giovedì 4 marzo 2010

Dell'abbandonarsi alla corrente (più semplicemente, di una torta)


Ci sono momenti in cui la vita scorre lentamente, serenamente, e ci si abbandona fiduciosi al suo flusso soave, lasciandosi dolcemente trasportare dalla sua corrente. Si sa dove si sta andando, nella maggior parte dei casi, quanto meno se ne ha un'idea, seppur vaga: verso il mare. Ma non si sa quando ci si arriverà e al limite neanche come. Non importa. Si sa che prima o poi si arriverà e in questa fiduciosa certezza ci si culla, ci si prende il tempo di lasciar vagare lo sguardo lungo l'argine, si notano gli alberi, gli uccelli, le nuvole che si rispecchiano nell'acqua, si lascia pigramente penzolare una mano a lambire la corrente, sognanti, ci si compiace della bellezza del mondo, se ne gode, immemori e beati.

Ce ne sono altri in cui invece non ci si concede il delizioso lusso di farsi pigramente trasportare: non è possibile, non ce lo si può permettere. Bisogna essere fattivi, operosi, si è indaffarati, sulla propria barchetta, ci si dà un gran da fare coi remi, con in mente ben precisa la meta da raggiungere, concentrati sullo sforzo di arrivare senza sfracellarsi sugli scogli o precipitare giù da una cascata. Si guarda appena il paesaggio, la fronte aggrottata e gli occhi socchiusi a scrutare l'orizzonte, per accertarsi si stia andando nella giusta direzione; lo sguardo ogni tanto scende a controllare il movimento delle braccia che si affaticano sui remi. Si è un monumento di determinazione e forza.

Poi ce ne sono altri ancora, e sfortunatamente per molti sono la maggior parte, in cui si è sulla barca, si fa fatica, si arranca, non si sa se si arriverà mai: le braccia dolgono, il sole è impietoso, la fatica ottunde e snerva, ma non ci si può fermare. Si è persa l'idea della propria direzione, ma si va avanti, sentendo solo il peso del procedere, la stanchezza che si accumula nelle membra, sapendo che ogni giorno sarà come quello appena trascorso: una lunga, impietosa fatica che a tratti appare senza scopo e senza senso.

Infine, ci sono i giorni che sto vivendo io adesso.
Non so se sono su una barca. Se questa barca c'è, è di sicuro una barca fragilissima, dove è difficile mantenersi in equilibrio senza cadere in acqua.
La corrente è impetuosa e mi trascina senza che io riesca ad oppormi. Ovunque massi che affiorano, gorghi, salti vertiginosi.
Per lunghi tratti mi accorgo di trovarmi sott'acqua solo quando sento che i polmoni cominciano a esplodermi. Allora emergo e prendo fiato e di nuovo vengo presa e portata via dalla corrente. Non ho il tempo né il modo di capire dove sono: il paesaggio circostante è una macchia indistinta in fuga, non riesco a scorgerne la bellezza, i lineamenti, niente. So che c'è, so che è lì, ma non posso vederlo.

E' terribile sentirsi trascinare dalla corrente, soprattutto quando si cerca di fare resistenza. Comunque vince lei, è troppo forte.
Ma all'inizio l'istinto è quello di opporlesi, cercando con tutte le proprie forze di non farsi portare via, a dispetto del panico che prende quando si sente di perdere il controllo, dei crampi che paralizzano, dell'acqua che si beve perché la paura fa perdere il ritmo del respiro.

Poi arriva il momento in cui si capisce che forse la cosa migliore è farsi trascinare, abbandonarsi alla corrente e non fare resistenza. Si andrà senz'altro contro qualche masso, ed ogni tanto, fatalmente, ci si troverà con la testa sott'acqua. Si spera di non rompersi la testa o qualche osso fondamentale e ci si affida. Alla misteriosa, ambigua clemenza della natura e della vita, alla superiore saggezza di cui dà prova quella parte di sé che capisce e sa molto più di quanto sia possibile immaginare.
Prima o poi, lo si sa, si arriverà al mare. Quando e in che stato non è dato saperlo. Ma si confida nel fatto che ci si arriverà.
È già abbastanza, è qualcosa. E comunque è tutto quello cui ci si può aggrappare e non si ha scelta.

