venerdì 30 luglio 2010

Di un tempo bizzarro, di tempi incerti e di un'insalata


Son giorni strani, questi, da queste parti.

Giorni in cui l'afa e la calura umida che in genere, in questo periodo dell'anno, opprimono senza nessun garbo questa città e i suoi abitanti sono state sostituite da piogge, temporali e da una brezza fresca che a tratti fa venire voglia di infilarsi un maglione di cotone e un paio di calzini.

Io non mi lamento affatto di questo tempo bizzarro, anzi.

E sto pensando di farmi, per cena, una bella zuppa di legumi.

Ma prima, un'insalata tra le mie preferite.


per 4 persone:

Watermelon, feta and black olive salad
da Forever Summer di Nigella Lawson
(con qualche piccola modifica)

1 cipolla rossa di Tropea
2 cucchiai di aceto (io ho usato quello di mele)
4 cucchiai di olio d'oliva
700-800 gr. di anguria
125 gr. di feta
prezzemolo
menta
50 gr. di olive nere
sale e pepe


Tagliate assai finemente la cipolla.
Se avete una mandolina, usatela, evitando di affettarvi qualche polpastrello (o capita solo a me?).

Disponete gli anelli in una ciotola, aggiungete i due cucchiai di aceto e i 4 di olio, mescolate, coprite con della pellicola e lasciate riposare per circa 2 ore (meglio un'ora in più che in meno).

Quando siete pronti, pulite l'anguria dai semi (io odio farlo e in genere lascio questa incombenza alla Spia), tagliatela in pezzi non troppo grandi e mettetela nella ciotola in cui poi la servirete.

Aggiungete anche la feta - a tocchetti o semplicemente sbriciolata-, le foglie di prezzemolo, quelle di menta e le olive nere, che avrete denocciolato al momento e tagliato a metà.
Vi sconsiglio vivamente di usare le olive già denocciolate: nel migliore dei casi sono molto meno saporite di quelle con il nocciolo; nel peggiore sono semplicemente orrende.

Infine unite gli anelli di cipolla, resi trasparenti e lucidi dalla marinatura, salate (con mano leggera, c'è già la feta), pepate, mescolate delicatamente e portate in tavola.

Non sarei onesta se vi dicessi che questa insalata piacerà a chiunque.
Non sarà così.

È un piatto che suscita reazioni estreme, o almeno questo è ciò che ho notato io, non quei commenti gentili ma ambigui ("Ha un sapore complesso", oppure "Interessante...") che si accompagnano a piluccamenti tentennanti e incerti.

All'inizio aspettatevi qualche occhiata perplessa da parte di chi se la troverà in tavola, e anche qualche netto e fermo rifiuto preconcetto ("No, grazie, io prendo l'insalata di pomodori").

L'anima curiosa che invece l'assaggerà e la troverà di suo gradimento ne sarà entusiasta e se ne mangerà una tonnellata.

Se vi incuriosisce, provatela.

La cucina è uno di quei pochi luoghi al mondo in cui seguire la propria curiosità può portare tutt'al più, se proprio va tutto storto, a uscire all'ultimo minuto per andare a mangiare al ristorante - e magari viene fuori pure una serata carina e simpatica - oppure a prendersi del bicarbonato per digerire prima di andare a dormire (oddio, volendo può portare anche a bruciare o a far esplodere la cucina stessa o l'intero palazzo, oppure invece che al ristorante si può finire in ospedale per una lavanda gastrica, ma non siamo catastrofisti - per una volta).

A me questa consapevolezza fa sentire bene.
Un po' come saltare nel vuoto sapendo che sotto c'è una rete sicura, in caso di caduta.

Di questi tempi incerti e oscuri, una consapevolezza preziosa come l'oro.

Enjoy!

domenica 18 luglio 2010

Dell'entusiasmo, di ricerche e di una torta estiva


Chi mi conosce sa che una delle mie caratteristiche più evidenti è la mia capacità di entusiasmarmi davvero per poco.

Basta che mi arrivi la cartolina di un amico o che dal giornalaio ci sia la rivista che aspettavo perché la mia giornata viri irrimediabilmente al bello.

Trovare frutta o verdura particolarmente buona e saporita quando vado a fare la spesa o giungere alla soluzione di un problema pratico che magari mi assillava da un po' sono altri motivi più che sufficienti perché per tutto il giorno mi si stampi un sorriso soddisfatto sulla faccia (con grande, affettuosa e a volte sarcastica incredulità della Spia, persona di maggiori e più profonde inquietudini, di quelle che possono trovare una momentanea requie solo grazie a un piatto di fumanti spaghettini al pomodoro).

Essere rientrata finalmente in possesso di una cucina del tutto funzionante è stato per me motivo di somma gioia, una gioia che però ho dovuto attendere di celebrare (ho avuto un periodo un po' vivace dal punto di vista, diciamo così, lavorativo e ho frequentato i fornelli molto poco, direi proprio il minimo sindacale).

Ieri pomeriggio, dopo settimane di insalate e mozzarelle, couscous alle verdure e piatti di bresaola, ho finalmente deciso di festeggiare una serie di eventi fausti facendo una torta.

Volevo cimentarmi con qualcosa di nuovo e ho dunque passato una buona mezz'oretta cercando tra i miei libri di cucina una ricetta adatta (per me esistono poche attività tanto appaganti quanto questa: starmene in piedi davanti alla mia Billy rossa, o appollaiata sullo sgabello della cucina, a sfogliar libri e a confrontare ricette).

Ovviamente avrei voluto fare uno di quei dolci tipicamente invernali con ganache al cioccolato, frutta secca, spezie e arance e una parte di me non trovava niente di strano in tutto ciò.
Infine è prevalso quel che si potrebbe definire buon senso (evidentemente ce l'ho anche io), anche se non è stato facile trovare qualcosa che andasse bene per la stagione e che mi ispirasse il giusto.

Poi, finalmente, ho avuto un'illuminazione: era parecchio tempo che avevo voglia di cimentarmi con un tipico dolce inglese, la Victoria Sponge Cake (che altro non è se non la versione albionica del pan di Spagna), che viene in genere farcita con marmellata e panna montata e poi ricoperta da un leggero strato di zucchero.

Volevo una ricetta il più semplice e rapida possibile, dunque ho optato per l'All in One Sponge di Delia Smith, che è una versione assai eterodossa di quella originale.

Dopo una breve ricerca, svolta consultando il mitico Mrs Beeton's Household Management - il manuale per antonomasia della perfetta padrona di casa dei tempi vittoriani - e, ovviamente, English Puddings del caro Stefano Arturi, sono infatti giunta alla conclusione che la versione originale non preveda l'uso di burro, ma soltanto di farina, uova, zucchero, scorza di limone ed estratto di vaniglia (o di mandorla, o un po' di brandy).

Questi ingredienti danno una torta leggerissima ma che, a quanto pare, si conserva molto poco; ecco perché, in tutte le versioni 'moderne' che ho potuto mettere a confronto, è presente il burro.

La procedura spiccia e poco elaborata di Delia Smith mi ha molto soddisfatta, ma in futuro vorrei provare comunque le due versioni 'arturiane', leggermente più complesse (le trovate nel suo libro su citato, alle pagine 24-26; mi piace soprattutto il fatto che la tortiera venga imburrata e, anziché infarinata, inzuccherata).

Il risultato finale è piaciuto moltissimo alla Spia (e ciò ci ha alquanto rallegrati) e anche a me (cosa nient'affatto ovvia, dati i miei gusti).

Certo, niente a che vedere con il pan di Spagna della mamma, morbido, alto, soffice, leggerissimo.

Per quello ci vuole ben altro...


All in one sponge
di Delia Smith (da Delia's Complete Cookery Course)

per due teglie da 18-20 cm. di diametro, imburrate e infarinate e con un fondo di carta da forno

110 gr. di farina autolievitante, setacciata
1 cucchiaino di lievito per torte
110 gr. di burro, a temperatura ambiente
110 gr. di zucchero
2 uova, grandi
1 cucchiaino di essenza di vaniglia

Preriscaldate il forno a 170°.

In una ciotola capiente, setacciate (di nuovo) la farina e il lievito, tenendo alto il passino - per permettere alla farina di essere abbondantemente aerata.

Poi, molto semplicemente, unite gli altri ingredienti e, usando preferibilmente le fruste elettriche, amalgamateli perfettamente.

Se il composto fosse un po' troppo secco, aggiungete 1 o 2 cucchiaini di acqua tiepida (io li ho aggiunti) e mescolate.

