere, vivere libri scritti in idiomi stranieri e che resterebbe dunque tristemente all'oscuro dell'esistenza di testi meravigliosi e fondamentali.
Per questo fa tanta più rabbia ritrovarsi tra le mani libri tradotti in modo sciatto, superficiale, disattento, nati dal poco amore - in parte comprensibile - per un mestiere che invece, per quanto sottopagato e vilipeso, può davvero far molto per la diffusione della cultura e della passione per la lettura. Un testo tradotto e rivisto male (perché un libro mal tradotto che arriva in libreria è anche e soprattutto un libro mal rivisto, o rivisto con la stessa sciatteria, superficialità e disattenzione con cui è stato tradotto) nuoce a tutti: all'autore che l'ha scritto, che vede la sua creatura, partorita spesso con appassionato e doloroso accanimento, stravolta dal pressapochismo e dall'incuria altrui; al traduttore che lo traduce, che si priva della possibilità di redimere la fatica del suo mestiere nella bellezza e nel senso di umile orgoglio che può provare nel farsi prezioso mediatore e, soprattutto, al lettore che, a parte rari casi di assoluta insensibilità, invece di esser messo in condizione di avvicinarsi con piacere e con passione ad una nuova occasione di conoscenza e di bellezza e, prima di tutto, ad un altro essere umano (l'autore), ne viene brutalmente allontanato.
Da accanita e ossessiva lettrice (e da traduttrice), non dimentico mai il debito di gratitudine che porto ai tanti eremiti nevrotici che mi hanno permesso, negli anni, di leggere testi che altrimenti mi sarebbero rimasti ignoti. Anche perché spesso i traduttori sono anche i promotori di un libro: lo hanno letto, se ne sono innamorati, lo hanno proposto a qualche casa editrice e ne sono poi diventati traduttori. È grazie anche al loro amore per un libro e all'ostinazione con cui, spesso, se ne sono fatti padrini, a dispetto dell'indifferenza o dell'ignavia delle case editrici (soprattutto quando si tratta di testi coraggiosi, importanti), che anche noi veniamo presi da passione e da amore per quel libro. Uno splendido, e a volte assai faticoso, circolo virtuoso.
Il traduttore è chiamato dunque a svolgere un compito paradossale: in parte ricrea il testo, perché comunque lo fa rinascere in un idioma diverso da quello in cui è stato pensato e generato e per farlo attinge alla propria esperienza, non solo linguistica, ma anche personale, di vita; in parte, invece, si nasconde, si rende invisibile, si concentra tutto nell'ascolto della voce del 'suo' autore: cerca di ricrearla, di riprodurne la cadenza, il timbro, le particolarità, come un imitatore che di un personaggio studi la postura, il modo di camminare, i tic, gli intercalari, le espressioni tipiche.
Si tratta di un'operazione complessa, che richiede sensibilità, umiltà, disponibilità e una certa assenza di protagonismo. Un'operazione che può insegnare una nuova forma di rispetto e di attenzione: per un testo, in primis, ma anche e soprattutto per l'essere umano che a quel testo ha dato vita.
La traduzione è per me, oltre che un lavoro disperante e bellissimo che assai di rado e in modo del tutto discontinuo mi dà qualche soldo, soprattutto una disciplina quasi spirituale. Come dice Emanuela Bonacorsi (uno dei traduttori-autori di
Il mestiere di riflettere):
(...) basta una svista, un errore oppure un abbaglio, una stanchezza, un narcisismo per piegarsi a inseguire un vagheggiamento che non appartiene al testo, ed ecco perpetrato il tradimento.
Il mestiere di riflettere è una raccolta di brevi testi, a metà tra il saggio e il mémoir, scritti da alcuni noti traduttori italiani. Ognuno ha il suo stile, il suo taglio particolare: ironico, intimista, autobiografico, tecnico, meditabondo, astratto. Tutti hanno in comune questo tormentato interrogarsi su quel confine scivoloso e ambiguo che esiste, appunto, tra traduzione come operazione 'neutra' e traduzione come operazione, invece, 'creativa'. Tutti oscillano tra il desiderio di rivendicare il proprio personale, artistico contributo e il bisogno di riconoscersi strumento flessibile, il più possibile trasparente e non invasivo, della voce altrui.
Non tutti questi testi sono a mio parere interessanti; alcuni li ho anzi trovati privi, per me, di stimoli e spunti di riflessione. Ho amato invece, moltissimo, quello di Giuseppe Iacobaci, così personale e 'scoperto' e disarmato nel confessare senza mezzi termini la straniante miscela di insicurezza, paura, euforia, eccitazione e angoscia che ogni nuovo testo (soprattutto se molto amato) porta con sé.

A chi fosse interessato, per questioni professionali o di puro masochismo intellettuale, a leggere qualche altra riflessione 'dall'interno' sul mestiere della traduzione, sentirei invece di consigliare l'ottimo
Gli autori invisibili di Ilide Carmignani, una raccolta di interviste a famosi e autorevoli traduttori italiani (ma anche a chi di traduzione si è occupato 'tangenzialmente' ma con maestria, come Claudio Magris o Cesare Cases).
Difficile dire, tra le molte interviste, quale io prediliga, ma quella a Delfina Vezzoli (traduttrice, tra le altre cose, dei romanzi di David Leavitt, di
Underworld di Don De Lillo, de
Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, tanto per citare alcune delle sue fatiche) è senz'altro tra le mie preferite.
Ai giovani che abbiano la pazza idea di diventare traduttori, la Vezzoli consiglia di farsela passare, prima di tutto.
Qualora però la passione, il sacro fuoco e la volontà masochistica di condannarsi ad una vita quasi di stenti siano superiori a qualunque considerazione razionale e pratica, bisognerebbe almeno che non si leggessero nel dettaglio i codicilli del contratto di traduzione perché
"È un contratto di lavoro a cottimo, preindustriale: non fateci caso, altrimenti la tentazione di maciullare il testo invece di tradurlo potrebbe essere travolgente. La gente dell'editoria per fortuna è molto migliore dei contratti che stila".
Verissimo.
Secondo me è anche per questo che esistono ancora molti eremiti nevrotici sfruttati ai limiti dell'indecenza che amano appassionatamente questo mestieraccio infame e meraviglioso.
Autori Vari,
Il mestiere di riflettere. Storie di traduttori e traduzioni, Azimut 2008.
Ilide Carmignani,
Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria, Besa 2008.