Io sono adesso in questa situazione.
La vita mi sta trascinando via, verso il mare ed io, dopo un primo momento di resistenza, dopo essermi sfiancata nel tentativo di oppormi, ora mi sono abbandonata.
Ci sono ancora momenti in cui mi prende la paura, il panico. Perdere il controllo è difficile; richiede coraggio, richiede fiducia, richiede umiltà.


Quando si è impegnati, come lo sono io, adesso, in un'impresa simile, molte cose, anche quelle molto amate e da sempre fonte di conforto e di rapimento, perdono di interesse e sapore.
Il cibo, la sua preparazione, la sua condivisione, diventa qualcosa che si fa automaticamente, senza consapevolezza, senza piacere, perché bisogna nutrirsi.
A volte - cosa difficile a credersi, inaudita - si fa addirittura peso, fatica insostenibile.

Poi, un giorno, inopinatamente, viene voglia di preparare una torta.
Non per sé.
L'ultimo dei pensieri, ora, è mangiare una torta.
Ma per gli altri.
Viene voglia di far qualcosa per gli altri, per dirgli che siamo grati della loro presenza, che ci si fa forza del loro esserci, del loro pensarci.
E allora ci si mette il grembiule, si tira fuori la bilancia, si dispongono gli ingredienti sul tavolo, si prepara la teglia.

Una torta facile che richieda davvero poco sforzo, ma restituisca comunque il senso della normalità, di una quotidianità che ora è stravolta e chissà per quanto ancora lo sarà.
Una torta da preparare come si celebra un rito: con concentrazione, con consapevolezza, con intenzione.
Una torta semplice che ci ricordi, mentre la facciamo, che non è vero che siamo completamente nel delirio, perché appunto, siamo ancora in grado di preparare una torta.
Una torta che porti con sé il ricordo struggente di un tempo più felice, e la speranza di tempi migliori a venire.
Una torta che ci rammenti, quando la vediamo divorata con gusto e con riconoscenza dagli amici, e sebbene noi non si riesca proprio a trovare la voglia di mangiarla, una cosa piccola e banale, ma vera: che la vita riserva ancora molto, anche a chi si trovi a vivere nella sua ombra.
Per il momento.


Boiled cake da Real Life Cooking di Trish Deseine

225 ml di acqua
110 gr. di burro
200 gr. di zucchero di canna (io ho usato in parte del Mascobado e in parte del Golden Caster Sugar, entrambi del commercio equo e solidale)
300 gr. di frutta secca (io ho usato 3 fichi secchi, dell'uvetta sultanina, dei mirtilli rossi e del ribes nero disidratati)
2 cucchiai di spezie miste (cannella, noce moscata, zenzero e chiodi di garofano o qualunque altra combinazione di vostro gradimento)
230 gr. di farina
1 cucchiaino di lievito per dolci
1 uovo, sbattuto

Preriscaldate il forno a 180°.
Imburrate e infarinate una teglia da plumcake.
In un pentolino mettete tutti gli ingredienti tranne la farina, il lievito e l'uovo e portare a bollore. Lasciate sobollire per 20', poi spegnete il fuoco e lasciate raffreddare un po'.
Aggiungete la farina e l'uovo, amalgamate bene.
Cuocete per circa 1 ora e mezzo (fate la consueta prova dello stecchino).

Se in questo periodo sarò un po' assente, sapete dove sono.
In mezzo al fiume, a cercare di arrivare al mare.
Spero di arrivarci presto.

Enjoy!






venerdì 26 febbraio 2010

In nome della madre di Erri De Luca

Scrivere qualcosa su un libro come questo è davvero un'impresa.
Non solo perché è un libro compreso in sé e che, a mio avviso, nella sua 'perfezione' non chiede, non cerca, non ha bisogno di altro, men che meno della mia opinione.

Ma anche perché in queste poche pagine quel che si legge è un canto, che unisce in sé il mistero dell'amore divino per l'uomo e dell'accettazione umile e fiduciosa, da parte di quest'ultimo, del peso enorme e a tratti insostenibile che questo amore inevitabilmente finisce per poggiare sulle fragili spalle di un essere umano.