Dividete il più equamente possibile il composto tra le due tortiere, livellate la superficie e fate cuocere per circa 30', trascorsi i quali tirate fuori le due tortiere e attendete 30 secondi.

Passate una spatola tutto intorno alle due torte per facilitare il loro distacco, rovesciatele su una gratella, togliete delicatamente la carta da forno e lasciate completamente raffreddare.

Solo allora potrete farcirle come più vi aggrada e cospargerle - volendo - di zucchero a velo o semolato: io ho optato per uno strato di marmellata di frutti di bosco e uno di panna montata (125 ml), perché mi sembrava che l'abbinamento fosse molto inglese e molto estivo.
Ma deve essere buonissimo anche il lemon curd (con cui ho farcito, tempo fa, una semplicissima torta allo yogurt; ne riparleremo) e, ovviamente, una qualche bella ganache al cioccolato - ma non ditelo all'Arturi.

Enjoy!

sabato 10 luglio 2010

Di antenati e di famiglie mai avute e della prozia Lina

Qualche tempo fa vi avevo presentato brevissimamente la mia prozia Lina, inquieta viaggiatrice ed accumulatrice (probabilmente compulsiva) di oggetti di ogni sorta.

Mi ero ripromessa di tornare a parlarne, una volta o l'altra, benché, a ben guardare, non siano molte le cose che so di lei.

Non so molto della mia famiglia, a dire il vero, né di quella materna né, tanto meno, di quella paterna.

Per motivi troppo complessi (e noiosi) e la cui natura mi è chiara solo in parte, sono stata cresciuta da un uomo e una donna che in qualche modo avevano chiuso, molti e molti anni prima che io nascessi, quasi ogni rapporto con i loro parenti.

Da qui una pressoché assoluta mancanza, nella mia infanzia e nella mia giovinezza, di un legame costante, affettuoso, al limite anche opprimente, con una 'famiglia'.

Zii e cugini di parte paterna (quelli di parte materna erano in Veneto e li vedevo, se possibile, ancora di meno) sono sempre stati per me persone incontrate assai di rado e in compagnia delle quali ho sempre provato un misto di imbarazzo e timore reverenziale.

Adesso mi viene da sorridere pensando alla bambina che ero, sempre a disagio e in soggezione di fronte a questi parenti 'esotici', che abitavano a Roma come noi ma in un quartiere di 'signori' e avevano case bellissime, arredate dall'architetto, che profumavano di mobili d'antiquariato, potpourri alle spezie contenuti in lucide boules d'argento, antichi lini preziosi e cera per parquet.

E che umiliazione ogni volta nel confrontare i miei vestiti dismessi dai miei fratelli maggiori e quelli delle mie cugine, sempre alla moda e provenienti dai migliori negozi della città.

Ho dei vaghi ricordi della prozia Lina, che è morta pochi anni dopo la mia nascita.

Anzi, non sono nemmeno sicura che i miei ricordi non siano in realtà soltanto reminiscenze di foto che le furono scattate in tardissima età, da me intraviste in qualche album a casa delle mie zie.

Come che sia, l'immagine che ne ho è quella di una donna alta e curva, sempre vestita di nero e con un infinito filo di perle al collo, i capelli grigi raccolti sulla nuca da innumerevoli e minuscole forcine, ed orecchini di diamanti ai lunghi lobi delle orecchie.


Eccola qui, insieme alla sorella minore Olga (la mia nonna paterna) e al fratello Umberto.

Delle due sorelle, Lina fu sempre considerata la meno attraente e per questo le fu consentito di studiare e di diventare maestra.

Benché i miei bisnonni non fossero entusiasti all'idea di avere una figlia 'lavoratrice', probabilmente pensarono che un'occupazione come quella, per la quale Lina mostrava grande passione e che si addiceva comunque ad una signorina di buona famiglia, potesse rivelarsi un' àncora di salvezza nel caso in cui la loro primogenita fosse rimasta zitella.

Ecco una delle mie foto preferite: Lina è in primo piano a destra, durante una lezione di disegno e pittura nel collegio in cui fu educata, ma io sono sempre stata attratta dalla ragazza dietro di lei, col capo chino e quell'espressione concentrata e assorta, che si indovina essere stata assai graziosa.

La sua più avvenente sorella, Olga, venne invece cresciuta in funzione di un buon matrimonio: le fu garantita una minima istruzione, le fu imposto un po' di pianoforte (a Lina il liuto) e le furono insegnati i lavori femminili (anche se da sposata preferì sempre avere le sue ricamatrici e le sue sarte).

Ma soprattutto fu rifornita di uno splendido guardaroba e gettata sul mercato delle frequentazioni giuste.

Olga si sposò a 15 anni, con un uomo (mio nonno) che aveva quasi il doppio della sua età e che lei non aveva scelto.

Di sicuro Ferdinando adorò Olga dal primo momento in cui la vide e i genitori di lei acconsentirono di buon grado al matrimonio.

Quanto a lei, sembra fosse solita ripetere alle sue figlie che non bisogna mai sposarsi con l'uomo che si ama, ma con un uomo cui si vuol bene sì.
E a giudicare dalle foto che ho visto dei miei nonni, non ho motivo di dubitare che, col tempo, Olga avesse imparato a voler bene a quell'uomo che le era stato imposto.

Lina intanto aveva tante amiche, insegnava, fece il suo dovere di crocerossina durante la prima guerra mondiale (eccola qui in una foto in studio con il fratello), e alla fine, quando tutti la pensavano ormai destinata ad una vita da zitella, si sposò. Con un uomo di cui non so nulla, a parte il nome, che da piccola mi facevo ripetere dal mio babbo come una sorta di buffa filastrocca: Bernardino Bernardoni. Un omino piccolo di statura ma polputo, che assomigliava vagamente a Alfred Hitchcock, a quanto pare di buon carattere e molto paziente - benché con un filo di innocua bizzarria - che quando la rese vedova la lasciò addolorata il giusto, ma soprattutto libera di viaggiare.

Non credo che Lina si sia mai spinta al di là delle frontiere italiane, se non per recarsi in Francia e in Svizzera. Per lo più girò tutta l'Italia, acquistando ovunque cartoline e souvenir in quantità industriali.

Dei suoi libri a me ne sono arrivati solo un paio: una grammatica e un manuale di pronuncia di lingua inglese, con i suoi appunti e gli esercizi diligentemente svolti. So che studiò da sola anche il tedesco (il francese lo aveva imparato da giovane, quando questa lingua era ancora bagaglio obbligato di qualunque educazione rispettabile).

Di lei rimane anche un nastro - ormai temo inascoltabile perché troppo vecchio -, registrato da mio padre una sera, in cui la si sente raccontare ai miei due fratelli maggiori la fiaba del grillo e la cicala.

Lina doveva essere davvero molto anziana, a giudicare dalla voce, assai gracchiante ma senza il minimo accenno di incertezza e con un meraviglioso accento lucchese, appena appena appannato dai molti anni trascorsi a Roma.

Nella disinvoltura con cui racconta la sua favola , cambiando le voci a seconda dei personaggi, rispondendo sicura alle domande dei miei fratelli, si sente quanto Lina - che di figli non ne ebbe mai - abbia vissuto sempre per e con i figli degli altri.

Peccato non averla conosciuta, non aver mai potuto sedere con lei in giardino a leggere un libro o a chiacchierare e non averla mai sentita suonare il liuto.

Peccato non aver avuto mai accesso ai suoi ricordi, non aver mai sentito nessuna delle sue storie, non averle potuto chiedere come fosse davvero il suo Bernardino, e chi fosse invece quell'Amedeo che, molti anni prima che lei diventasse la signora Bernardoni, le aveva inviato diverse cartoline.

Dentro di me, inconsapevole ma presente, vive anche la memoria di questa signorina nata nell'800.

Mi piace credere che certi miei pensieri inusuali o certi strani déja-vu, certe emozioni forti che provo di fronte ad alcune immagini o paesaggi visti per la prima volta o suscitate in me da musiche mai sentite siano in realtà modalità inedite di comunicazione scelte dai miei antenati per parlare con me.

È un pensiero confortante, che fa sentire meno soli.

mercoledì 7 luglio 2010

Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams

Devo ammettere che non ho mai avuto quella che definirei una grande passione per la fantascienza, anzi.
Direi piuttosto di essere stata sempre indifferente a questo pur nobilissimo genere letterario e cinematografico, trovandolo indicibilmente noioso e lontano dalla mia sensibilità, con buona pace di un mio fidanzato dell'università che perse i suoi migliori anni cercando di farmi cambiare avviso in proposito e di farmi leggere questo libro - senza riuscirci, ovviamente (allora).