La giovanissima Miriàm è visitata da un angelo che le porta il più inaudito degli annunci. Dio l'ha scelta, tra tutte le donne, per farne la madre del proprio figlio. Miriàm non si chiede perché proprio lei. Nella sua docile forza, Miriàm accetta, china la testa, si arrende al mistero del sacro e al volere divino, si fa strumento, canale, contenitore.

E lo fa con un incredibile, commovente e sublime coraggio, lo fa con quella grazia che De Luca definisce, attraverso le parole dello sposo di Miriàm, Iosef, come "la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero senza neanche spettinarsi".

Quel Iosef che, dopo un primo comprensibile momento di smarrimento, di sospetto e dubbio, uomo giusto e retto si abbandona con fiducia all'amore per Dio e di Dio e a quello del tutto umano che lo unisce alla sua giovane sposa, perché, dice, "Siamo acque correnti chiamate dal mare a riempirlo, senza possibilità di riuscita, però in obbedienza".

De Luca è poeta, prima che scrittore, e poeta capace di cantare con vivida e sobria commozione la bellezza umile del quotidiano, spesso appannata dalla consuetudine, ma che un occhio attento, insieme compassionevole e lucido, basta a riscoprire (e da questo amore per il quotidiano nascono le straordinarie immagini tratte dalla vita semplice, nuda e cruda, l'attenzione ai dettagli che rendono una storia viva, come se si svolgesse in tempo reale sotto gli occhi del lettore, coinvolgendolo).

A mio parere, De Luca è anche uno dei pochi veri 'saggi' che esistono in Italia al giorno d'oggi.
Un uomo che offre le sue riflessioni con convinzione ma anche senza alcuna traccia di sicumera, con intensità ma senza essere fazioso, che sa indignarsi per le cause giuste e compatire realmente chi merita la compassione degli uomini, che sembra saper sempre distinguere l'essenziale dal superfluo, il luccichio falso e pacchiano dallo splendore vero della realtà.
Un uomo le cui parole non sono mai né superflue, né superficiali, né pronunciate con leggerezza, e hanno sempre e comunque il suono semplice, seducente e terribile della verità.

Per questo, pur essendo uomo, De Luca riesce a cantare con grande semplicità, intensità e rispettosa passione l'amore che come uomo non ha potuto mai provare e non proverà mai, ma che, pure, sembra conoscere bene: quello materno.
Questo libro, infatti, oltre ad una poetica meditazione sull'amore di Dio per l'uomo e dell'uomo per Dio, è anche la storia dell'ennesima, commovente incarnazione, antichissima ed eterna, di quell'amore umano che però ha del divino, quello che unisce una donna al proprio figlio.

La lunga e silenziosa preghiera che Miriàm rivolge a Dio nella notte in cui Ieshu viene al mondo è tra le cose più commoventi e belle che io abbia mai letto.


Erri De Luca, In nome della madre, Feltrinelli 2006.

domenica 21 febbraio 2010

Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi

La ragione per cui ho scelto di leggere questo romanzo è di natura squisitamente affettiva e riguarda mio padre, che ha sempre chiamato me e le altre due sue figlie "le sorelle Materassi" e che da quando ne ho consapevolezza lo ha sempre citato come IL romanzo palloso per antonomasia.

Ho scoperto solo al momento in cui ho iniziato a leggerlo che era ambientato a Firenze, la città in cui non sono nata ma in cui vivo ora e questa cosa me lo ha fatto amare subito un po'. Credo che si costruisca un legame affettuoso con un libro i cui personaggi si muovono in quello stesso paesaggio in cui si muove - anche se anni dopo, anche se in modo diverso - chi lo legge. Ci si sente meno spettatori e più partecipi.

Ora, io non ho trovato affatto palloso questo libro, al contrario.
E non mi sento di essere d'accordo con una recensione poco lusinghiera letta di recente, la cui autrice liquidava sommariamente le due protagoniste definendole 'due tonte'.
In realtà, chiunque abbia letto le Sorelle Materassi di primo acchito potrebbe difficilmente dissentire da un simile giudizio, che però, ad essere poco poco sinceri e un po' meno superficiali, appare senz'altro troppo poco pietoso e soprattutto poco articolato.

La storia di Teresa e Carolina Materassi è senz'altro una storia patetica e in certe pagine anche grottesca. Quando le si incontra, all'inizio del romanzo, sono due zitelle cinquantenni che con il loro mestiere di ricamatrici sono riuscite a risanare una situazione finanziaria catastrofica ereditata dal padre e che per farlo si sono annullate in una vita fatta esclusivamente di lavoro, sacrifici e rinunce.

Insieme a loro vive la fedelissima domestica Niobe, dal passato non proprio integerrimo ma solo per candore e per una genuina e innocente natura sensuale, e Giselda, la più bella e la più giovane delle Materassi che, a differenza di Teresa e Carolina, non si è sacrificata nel tentativo di recuperare i possessi e la dignità perduta della famiglia ma anzi, ha contribuito in parte alla sua disgrazia, ignorandone il divieto di sposare un uomo bello e egoista che dopo poco l'ha abbandonata, costringendola a fare un triste ed amaro ritorno alla casa paterna.

Tra le tre sorelle esistono violente correnti di rancore e invidia, gelosia e odio: Giselda odia Teresa e Carolina per la loro vita integerrima e la forza e l'abilità dimostrata nel recuperare una posizione sociale che sembrava ormai impossibile da recuperare, tutte cose che le due sorelle non si premurano di sbatterle in faccia ogni volta che possono; Carolina e Teresa odiano Giselda perché, essendosi imposte il sacrificio di ignorare il lato piacevole e sensuale della vita, non le perdonano di non aver fatto altrettanto e invidiano la sua conoscenza, anche se breve e pagata a caro prezzo, del piacere sensuale e dell'amore.

Privandosi di una realizzazione sentimentale e personale, Teresa e Carolina sono, all'inizio della storia, finalmente agiate, anche se incapaci di godersi il frutto del loro lavoro, hanno conquistato una nomea professionale d'eccellenza e vantano una fama di moralità impeccabile che le risarcisce di un passato di vergogna in cui si sono sentite in difetto per essere le figlie di uno scialacquatore incosciente.

È in questa situazione di benessere e di tranquillità che arriva, come un fulmine a ciel sereno, la morte di una quarta sorella, che ha vissuto in una città lontana una vita grigia e ai limiti della miseria, ma che per qualche strano scherzo del destino ha messo al mondo un fanciullo che per fascino, bellezza ed innata eleganza pare essere il figlio stesso degli dèi.

E come un dio, la cui apparizione acceca il misero mortale che non può tollerarne lo splendore, Remo appare nella vita di Teresa e Carolina e la stravolge.
Le due zitelle, ne sono, in fondo, le salvatrici: invece di abbandonarlo ad un destino probabilmente magro e anonimo, prendendolo sotto la loro ala protettrice e subito morbosa, gli offrono una vita splendida, un amore incondizionato e oblativo, un'ammirazione sconfinata e ai limiti dell'idiozia, un'accettazione totale e assoluta anche e soprattutto dei suoi difetti, del suo egoismo e della sua assenza di considerazione per niente e per nessuno che non sia lui o il suo amico Palle.

Remo, infatti, si concede (con fredda e paziente rassegnazione la maggior parte delle volte, con grazia in altre rare occasioni) all'adorazione delle sue benefattrici, pur restando sempre e comunque compreso in uno spazio vitale solo suo. Come spesso accade a chi è nato bello e sa di esserlo e sa bene quanto possa la sua bellezza sugli altri, egli agisce da catalizzatore di tutto il vissuto emotivo represso di queste due donne, ma pretende in cambio la soddisfazione immediata e incondizionata di ogni suo più piccolo capriccio venale.

Anche Niobe è vittima di questo potente incantesimo, mentre Giselda, che sulla sua pelle ha ancora il marchio dolorante che le ha lasciato l'amore per un uomo come Remo, è l'unico personaggio di tutto il romanzo a rimanere immune al suo fascino ipnotico.

Fin dalle prime pagine si sa che questo Adone amorale e sempre olimpico nella sua serenità e indifferenza degli altri porterà alla rovina queste due zitelle il cui unico ma imperdonabile e fatale errore è quello di esserglisi aggrappate come alla loro ultima occasione di speranza, bellezza, gioventù e amore, di aver proiettato su di lui ogni loro residuo sogno di passione, eccitazione, libertà e piacere.
Il loro ritratto è dunque un capolavoro finissimo di sfumature e complessità: sono al contempo due personaggi ridicoli e intollerabili nella loro cecità di fronte all'evidente, egoista meschinità del nipote e sublimi nella loro capacità di amare incondizionatamente chi è tanto poco degno di un amore tanto grande.