Ho dunque cominciato a leggere questo libro armata di tutti i pregiudizi del caso e, ora lo posso confessare, soltanto perché mi è stato regalato da una carissima amica, su consiglio di una persona coltissima, del cui gusto e della cui intelligenza nessun individuo sano di mente potrebbe dubitare (sì, lo so, sono una snob).

Naturalmente mi sono dovuta ricredere. E chi mi conosce bene sa che non esiste, per me, cosa migliore che ritrovarmi a dire "Ohibò, mi ero sbagliata al riguardo" - quando si parla di libri, ché in altri campi mi secca terribilmente ammettere di non averci visto giusto - (però lo faccio, se devo farlo).

Mi piace essere sorpresa e smentita, mi piace essere presa in contropiede e ritrovarmi tra le mani un testo su cui non avrei mai scommesso la proverbiale lira e avere voglia di non lasciarlo più fino a lettura ultimata, leggendo in quel modo un po' nevrotico che ho quando un libro mi piace, per cui in parte mi affretto perché voglio finirlo, in parte invece invento i pretesti più idioti per procrastinare il momento in cui dovrò voltare l'ultima pagina e comincerò subito a sentirmi orfana.

Sono sempre stata affascinata da quegli autori che riescono a costruire interi mondi, in sé perfettamente compiuti e autonomi e coerenti, con le loro leggi, la loro lingua, la loro storia e geografia ("Ma allora dovrebbe piacerti anche la fantascienza!", diceva, esasperato, il mio fidanzato di cui sopra): so di giocarmi ogni pur minima credibilità affermando che ho amato molto la saga di Harry Potter per questo motivo, ma che non sono riuscita comunque a finire Il Signore degli anelli, che pure, per le stesse identiche ragioni, avrebbe dovuto incatenarmi alle sue pagine e invece non ci è riuscito (nonostante sia evidente a tutti la sua intrinseca superiorità letteraria rispetto alla serie della Rowling).

Ci è riuscita, invece, questa Guida galattica per gli autostoppisti, che mi ha letteralmente trasportata nell'universo fantastico e surreale costruito dall'esuberante e folle immaginazione dell'autore e che è un libro veramente e totalmente delirante, pervaso di un gusto dell'assurdo e dell'invenzione incredibilmente fresco, infantile, entusiasmante e di quell'umorismo tipicamente britannico che sa essere connubio perfetto di raffinata intelligenza e sottigliezza, ma anche capolavoro di meravigliosa, semplice, pura, rilassante idiozia.

Pensate ai Monty Python, alla faccia di John Cleese o di Micheal Palin e al loro modo di farvi ridere: non è fantastico trarre la stessa innocente e sana goduria da un libro? Io penso proprio di sì.



Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, Mondadori 1996, traduzione di Laura Serra.

martedì 29 giugno 2010

Di vecchie cose e di nuovi amori

È strano vedere le proprie cose trovare il loro posto in stanze dove non sono mai state: son sempre loro, ma appaiono subito diverse, quasi le si vedesse per la prima volta.

Quanto può fare, in termini di prospettiva, una cornice nuova a una realtà conosciuta!













Una nuova casa che prende lentamente - molto lentamente, un po' TROPPO lentamente! - forma (e sì, avete visto bene: il divano è completamente distrutto, dalle due gatte).

Una cucina ancora parzialmente inagibile, una stanza degli ospiti versione magazzino del rigattiere, un corridoio più o meno invaso di scatoloni. Ma dalle finestre...








L'ho capito appena l'ho vista che questa casa mi sarebbe piaciuta.

Ma non immaginavo quanto.

A presto!

domenica 20 giugno 2010

Delle abitudini, dell'onnipotenza dei bambini e di una casa nuova


Metter su una casa è sempre molto stancante.

Stanca trascinare scatoloni da una parte all'altra, aprirli, svuotarli, appiattirli, ammassarli in qualche angolo in attesa poi di disfarsene nel modo più appropriato.

Stanca ritrovarsi la sera sempre con le mani ammaccate e screpolate dalla polvere, la testa ronzante di ogni genere di pensieri ("Dove sarà lo strofinaccio della nonna? E l'origano? E quella camicia da notte pesante, ché stanotte fa freddo?"), le ossa rotte e i muscoli doloranti.

Stanca - soprattutto se si è una di quelle creatures of habit come me - vedere sospesi o stravolti i propri piccoli riti quotidiani, per esempio il tè del pomeriggio bevuto seduti su quella poltrona speciale, con sulle ginocchia una gatta e un bel libro illustrato da guardare; o la mezz'ora di lettura prima di cena, da assaporarsi in solitudine nel proprio studio, magari con Pachelbel di sottofondo.

Si ha un bel ripetersi che bisogna avere pazienza e prima o poi si tornerà alla propria amata quotidianità. Intanto bisogna accontentarsi: il tè, se si ha la fortuna di ricordarsi quale sia il sacchetto di emergenza nel quale lo si è messo (e ammesso che questo sacchetto lo si ritrovi), lo si beve in piedi, appoggiando la tazza su un foglio di giornale steso su qualche scatolone, senza gatto sulle ginocchia e soprattutto senza libro.
Quanto alla mezz'ora di lettura prima di cena è fuori discussione.

Ma in tutto questo processo, che dall'occhio del ciclone appare complicatissimo e senza fine ("come un giorno senza pane", secondo un bel modo di dire francese), c'è un lato meravigliosamente eccitante e positivo che non bisognerebbe mai perdere di vista.

Quando si mette su una casa nuova, è come se ci venisse data la possibilità di ricostruire completamente la nostra quotidianità. Ci viene messa a disposizione una cornice tutta nuova nella quale la nostra vita può - se lo vogliamo - ricominciare a fluire (dopo il primo fisiologico momento di delirante sospensione) in modo più armonioso e più aderente alle nostre esigenze.

La mia propensione all'animismo, poi, non può che esprimersi al meglio durante il lungo e spesso difficile lavoro (ma per me assai piacevole) che consiste nel cercare e trovare un posto per ogni cosa.
La Spia si stupisce sempre della pazienza e della delicatezza con la quale io (che sono tutto tranne che paziente e delicata) 'ascolto' gli oggetti. Quel vaso blu starà bene su quella mensola o si troverà meglio su quella cassettiera accanto alla lampada di legno? E la scrivania preferirà essere sistemata di fronte alla finestra oppure parallela alla parete?

In questi giorni di stanchezza micidiale e di grande confusione, ogni tanto ci sono momenti nei quali mi fermo a rimirare questa grande casa che ci ha accolto ed assaporo quel senso di selvaggia e gioiosa onnipotenza che, immagino, si possa provare da piccoli, quando si crede di essere i padroni del mondo, esseri onnipotenti cui tutto il creato ubbidisce e deve la propria disposizione e il proprio aspetto.

È una bella sensazione, che ripaga di ogni stanchezza e malumore e disagio.
Mi piace pensare che la vita me la conceda ora che sono adulta per risarcirmi di avermela negata tante e tante volte quando ero bambina.

A presto!

venerdì 11 giugno 2010

Di depressione, (di omicidi, eventualmente) e di un trasloco


È un fatto risaputo che le donne siano soggette a soffrire di depressione più degli uomini e che tra le cause maggiormente scatenanti questa malattia (perché lo è, e sarebbe anche ora che lo si capisse una volta per tutte) ci sono la morte di una persona cara, il divorzio e il trasloco.

Ora, riguardo alle prime due non posso - fortunatamente - pronunciarmi, ma non ci vuole un grande intuito per capire che in effetti costituiscono un ottimo motivo per ritrovarsi, come si suol dire, un bel po' acciaccati dalla vita.

Quanto al trasloco, sono perplessa. E penso di avere due o tre cose da dire sull'argomento, visto che, come dicevo nel precedente post, negli ultimi dieci anni ne ho fatti ben 6 (anzi, a ben pensarci 7).

Che un trasloco provochi una stanchezza fisica quasi ai limiti dell'astenia, senz'altro.
Che induca spesso, anche nelle persone più serafiche e pacifiche, stati di ansia e isteria mi pare un dato di fatto facilmente osservabile.
Ma che possa causare una depressione mi pare strano. Piuttosto, mi sembra che possa giungere anche a provocare un divorzio, o quanto meno a gettare le basi perché possa prodursi, alla lunga, un divorzio (e forse, a voler proprio essere catastrofisti, anche la morte di una persona cara; intendo ovviamente quella del coniuge, per omicidio) e dunque, per via indiretta, anche una depressione.