La dinamica psicologica che unisce i componenti di questo bizzarro terzetto è sottile e profonda e ahimé quanto vera e reale e crudele. Ho trovato notevole, quasi paranormale, l'acutezza con cui l'autore è riuscito a descriverla, a sviscerarla, a darle vita in un romanzo che, anche solo per questo, merita, a mio avviso, di essere letto.

Infine, ho la netta impressione che Palazzeschi sia stato un uomo cresciuto dalle donne o che le donne, per qualche suo motivo, deve averle conosciute o quanto meno studiate assai.
Forse per amore, forse per rancore, forse per tutte e due le cose.




martedì 16 febbraio 2010

Meditazione in forma di gioco davanti a una libreria



La cara Wenny mi ha chiesto di partecipare ad un altro meme che attualmente circola nella blogosfera. Trattandosi di libri, mi è stato praticamente impossibile rifiutare (e tu lo sapevi, vero diabolica Wenny?).
Anzi, a conti fatti, la devo ringraziare, e molto, per avermi coinvolta: grazie a lei, mi sono seduta sul divano di fianco alla mia libreria e per un po' mi sono immersa in una piacevole meditazione.

Ecco qui, a chi sia interessato!

SEI UN UOMO O UNA DONNA? Orlando di Virginia Woolf

DESCRIVITI: La lettrice di Annie François

COME TI SENTI? Pellegrina e straniera di Marguerite Yourcenar

DESCRIVI DOVE VIVI AL MOMENTO: Camera con vista di Edward Morgan Forster

SE POTESSI ANDARE OVUNQUE, DOVE ANDRESTI? Eremita a Parigi di Italo Calvino

CHE COSA AVRESTI VOLUTO FARE DA GRANDE? La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani

LA COSA CHE TI FA SOFFRIRE MAGGIORMENTE: Distacchi di Judith Viorst

UNA COSA CHE NON FARAI MAI: Il piacere di soffrire di Alain de Botton

TU E IL/LA TUO/TUA MIGLIORE AMICO/A SIETE: Andante con tenerezza di Laura Mancinelli

CHE COSA TI MANCA: La casa degli spiriti di Isabel Allende

LA STAGIONE IN CUI TI SENTI PIÙ VIVO: Racconti d'inverno di Karen Blixen

MOMENTO PREFERITO DELLA GIORNATA: Ore in biblioteca di Virginia Woolf

SE LA TUA VITA FOSSE UNO SHOW TELEVISIVO, COME SI CHIAMEREBBE? Home Cooking di Laurie Colwin

COS'È LA VITA PER TE? La rivoluzione interiore di Osho Rajneesh

UN ANNO CHE NON SI PUÒ DIMENTICARE: Come io mi voglio di Giulietta Rovera

LA TUA RELAZIONE: Un riflesso dell'altro di Virginia Woolf

HAI PAURA DI: I barbari di Alessandro Baricco

IN ALCUNI MOMENTI TI SENTI: Uno splendido isolamento di Edna O'Brien

UN LUOGO IN CUI NON SEI MAI STATO: L'odore dell'India di Pier Paolo Pasolini

MEZZO DI TRASPORTO PREFERITO: Il barone rampante di Italo Calvino

QUAL È IL MIGLIOR CONSIGLIO CHE TU POSSA DARE? Il destino come scelta di Thorwald Dethlefsen

UNA COSA DI CUI SEI CONSAPEVOLE: È difficile parlare di sé di Natalia Ginzburg

OGNI TANTO PENSI CHE: Una pietra sopra di Italo Calvino

DI CHE COSA HAI BISOGNO IN QUESTO MOMENTO? Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf

OGNI TANTO TI DOMANDI: Quoi? L'Eternité di Marguerite Yourcenar

PENSIERO DELLA GIORNATA: La vita davanti a sé di Romain Gary

SE POTESSI RIAVERE INDIETRO QUALCOSA DELLA TUA VITA CHE COSA VORRESTI? Bambini nel tempo di Ian McEwan

IL TUO MOTTO: Possiedo la mia anima di Nadia Fusini

venerdì 12 febbraio 2010

Delle orecchie a sventola e di una manualità ritrovata


Qualche tempo fa, la Spia, in un dopo pranzo silenzioso e assorto, se n'è uscito dicendo, come se riprendesse una conversazione interrotta pochi istanti prima (che invece non era mai iniziata):
"Tra l'altro nel tuo blog non scrivi mai delle cose che fai con le perline, la lana etc."
Mi ha presa in contropiede e ho dovuto dargli ragione (di solito, pur di non dargli questa soddisfazione, mi produco in circonvoluzioni mentali degne di un contorsionista, ma ho bisogno di un minimo preavviso).

In effetti, in questo blog, che porta addirittura nel titolo un'indicazione della mia passione per la manualità, di manualità si parla ben poco. Per non dire che non se ne parla affatto, se si esclude quella che si esplica in cucina (e che poi, ad essere sinceri, è poca cosa, considerato che evito come la peste qualunque ricetta richieda la minima destrezza).

Delle mie ore trascorse assorta e concentrata a far qualcosa con le mie mani, in effetti non ho mai parlato, se non di sfuggita.

Perché il problema è che io, sì, mi dedico con grande divertimento ed entusiasmo alle mie innumerevoli attività manuali, ma non sono molte le volte in cui sono davvero soddisfatta di ciò che alla fine riesco a combinare e l'idea di mostrare le mie 'creature', soprattutto in uno spazio come questo, mi ha sempre lasciata piuttosto perplessa (se avete voglia, date un'occhiata a qualcuno dei blog che segnalo e capirete che cosa intendo).

Non per fare la piccola fiammiferaia che cerca di impietosirvi, ma per fare la piccola fiammiferaia che cerca di impietosirvi vi racconterò un illuminante aneddoto, nella cui eloquenza confido.

Per molti, moltissimi anni, ho avuto il complesso delle orecchie a sventola.
Da piccola pregavo i miei genitori perché mi dessero il permesso di farmi crescere i capelli, così da parzialmente occultare quelle due foglie di verza che pensavo di avere al posto delle orecchie.
I miei, ovviamente, si guardavano bene dall'accontentarmi ("I capelli corti sono più pratici e igienici, e poi stanno bene a tutti!"), continuavano a portarmi regolarmente dal barbiere di mio padre (specializzato nel taglio 'a carciofo') e minimizzavano il mio complesso, salvo poi unirsi ai cori scherzosi dei miei fratelli che mi chiamavano Dumbo o Andreotti o Glemp (un cardinale polacco che quando ero piccola era un giorno sì e l'altro pure in tv, non ricordo il motivo).

Intorno ai 14 anni, mi svegliai dal mio torpore e decisi che dal barbiere non ci sarei più andata. Punto e basta.
Ricordo ancora la sera in cui lo comunicai, tremebonda, ai miei. Mi aspettavo chissà quali furibonde reazioni. Invece niente, annuirono distrattamente e tornarono a dedicarsi alla loro cena (allora avrei dovuto trarre da quel fatto conclusioni più generali che invece ho impiegato anni a trarre, ma lasciamo stare).

Cominciai a farmi crescere i capelli, dunque, facendo però sempre bene attenzione a non scoprire le orecchie: niente code, niente trecce, niente di niente. Solo i capelli con la riga in mezzo, portati lunghi e mossi come una nostalgica degli anni '70, come una Janis Joplin de noantri ("come la Madonna del petrolio", diceva mia madre).

Ci son voluti anni perché io mi liberassi, in un pomeriggio, di un complesso del quale, ora ne sono perfettamente consapevole, posso fare a meno di soffrire.
Io ho tante cose che non vanno, ma non ho le orecchie a sventola, non le ho mai avute. Però sono stata per tantissimi anni convinta di averle, perché così mi era stato detto e io ci ho creduto, perché, come diceva l'eroina di non ricordo più quale film, è più facile credere alle cattiverie che ai complimenti (o qualcosa del genere).

Così, ci sono voluti anni perché io mi liberassi - e solo parzialmente - anche della convinzione di non essere capace di fare nulla con le mani. In una famiglia composta di persone assai dotate da questo punto di vista, io ero l'eccezione, quella che sapeva a malapena allacciarsi le scarpe.