Come che sia, come si sarà capito, vi scrivo da una casa che non assomiglia più molto a una casa, ma ad una via di mezzo tra un magazzino e un luogo in cui si sia abbattuto un qualche devastante fenomeno naturale: non proprio un luogo ameno, insomma.

Io e la Spia abbiamo già cominciato a non trovare le cose e a non ricordarci più se il tale oggetto è già stato imballato o no, e dunque passiamo interi quarti d'ora imbambolati, stremati e indecisi sul da farsi (è meglio cercare l'oggetto in questione per tutta casa o cominciare a sballare gli scatoloni dove presumibilmente abbiamo potuto metterlo?), con in mano la pistola per lo scotch e le gatte che ci miagolano, stranite e petulanti, intorno ai piedi e sembrano chiederci ragione di tutto questo delirio (di nuovo! Per i gatti, non è una novità, ogni cambiamento che non sia stato scelto da loro è un incubo).

Ma un trasloco è anche e soprattutto, più che la fine di qualcosa, l'inizio di qualcos'altro.
A me, inguaribile ottimista ai limiti dell'idiozia, piace vederla da questo punto di vista.
E la fatica, la confusione, lo smarrimento, i disagi, le spese (le spese!) sono come i dolori che accompagnano ogni nascita: più o meno sopportabili, ma pressoché inevitabili, e magicamente dimenticati non appena ci si ritrova una nuova vita tra le braccia, tutta nostra, nata dal nostro amore - si spera - da un progetto comune e dalla nostra fiducia nel domani.

A presto!

martedì 1 giugno 2010

Di vecchie cartoline e prozie e di un viaggio


Le papere, si sa, viaggiano spesso - anche quando ne farebbero volentieri a meno.
Ciò non toglie che i loro viaggi, a volte, possano anche essere estremamente piacevoli, soprattutto se ad attenderle ci sono persone e luoghi molto amati.

Prima di lanciarmi nel delirio dell'ennesimo trasloco (il sesto in dieci anni!), mi prendo una vacanza nella 'mia' città.

Dico spesso che potrei finire per fare come Stendhal, che sulla sua lapide volle scritto solo il suo nome e sotto: 'milanese'.

Ecco, io mi sento milanese come ci si sentiva Stendhal, che in quella città trovò amici, amori, arte, musica, ispirazione.
Io, a parte l'ispirazione, ci ho trovato tutto il resto. Non è poco.

Vi lascio con alcune vecchie cartoline milanesi, una pubblicità della Pasticca del Re Sole: sul retro si leggono buffi slogan, tipo: "La Pasticca del Re Sole è da raccomandarsi agli Artisti e agli oratori", oppure: "Le pasticche del Re Sole son le sole per i Re!", e ancora: "La Pasticca del Re Sole!... non ne trovai una migliore!". Ma la mia preferita è senz'altro questa: "La tosse diventa un'opinione, quando c'è la Pasticca del Re Sole!".

Questi piccoli gioielli appartengono alla mia personale collezione di vecchie cartoline della zia di mio padre, la mitica zia Lina, che conservava qualunque cosa: biglietti del tram, cucchiaini di plastica dei gelatai, scontrini, volantini pubblicitari, cannucce e che, ovviamente, ha lasciato tonnellate di fotografie e di cartoline acquistate nelle sue frequenti peregrinazioni: pur nei limiti imposti dal suo sesso, dai tempi e dalla sua educazione borghese, la zia Lina veniva spesso presa da inquietudini romantiche e nomadiche che sfogava viaggiando, preferibilmente sola.

Un personaggio, questa zia. Magari un giorno ve ne parlo.

A presto!

domenica 30 maggio 2010

Ninablu

Può essere assai imbarazzante ritrovarsi tra le mani un libro scritto da una persona che si conosce e alla quale si è legati da sentimenti affettuosi, soprattutto se esso è accompagnato da una frase come: "Tengo molto al tuo giudizio".

Nella mia vita mi sono trovata già alcune volte in questa situazione; mi vengono in mente almeno un paio di atroci occasioni nelle quali ho dovuto inventarmi qualcosa per esprimere la mia opinione nel modo più sincero ma anche rispettoso possibile.

Qualunque sia il valore artistico e letterario di un libro, non bisogna mai dimenticare che esso è prima di tutto il riflesso fedele di una dimensione molto intima, molto personale dell'autore: che il testo sia autobiografico o no non importa; esso è rimasto per mesi, per anni a volte, a sobbollire, decantare, rarefarsi o concentrarsi in quella fragilissima storta che è il mondo interiore di un essere umano che ha poi deciso di donare al mondo la sua personalissima creazione. Da questo punto di vista, ogni piccola o grande opera d'arte (e uso il termine nell' accezione più larga possibile, ma nei limiti della decenza e del buon gusto, per così dire) è, prima di tutto, un atto di coraggiosa generosità al quale si deve rispetto e, nei casi per noi più felici, gratitudine.

Ma per tornare a questo libro, quando Tiziana Rinaldi me lo ha inviato, ha pronunciato la fatidica frase di cui sopra ("Tengo molto al tuo giudizio"), invitandomi a leggere la sua Ninablu con il distacco e l'obiettività con cui avrei potuto leggere il libro di una sconosciuta (più facile a dirsi che a farsi) e a riferirle senza alcuna remora ogni possibile critica e appunto.

Non penso di aver mai potuto fingere con me stessa, neanche per un secondo, che Ninablu fosse opera di qualcun altro: c'è talmente tanto dell'autrice in questo racconto che è impossibile ignorarlo. E per fortuna: per chi voglia bene a questo folletto di donna avere tra le mani questa sua creatura, questo piccolo gioiello di poesia, tenerezza, bellezza, garbo e ironia, è una delizia assoluta.

Il libro, pensato per bambini, parla - senza alcun sentimentalismo e leziosità, e ne sia reso grazie all'autrice - dell'infanzia: un'infanzia felice, protetta e sostenuta dalla comprensione e dalla tenerezza degli adulti, e dunque un'infanzia libera, prima di tutto, e naturalmente curiosa, serenamente incosciente, generosamente aperta al nuovo e all'altro, accogliente e disponibile all'ascolto e all'incontro con il mondo esterno.

Un'infanzia cui tutti dovrebbero aver diritto, fatta di scoperte estatiche ed eccitanti in seno alla natura, di lunghe galoppate a briglie sciolte nei regni della fantasia e dell'immaginazione, di condivisione con gli altri delle proprie incursioni nel mondo, di un po' di quella cattiveria spietata ma senza malizia che c'è in tutti i bambini e anche di solitudine, quella solitudine cui anche i piccoli anelano, a volte, e che non è, ovviamente, quella crudelmente e scioccamente impostagli da adulti distratti e poco consapevoli dei loro bisogni, ma quella bellissima e sana, necessaria ad ogni essere umano, anche il più giovane, per maturare dentro di sé, dopo il generoso e gioioso movimento che lo ha portato nel mondo, la sua visione e la sua idea della realtà, per elaborare nella serena e silenziosa quiete del suo stupore, nell'infinita e caleidoscopica ricchezza della sua vita interiore, nuove visioni, nuove curiosità da soddisfare, nuovi modi di incontrare gli altri.

Lo stile del racconto è la trasposizione fedele e limpidissima dello stile pittorico dell'autrice (e bellissime sono anche le illustrazioni, spesso connotate dall'uso di tecniche miste e sempre da una scelta sottilmente elegante dei colori): buffo, tenero, a tratti stralunato e surreale, grondante magia, intelligenza, curiosità, umorismo, rispetto e attenzione per tutto, in primis per il mondo della natura in tutti i suoi aspetti, quelli più facili da amare (la sua bellezza, la sua generosità) e quelli che invece richiedono maggiore disponibilità e immaginazione per essere apprezzati (le sue tempeste, le sue furie improvvise e devastanti, i suoi ritmi oramai sempre più in contrasto con i nostri).

Il racconto ha l'andamento circolare, il tempo ora lento ora incalzante, delle stagioni: armoniosamente inserita in questa saggia e sempiterna dimensione, Ninablu vive libera di fare esperienza di ogni cosa colpisca la sua benedetta e sacra curiosità infantile, consapevole fin dal principio, pur essendo una bambina, che nella vita c'è posto per ogni cosa, che esiste un tempo per tutto e tutto è necessario: la bellezza come la paura, il riso come la malinconia, la presenza delle persone amate e la nostalgia per la loro assenza, la solitudine come la compagnia, lo splendore glorioso del sole e la pallida bellezza della luna, le
serene giornate estive e le notti fredde e in apparenza eterne dell'inverno.

E leggendo di lei, grati e incantati, ce ne ricordiamo anche noi.


Tiziana Rinaldi, Ninablu, Mammeonline, 2009.

domenica 23 maggio 2010

Del mistero dell'amore e di un crumble


Chi capita su questo blog, una tantum o con maggiore regolarità, si sarà accorto di sicuro di alcune cose, ("Per esempio che chi lo scrive è affetta da logorrea". L'avete sentito anche voi? Era la Spia che interloquiva dalla sala), per esempio, dicevo, che non si tratta propriamente di un blog di cucina.

Prima di tutto perché pare ormai essere una caratteristica pressoché irrinunciabile di qualsiasi blog di cucina la presenza di foto bellissime, che invece qui brillano tragicamente per la loro assenza; poi perché tutte le ricette qui presenti non sono frutto né della mia inventiva, né delle mie audaci esplorazioni gastronomiche ("L'altra sera ero stanca morta quando sono tornata dal lavoro e aprendo il frigorifero ci ho trovato soltanto un limone muffito, un vasetto di yogurt e una crosta di formaggio. Ma pensa che ti ripensa mi è venuta l'idea per una ricettina stuzzicante e facile facile etc. etc."), ma della mia passione per i libri di cucina, che amo collezionare come altre fanciulle collezionano scarpe, borse o spasimanti (io trovo già impegnativo conservarmene uno, figuriamoci una collezione).

Altra cosa che non sarà sfuggita è che assai di rado in questi lunghissimi post è possibile imbattersi in ricette di inaudita originalità. Anzi, tanto per dirla tutta, quelle che propongo qui sono tutte straviste e strasentite. Sono quelle che faccio nella mia vita di tutti i giorni, quando ho voglia di cucinare e quando ne ho meno, quando ho il frigo straripante di cose belle appena acquistate e quando invece è quasi vuoto perché non ho voglia di andare al supermercato.
Sono le ricette di una principiante che ha cominciato a cucinare da relativamente poco tempo e che cucina soprattutto per mangiare, e poi anche perché la cosa spesso e volentieri la diverte.

Ho scritto altrove dei miei disastrosi esordi come cuoca e delle mie deliranti e tragicomiche esperienze con il riso, anche se la prima cosa in assoluto che io abbia mai preparato per la Spia è stato un dolce.

Vivevamo insieme, da meno di un mese, nella nostra bella casina a Roma con il suo romantico giardino pensile profumato dai gelsomini rampicanti (e dai vapori di un ristorante cinese lì vicino, ma lasciamo perdere) e un pomeriggio ebbi la brillante idea di preparargli una bella merenda, in attesa che tornasse dall'ufficio.

Sapevo bene che il mio eroe ha quel che gli inglesi chiamano a sweet tooth, vale a dire un debole per i dolci, e dunque cominciai a pensare a quale fosse quello più facile da fare, vista la mia pressoché nulla abilità in cucina.

Dopo attente riflessioni, chiamai la mia mamma e mi feci dare la ricetta del suo crumble. Anche la cuoca analfabeta che ero aveva intuito che si trattava di qualcosa alla mia portata. L'intuizione era effettivamente buona: molti anni e molti crumbles dopo, ora mi sento di dire che avevo scelto la ricetta giusta per cimentarmi per la prima volta nella preparazione di un dolce.

Segnate diligentemente dosi e procedura, mi misi all'opera, probabilmente canticchiando e sospirando, anticipando già con la fantasia il momento in cui la Spia, dopo una dura giornata di lavoro, avrebbe aperto la porta di casa e sarebbe stato accolto da un invitante e delizioso profumo di frutta e pasta frolla dorata e avrebbe pensato che di fronte a sé, con grembiulino e sorriso di ordinanza, aveva la più soave e preziosa delle donne, la sua.

Ma la faccio breve (perché avrete senz'altro capito che c'è un colpo di scena, e non dei più felici).
Forse fu colpa della smemoratissima madre, forse la responsabilità fu dell'ignorantissima figlia, nessuno lo saprà mai, ma quella cosa che alla fine uscì dal forno chiaramente non era un crumble.

Era un oggetto misterioso e inquietante come i giganti dell'Isola di Pasqua, solo più pesante.

Sopra la frutta si stendeva, infatti, uno strato compatto e granuloso, apparentemente inscalfibile, di qualcosa che aveva la consistenza e il peso specifico del cemento armato.
Ormai era troppo tardi per prepararne un altro (e poi ero già sfinita dall'ansia di prestazione per potermi dedicare ad un'altra impresa simile), dunque la Spia tornò dall'ufficio e mi trovò seduta al tavolo della cucina, con davanti quell'oggetto enigmatico e sul viso un'espressione piuttosto avvilita.

Se racconto spesso questa storia (e chiedo scusa a chi l'ha sentita più e più volte) è perché quel giorno ho capito che la Spia è un uomo con tanti difetti e manie e nevrosi - e sicuramente in numero superiore alla media - al quale spesso e volentieri ho la tentazione di spaccare un intero servizio di piatti in testa (zuppiera e salsiera comprese), ma che è anche e soprattutto un uomo gentile.

Non solo si mostrò debitamente riconoscente del pensiero amorevole che avevo avuto nei suoi confronti; non solo non si scompose di fronte all'evidente difficoltà che presentava anche solo servire quel dolce (ci volle tutta la sua forza maschia per riuscire a 'scolpire' due porzioni da quel blocco granitico); non solo riuscì a mangiarsi quel che aveva nel piatto, ma trovò anche la faccia e la voce giuste per dirmi che sì, la consistenza del topping era effettivamente 'particolare', ma lo strato alla frutta era assolutamente delizioso, una delle cose più deliziose che avesse mai mangiato.

Per quanto mi sforzassi di credergli, non potei non giungere alla conclusione che quella roba, qualunque cosa fosse, era soprattutto una schifezza indifendibile che meritava di finire direttamente nella pattumiera. Mi dispiaceva enormemente aver per giunta sprecato farina, zucchero e burro per creare una tale mostruosità (e temevo molto che la Spia se ne dispiacesse, ché è uomo che odia gli sprechi).

A quel punto, con la sua voce pacata e gli occhi ridenti e affettuosi dietro gli occhiali, il mio eroe mi rincuorò e mi disse che non dovevo aver paura che quel crumble andasse sprecato, perché avremmo sempre potuto usarlo come fermaporta.

Lo disse con gentile, amorevole e bonaria ironia e all'inizio quasi non capii che si trattava di una battuta; mi limitai ad assentire distratta e contrita. Poi scoppiai in una di quelle risate che lasciano le persone che non mi conoscono bene (e a volte anche quelle che invece mi conoscono da una vita) piuttosto dubbiose e perplesse circa la mia sanità mentale.

Da quel giorno di dieci anni fa, preparare un crumble è per me qualcosa di più che preparare un crumble. È ritrovare quel momento, quello sguardo e quella voce. È capire che se in questa storia c'è qualcosa di realmente enigmatico e misterioso quanto i giganti dell'Isola di Pasqua non si tratta certamente di quella cosa uscita quel pomeriggio dal mio forno, ma del sentimento che periodicamente si rinnova e si rigenera, a dispetto di ogni appannamento e incertezza, e che mi lega a quest'uomo.
Ed ora basta con gli sdilinquimenti e parliamo di cose serie.

Della ricetta che segue, le dosi per il topping sono quelle di Home Cooking, di Rachel Allen; per la frutta, invece, di solito non seguo una ricetta precisa e improvviso molto in base a quella che ho (è anche un ottimo modo di utilizzarne di moribonda). Costante è invece l'uso dello zucchero di canna Mascobado del commercio equo e solidale e di abbondante cannella (più altre spezie) per condirla.

Crumble di pere e mele

2-3 pere (dipende dalla grandezza)
2-3 mele (come sopra)
3 cucchiai di zucchero Mascobado (ma assaggiate ed eventualmente aggiungetene un quarto)
2 cucchiaini di cannella
un pizzico di noce moscata, pepe nero, chiodi di garofano, cardamomo in polvere

per il topping:

75 gr. di burro tagliato a cubetti (tagliatelo a cubetti per davvero, anche se è un po' una rottura; vi faciliterà le cose poi)
150 gr. di farina
75 gr. di zucchero di canna leggero (io uso il Golden Caster del commercio equo)
[qualche altro ingrediente che in base al ghiribizzo del momento posso decidere all'ultimo minuto di aggiungere: 50 gr. di cioccolato fondente a scaglie, qualche mandorla o noce grossolanamente tagliata]

Preriscaldate il forno a 180° e imburrate appena una tortiera (io ne ho usata una rettangolare di ceramica 20 x 26).

Sbucciate e tagliate a dadi le mele e le pere. Mettetele in una terrina e conditele con lo zucchero e le spezie. Lasciatele lì per un attimo e dedicatevi al topping.

Mettete in un'altra terrina capace la farina e il burro e cominciate a mescolarli sfregando bene con la punta dei polpastrelli. Come è ben noto non bisogna esagerare con lo sfregamento: il burro non si deve sciogliere, ma amalgamare alla farina, creando un composto che abbia la consistenza di grosse e irregolari briciole (crumbs, appunto). Aggiungete anche lo zucchero e mescolate.

Versate la frutta condita con i suoi succhi nella tortiera imburrata (se volete usare anche la cioccolata e le noci o le mandorle distribuitecele sopra) e poi, aiutandovi con un cucchiaio, ricopritela con il topping. Vi sembrerà tantissimo e mi maledirete perché ve ne ho fatto preparare una tonnellata. Abbiate fiducia e schiacciatelo ben bene con il dorso del cucchiaio.

Fate cuocere per circa 35'-40', trascorsi i quali tirate fuori il crumble dal forno e osservatelo. Se vi appare pallido come una damigella di qualche secolo fa, accendete il grill e mettetecelo sotto per 5'-10': non lasciate incustodita la vostra damigella, vigilate su di lei come il più zelante degli chaperons.

Servitela (la damigella) incipriata di zucchero a velo (mai provato) oppure, opzione che preferisco, con panna appena appena montata o gelato alla crema.

Enjoy!

(P.S. Attendo l'arrivo delle albicocche per preparare il crumble con albicocche e mandorle del caro Stefano Arturi, che voglio fare da un po'. Ne riparleremo. Nel frattempo, se vi va, andate a dargli un'occhiata a pag. 145 del suo English Puddings, Guido Tommasi Editore, 2005.)

lunedì 17 maggio 2010

Di nuove amicizie, di una città molto amata e di alcuni bruttissimi biscotti al cioccolato


Questa primavera piovosa, timida ed anomala, oltre a far fiorire discorsi interessantissimi sugli autobus e nei supermercati (e tengo a precisare che non c'è alcuna sfumatura snobistica in queste parole, autobus e supermercati essendo 'luoghi' che frequento assiduamente), rimarrà alla storia nei miei personali annali come la primavera degli incontri con amici telematici. Dopo quello di cui ho parlato qui, infatti, ce ne sono stati altri due, altrettanto felici.

Il primo si è svolto a Bologna, città in cui parzialmente vive la deliziosa signora cui sono andata a dare un volto. Dico 'parzialmente' perché gran parte dell'anno ella lo trascorre in una bella capitale del Nord Europa a me molto cara poiché, le spiegavo, pur essendo una piccola città che vanta la non lusinghiera fama di essere tra i luoghi più piovosi e più noiosi al mondo, vi si sono incrociati i percorsi sentimentali di molti miei amici e dunque, di rimando, anche i miei.

Sto parlando di Bruxelles, luogo dunque a me dilettissimo e che, checché ne dicano in molti, mai ho trovato noioso (piovoso purtroppo sì). Una città dove si offici giornalmente il culto del cioccolato, delle moules e delle frites, e, soprattutto, delle librerie usate, non può che essere per me un luogo dello spirito, quasi una Mecca. E a parte ciò, è talmente ricca di stimoli intellettuali, culturali, artistici, musicali, architettonici e gastronomici che davvero non riesco a immaginare che cosa si possa volere di più (per di più la sua posizione strategica la rende luogo di partenza ideale per sfiziose gitarelle praticamente in qualunque direzione). Forse, davvero, solo un po' più di sole.

Detto ciò, qualche settimana fa, con la mia borsa da viaggio marrone, ho preso il treno e sono scesa a Bologna (dove pioveva!). Da lì, seguendo le indicazioni della mia ospite, a piedi mi sono diretta in centro, dove ella mi attendeva. Mi sono presentata con un mazzo di gemebondi tulipani di un incredibile rosa violaceo (sembravano molto più belli sul banco del fioraio che me li aveva venduti!) e con un pacchettino contenente dei biscotti al cioccolato (e dei sablés salati che però necessitano di qualche miglioria. Se ne riparlerà - se mai - in futuro).

Avevo trascorso la mattina a prepararli e a cuocerli, pregustando il momento in cui glieli avrei offerti, dicendo: "Questi sono per te!".
Mi vado sempre più convincendo che, nella maggior parte dei casi, cucinare con intenzione, amorevolezza e concentrazione ('con consapevolezza' direbbe la mia molto esoterica sorella), incida positivamente sul risultato finale e non solo perché quando si cucina in questo modo si è più attenti e si evita la tentazione di far le cose alla carlona prendendo scorciatoie non sempre felici, dettate dalla pigrizia e dall'impazienza (o dal poco tempo). Chiamatelo 'influsso positivo'. Una roba così.

Questi biscotti sono un mio cavallo di battaglia. Non sempre mi vengono alla perfezione: in genere la prima teglia la strino quasi sempre. Ma nella seconda aggiusto il tiro e il risultato è notevole.

Esteticamente non sono forse tra i biscotti più graziosi al mondo; mi ricordano un po' quei brutti ma buoni che ogni tanto mi comprava mia madre al forno del quartiere e che per me avrebbero potuto benissimo chiamarsi brutti e per giunta neanche tanto buoni.
Lei era convinta (non so in base a cosa) che io ne andassi pazza; quanto a me, ci ho messo anni per vincere la vergogna e l'imbarazzo che provavo anche solo all'idea di distruggere questa sua illusoria certezza e per dirle che grazie, per merenda preferivo mangiare una bella rosetta ripiena di tonno e dei suoi strepitosi carciofini sott'olio. Annovero quell'impresa tra le mie più coraggiose e meritorie.

Ma per tornare a questi biscotti, ovviamente quelli di Linda Collister (la ricetta è sua, presa da Chocolate Baking, ma la trovate anche in Cioccolato, della Luxury Books) sono molto ma molto più belli dei miei. Mi pare però di aver ribadito più volte che il lato estetico della mia cucina è davvero carente. Conto di migliorare con gli anni, ma per ora, pur crucciandomene, mi concentro sulla sostanza - a volte mi sembra già un gran risultato riuscire a non avvelenare i miei cari.

Se è vero dunque che quelli della mia infanzia erano i biscotti brutti e per giunta neanche tanto buoni, questi non possono che essere

i biscotti decisamente brutti ma molto molto buoni

(per una trentina/quarantina di biscotti)

115 gr. di burro a temperatura ambiente
85 gr. di zucchero di canna leggero (io ho usato il Dulcita del commercio equo e solidale, ma credo la prossima volta userò il Golden Caster, sempre del commercio equo e solidale, più chiaro e meno 'grezzo')
1 uovo, grande
60 gr. di farina autolievitante
½ cucchiaino di lievito per dolci
un pizzico di sale (non dimenticatevene, è fondamentale!)
½ cucchiaino di estratto di vaniglia
115 gr. di fiocchi di avena
175 gr. di cioccolato fondente, tagliuzzato ma non troppo

Preriscaldate il forno a 180° e foderate con la carta forno un paio di teglie (forse anche tre).

Lavorate il burro fino a ridurlo in crema, unitevi lo zucchero e proseguite a lavorare fino a quando il composto sia omogeneo (potete usare le fruste elettriche).

Aggiungete l'uovo e incorporatelo.

Unite la farina e il lievito setacciati, il pizzico di sale, l'estratto di vaniglia e i fiocchi d'avena.

Infine, il cioccolato.

Prelevate cucchiaini di composto (mi raccomando che siano cucchiaini davvero, perché questi biscotti hanno la tendenza a diventare enormi, quasi mostruosi, e a spetasciarsi tutti), disponeteli su una teglia foderata di carta da forno lasciando un generoso spazio tra l'uno e l'altro (per il motivo di cui sopra).

Cuocete per un tempo compreso tra i 12 e i 15 minuti, dice la ricetta. Questo il mio consiglio: puntate il timer a 6', trascorsi i quali aprite il forno, tirate fuori la teglia, rigiratela in modo da fuor cuocere i biscotti nel modo più uniforme possibile e poi vigilate, vigilate, vigilate.

Nel mio forno di Lusaka, dopo questa operazione bastavano 4' esatti perché i biscotti fossero perfettamente cotti (dunque 10' in totale). In questo forno di Firenze non ho ancora ben capito. Dovrebbero essere 4 ½' -5'.

Sembreranno fisime da maniaci, ma vi assicuro che non ci vuole nulla perché una teglia di biscotti profumati si trasformi in una teglia di biscotti carbonizzati, soprattutto se avrete lasciato il cioccolato a pezzetti consistenti (tende a bruciarsi con facilità). Il cioccolato sbruciacchiato è tremendo: per me personalmente è l'immagine stessa dello spreco e della catastrofe in cucina. Mi fa venir voglia di piangere e basta.

Quando avrete tolto definitivamente la teglia dal forno, lasciate raffreddare i biscotti per qualche minuto. Poi, con una spatola, disponeteli delicatamente su una gratella. Alcuni si sbricioleranno un po' (ed avrete così la splendida scusa di mangiarvene qualcuno).

Lasciateli raffreddare del tutto, poi conservateli in un barattolo con la chiusura ermetica (se ce la fate a conservarli; non è semplice resistergli, un po' come è difficile resistere a quei bruttoni fascinosissimi un po' sfigati, teneri ma ombrosi e che vi fanno ridere fino alle lacrime, tanto per rendere l'idea).

Enjoy!

lunedì 10 maggio 2010

Il mestiere di riflettere. Storie di traduttori e traduzioni

Da qualche anno collaboro con una casa editrice come traduttrice, la stessa casa editrice per la quale, più di dieci anni fa, ho fatto per un po' la correttrice di bozze, due lavori entrambi tragicamente sottopagati.

Per molti versi, può risultare comprensibile che la correzione delle bozze venga considerata tanto poco in termini retributivi: è un lavoro cui non si attribuisce alcuna valenza 'creativa' e, in quanto tale, rientra nell'ambito della bassa e bruta manovalanza editoriale.

Chi corregge un libro deve solo seguire regole precise, stabilite per convenzione e per lo più condivise dalla maggior parte delle case editrici. Deve dunque avere la conoscenza di queste norme (e una piccola dispensa allungata da un redattore in occasione del primo lavoro è in genere più che sufficiente a garantirla) e, ovviamente, un occhio allenato: su centinaia di pagine può sempre scappare una virgola eccentrica o una e corsiva che invece dovrebbe essere tonda.

Detto ciò, a me pare che sia comunque ingiusto non retribuire dignitosamente un lavoro che per molti versi è assolutamente alienante e provoca livelli di stanchezza fisica e mentale che solo chi lo ha svolto può comprendere.

Risulta, invece, meno comprensibile il motivo per cui anche il lavoro del traduttore sia tanto poco riconosciuto. Che nella traduzione, infatti, sia presente un forte elemento creativo, mi pare fuor di dubbio. Eppure, sono stati pubblicati libri su libri che indagano il rapporto ambiguo, sfuggente, complesso (traduttore-traditore è una vecchia espressione sempre tirata in ballo in questo contesto) tra il testo letterario originale, nato dalla mente, dalla sensibilità, dall'esperienza di un autore e quello in un certo senso 'nuovo', anche se generato da quello stesso testo, partorito invece dalla mente, dalla sensibilità e dell'esperienza di un traduttore, un essere umano, quasi sempre un filo nevrotico e spesso con spiccate tendenze eremitiche, che passa gran parte delle sue giornate solo come un cane, ossessionato dalle parole anche nel sonno, e la cui principale relazione, per mesi, è con un libro, un computer e svariate tonnellate di dizionari (i profani non immaginano di quanti tipi ne esistano).

Chi traduce narrativa (perché è di questo che si parla qui; la traduzione saggistica è, in parte, un'altra cosa e, anzi, tanto per sgombrare il campo di ogni possibile equivoco, chiarisco subito che io per ora ho tradotto solo testi di astrologia), chi traduce narrativa, dicevo, è davvero chiamato, a mio parere, ad assumersi responsabilità non da poco. Si fa mediatore e canale di trasmissione tra due mondi: quello dell'autore e quello di un pubblico che altrimenti non potrebbe leggere, godere, vivere libri scritti in idiomi stranieri e che resterebbe dunque tristemente all'oscuro dell'esistenza di testi meravigliosi e fondamentali.

Per questo fa tanta più rabbia ritrovarsi tra le mani libri tradotti in modo sciatto, superficiale, disattento, nati dal poco amore - in parte comprensibile - per un mestiere che invece, per quanto sottopagato e vilipeso, può davvero far molto per la diffusione della cultura e della passione per la lettura. Un testo tradotto e rivisto male (perché un libro mal tradotto che arriva in libreria è anche e soprattutto un libro mal rivisto, o rivisto con la stessa sciatteria, superficialità e disattenzione con cui è stato tradotto) nuoce a tutti: all'autore che l'ha scritto, che vede la sua creatura, partorita spesso con appassionato e doloroso accanimento, stravolta dal pressapochismo e dall'incuria altrui; al traduttore che lo traduce, che si priva della possibilità di redimere la fatica del suo mestiere nella bellezza e nel senso di umile orgoglio che può provare nel farsi prezioso mediatore e, soprattutto, al lettore che, a parte rari casi di assoluta insensibilità, invece di esser messo in condizione di avvicinarsi con piacere e con passione ad una nuova occasione di conoscenza e di bellezza e, prima di tutto, ad un altro essere umano (l'autore), ne viene brutalmente allontanato.

Da accanita e ossessiva lettrice (e da traduttrice), non dimentico mai il debito di gratitudine che porto ai tanti eremiti nevrotici che mi hanno permesso, negli anni, di leggere testi che altrimenti mi sarebbero rimasti ignoti. Anche perché spesso i traduttori sono anche i promotori di un libro: lo hanno letto, se ne sono innamorati, lo hanno proposto a qualche casa editrice e ne sono poi diventati traduttori. È grazie anche al loro amore per un libro e all'ostinazione con cui, spesso, se ne sono fatti padrini, a dispetto dell'indifferenza o dell'ignavia delle case editrici (soprattutto quando si tratta di testi coraggiosi, importanti), che anche noi veniamo presi da passione e da amore per quel libro. Uno splendido, e a volte assai faticoso, circolo virtuoso.

Il traduttore è chiamato dunque a svolgere un compito paradossale: in parte ricrea il testo, perché comunque lo fa rinascere in un idioma diverso da quello in cui è stato pensato e generato e per farlo attinge alla propria esperienza, non solo linguistica, ma anche personale, di vita; in parte, invece, si nasconde, si rende invisibile, si concentra tutto nell'ascolto della voce del 'suo' autore: cerca di ricrearla, di riprodurne la cadenza, il timbro, le particolarità, come un imitatore che di un personaggio studi la postura, il modo di camminare, i tic, gli intercalari, le espressioni tipiche.

Si tratta di un'operazione complessa, che richiede sensibilità, umiltà, disponibilità e una certa assenza di protagonismo. Un'operazione che può insegnare una nuova forma di rispetto e di attenzione: per un testo, in primis, ma anche e soprattutto per l'essere umano che a quel testo ha dato vita.
La traduzione è per me, oltre che un lavoro disperante e bellissimo che assai di rado e in modo del tutto discontinuo mi dà qualche soldo, soprattutto una disciplina quasi spirituale. Come dice Emanuela Bonacorsi (uno dei traduttori-autori di Il mestiere di riflettere): (...) basta una svista, un errore oppure un abbaglio, una stanchezza, un narcisismo per piegarsi a inseguire un vagheggiamento che non appartiene al testo, ed ecco perpetrato il tradimento.

Il mestiere di riflettere è una raccolta di brevi testi, a metà tra il saggio e il mémoir, scritti da alcuni noti traduttori italiani. Ognuno ha il suo stile, il suo taglio particolare: ironico, intimista, autobiografico, tecnico, meditabondo, astratto. Tutti hanno in comune questo tormentato interrogarsi su quel confine scivoloso e ambiguo che esiste, appunto, tra traduzione come operazione 'neutra' e traduzione come operazione, invece, 'creativa'. Tutti oscillano tra il desiderio di rivendicare il proprio personale, artistico contributo e il bisogno di riconoscersi strumento flessibile, il più possibile trasparente e non invasivo, della voce altrui.

Non tutti questi testi sono a mio parere interessanti; alcuni li ho anzi trovati privi, per me, di stimoli e spunti di riflessione. Ho amato invece, moltissimo, quello di Giuseppe Iacobaci, così personale e 'scoperto' e disarmato nel confessare senza mezzi termini la straniante miscela di insicurezza, paura, euforia, eccitazione e angoscia che ogni nuovo testo (soprattutto se molto amato) porta con sé.

A chi fosse interessato, per questioni professionali o di puro masochismo intellettuale, a leggere qualche altra riflessione 'dall'interno' sul mestiere della traduzione, sentirei invece di consigliare l'ottimo Gli autori invisibili di Ilide Carmignani, una raccolta di interviste a famosi e autorevoli traduttori italiani (ma anche a chi di traduzione si è occupato 'tangenzialmente' ma con maestria, come Claudio Magris o Cesare Cases).

Difficile dire, tra le molte interviste, quale io prediliga, ma quella a Delfina Vezzoli (traduttrice, tra le altre cose, dei romanzi di David Leavitt, di Underworld di Don De Lillo, de Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, tanto per citare alcune delle sue fatiche) è senz'altro tra le mie preferite.

Ai giovani che abbiano la pazza idea di diventare traduttori, la Vezzoli consiglia di farsela passare, prima di tutto.
Qualora però la passione, il sacro fuoco e la volontà masochistica di condannarsi ad una vita quasi di stenti siano superiori a qualunque considerazione razionale e pratica, bisognerebbe almeno che non si leggessero nel dettaglio i codicilli del contratto di traduzione perché "È un contratto di lavoro a cottimo, preindustriale: non fateci caso, altrimenti la tentazione di maciullare il testo invece di tradurlo potrebbe essere travolgente. La gente dell'editoria per fortuna è molto migliore dei contratti che stila".

Verissimo.
Secondo me è anche per questo che esistono ancora molti eremiti nevrotici sfruttati ai limiti dell'indecenza che amano appassionatamente questo mestieraccio infame e meraviglioso.


Autori Vari, Il mestiere di riflettere. Storie di traduttori e traduzioni, Azimut 2008.

Ilide Carmignani, Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria, Besa 2008.

lunedì 3 maggio 2010

La mia cucina, il lunedì mattina

La cara Wenny ci vizia settimanalmente con splendide foto del suo giardino fiorito.

Io non ambisco a tanta bellezza e perfezione, non ne ho i mezzi (la mia macchina fotografica va praticamente a pedali, io come fotografa faccio più che pietà e di giardini, qui, nemmeno l'ombra).

Però, quasi senza accorgermene, da qualche tempo ogni settimana mi ritrovo a comprare un mazzo di fiori.

Per anni non ne ho voluti. Il fidanzato che mi chiamava 'animista sincretica', avendomi un giorno omaggiata di un bellissimo mazzo di rose, si sentì dire che non mi piacevano i fiori recisi. Concluse filosoficamente che, dati i miei gusti, mi avrebbe fatto cosa più gradita regalandomi una dozzina di salsicce (e non aveva torto, tutto sommato).

È che per anni non ho potuto sopportare la malinconia che mi trasmettevano dei fiori che, per quanto bellissimi, sapevo comunque destinati prima ad un triste, ineludibile appassimento, poi alla pattumiera.

Forse perché sto invecchiando, forse perché ora i fiori me li compro da sola e la cosa mi dà tutta un'altra soddisfazione, adesso accetto di buon grado che anche loro, come tutto, prima o poi comincino a deteriorarsi e finiscano in ultimo per raggiungere le bucce di patate e i fondi del caffé nel contenitore dell'umido, pronti per nutrire altri fiori di là da sbocciare.

La bellezza e la serenità che mi trasmettono fino a quel momento valgono sicuramente il senso di lieve mestizia che mi prende quando per l'ultima volta li tolgo dal vaso.

Spero piacciano anche a voi quanto piacciono a me.

Enjoy!

giovedì 29 aprile 2010

Della gratuità, dell'impazienza e di una torta alle carote


Ci sono poche cose che mi mettono maggiormente di buonumore che preparare una torta.
Cucinare è un'attività che generalmente mi rilassa, soprattutto quando si tratta di seguire più preparazioni contemporaneamente, il che, mi rendo conto, per molti è esattamente una delle condizioni necessarie e sufficienti allo scatenamento di una piccola crisi isterica, altro che rilassamento (potete vedere anche da lì la Spia che scuote la testa in segno di incredulità e di sbigottimento?).

Ma preparare una torta è un'altra cosa. Forse perché quando si decide di farne una c'è qualcosa da festeggiare, fosse anche solo un giorno trascorso in serenità - che non è poco, a mio parere -, o una spesa particolarmente fortunata al mercato dove si è trovato qualche bell'ingrediente fresco che fa venire subito in mente una particolare ricetta (a voi non capita mai? A me molto spesso).

Forse perché cucinare per pranzo e per cena richiama anche l'ineluttabile necessità di doversi nutrire - e preferibilmente con qualcosa di sano - mentre una torta è qualcosa di meravigliosamente superfluo, voluttuario, un indulgere (più o meno colpevole, più o meno criminale) nel puro e semplice piacere.

E che dire poi del profumo che da certe torte nel forno si spande per tutta casa?

Esistono degli aromi in cucina che evocano in me subito sensazioni di pura beatitudine. La cipolla e l'aglio che appassiscono lentamente nel burro, per esempio. La cannella e l'arancia. I semi di cumino che sfrigolano nell'olio caldo. Il cioccolato che si fonde a bagnomaria. Un arrosto di maiale con aglio e rosmarino che cuoce lentamente. Un pollo arrosto profumato di limone e di salvia e la sua pelle che si dora e diventa croccante. La noce moscata grattata sopra un purè di patate bollente. La panna che si insaporisce di un baccello di vaniglia e di una scorza di limone per diventare poi un gelato alla crema (prossimamente ne parlerò). Dadini di pancetta che sfrigolano nella padella.

E questa torta alle carote.

In sé e per sé, come diceva qualcuno di mia conoscenza prima di aver assaggiato questa versione, la torta di carote evoca immagini un po' tristi di dolce 'sano', quasi spartano, da merenda 'punitiva' preparata da mamme severe ed efficienti.

Ecco, questa torta non ha molto di sano, in realtà, soprattutto se vorrete preparare anche la glassa, che per me è un suo elemento irrinunciabile, ma che ad alcuni potrà apparire davvero eccessiva (e lo è, non c'è dubbio). La mia amica Annalisa, che ha un talento speciale e inimitabile per esprimere in poche parole un concetto, un'idea, l'essenza di una situazione o di una persona, la chiama torta di carote con topping al triplo cheesecake.

Non mi sento di aggiungere altro.


Torta di carote con topping al triplo cheesecake da Falling Cloudberries di Tessa Kiros

per una tortiera di 24 cm di diametro, imburrata e infarinata

4 uova
250 gr. di zucchero
185 ml di olio di girasole
300 gr. di farina
¾ di cucchiaino di sale
2 cucchiaini di lievito
1 cucchiaino di bicarbonato
2 cucchiaini di cannella in polvere
400 gr. di carote, pulite e grattatugiate
55 gr. di noci a pezzetti

per la glassa: (nella versione originale le dosi sono doppie rispetto a queste; a me pare davvero un'enormità, ma insomma, fate voi)

90 gr. di burro
125 gr. di zucchero a velo
90 gr. di formaggio spalmabile
1 goccia di estratto di vaniglia

Preriscaldate il forno a 180°.

Sbattete le uova e lo zucchero fino ad ottenere un composto cremoso; aggiungete poi l'olio, continuando a sbattere.

Setacciate insieme la farina, il sale, il lievito, il bicarbonato e la cannella. Aggiungeteli alle uova e allo zucchero, sempre sbattendo.

Unite le carote e le noci, amalgamate bene tutto e versate il composto nella teglia.

Fate cuocere per circa 1 ora/1 ora e 10': il famigerato stecchino dovrà uscire asciutto dal centro della torta, che sarà molto alta.

Mettete la torta su una gratella; dopo un po' estraetela dalla tortiera, ma lasciatela sempre sulla gratella.

Nel frattempo, preparate il topping al triplo cheesecake.

Con le fruste elettriche montate il burro e lo zucchero finché non siano perfettamente amalgamati in un composto piuttosto sostenuto.

Aggiungete il formaggio da spalmare e la vaniglia.

Glassate la torta, evitando di creare una superficie perfettamente liscia, impeccabile. Questa non è una Sacher, ma una torta alle carote, anche se piuttosto volgare e vistosa.

Un avvertimento fondamentale!
Procedete alla glassatura solo quando la torta sarà completamente fredda.
Se sarete impazienti come qualcuno che conosco, dopo pochi minuti che l'avrete spalmata, la glassa comincerà rovinosamente a sciogliersi e a colare dappertutto, con effetti estetici di dubbissimo gusto.

La torta sarà nondimeno sempre buonissima, ma perché turbare i felici mortali cui ne offrirete una fetta, quando sarebbe possibile, con un piccolo esercizio di pazienza, evitare loro il benché minimo sconcerto?

Enjoy!