Poi, quando ero all'università, quasi di nascosto e vergognandomene, con aria da cospiratrice, un pomeriggio chiesi a mia madre di insegnarmi a lavorare ai ferri.
Fu un incubo.
Sotto lo sguardo allibito della mia genitrice, in qualche ora riuscii a creare qualcosa che non aveva una forma conosciuta né in natura né in geometria, su cui proliferava una fitta vegetazione di fili aggrovigliati, crateri, gnocchi, maglie perse per strada o magicamente moltiplicatesi per partenogenesi.

Il mio fidanzato di allora credette di incoraggiarmi chiedendomi di confezionare per lui una sciarpa a righe.
Ci misi dei mesi per produrne una, orrida e sbilenca (e, essendo fatta di scarti e rimasugli, dai colori raccapriccianti). Lui ne fu commosso fino alla demenza, che Dio lo benedica, ma sua madre - che per altro mi adorava, ricambiata - gli impedì tassativamente di indossarla, cosa per la quale neanche allora fui capace di biasimarla (lui la indossò un paio di volte, di nascosto, per la cronaca. Poi fui io stessa a pregarlo di bruciarla).

Ho impiegato quasi un decennio per cominciare a produrre qualcosa, non dico di bello, ma di riconoscibile ("questo è indubbiamente e incontrovertibilmente un maglione"), e un altro decennio per creare con le mie mani qualcosa che non mi vergognassi di regalare.
Benché spesso frustrata e insoddisfatta dei risultati e innervosita fino alle lacrime da schemi che non capivo, maglie che sparivano, punti che non venivano etc etc., non ho desistito. Novella Penelope, ho fatto, sfatto e rifatto infinite volte maglioni, sciarpe, scialli e coperte, tutto senza la supervisione materna. Quando si vive a migliaia di chilometri di distanza, non è facile farsi spiegare per telefono come si chiudono le maglie o come si fa una cucitura invisibile. E si ricorre ai libri (che Dio benedica anche loro).

Sono contenta di averlo fatto. Molto contenta. Contenta di aver perseverato, di non essermi arresa, di aver continuato a coltivare, con pazienza, con dedizione, in silenzio, quella manualità di cui sentivo una grande nostalgia e un grande bisogno. Di aver liberato una parte di me repressa e per anni negletta, finendo, così, davvero per risvegliarla.

Negli anni mi sono infatti dedicata anche al ricamo, alla pittura sul vetro, alle perline, e infine al cucito.

Ovviamente, siccome tendenzialmente sono una maniaca, quando mi infervoro per qualche nuova tecnica devo possedere:

a. tutti i libri che sono stati scritti sull'argomento
b. tutto il materiale necessario (soprattutto quello accessorio e facoltativo)
c. un luogo specifico e dedicato per mettere tutta questa roba - al momento la stanza degli ospiti, dove ora campeggia trionfalmente la famosa vetrina dell'Ikea, oggetto del mio desiderio su cui, at last!, ho potuto (rocambolescamente) mettere sopra le mani.

Nelle foto che vedete sparse nel post ci sono alcune delle cose che ho fatto di recente.
Vado particolarmente fiera del microscopico scaldacuore (un modello che faccio da anni per tutte le mie amiche che aspettano un bambino, una specie di maglione portafortuna) e soprattutto delle prime, primissime cose che ho cucito.

La macchina per cucire, modello dismesso dalla mamma, mi intimidisce.
Non so perché ma ho il terrore di romperla, e ogni volta che mi accingo ad usarla, per un lungo istante, mi passano davanti agli occhi scene raccapriccianti e apocalittiche di aghi spezzati, spolette aggrovigliate, clangori sinistri provenienti dal motore, tecnici basiti che scuotono la testa e mi dicono "In tanti anni che faccio questo mestiere non ho mai visto niente del genere".

Poi, la paura che questa catastrofe accada (e proprio a me, e proprio in questo momento) lascia il posto a un po' di ragionevolezza. Potrebbe accadere, certo. Ma potrebbe anche non accadere. E allora, nell'incertezza, perché intanto non provare?


Enjoy!

mercoledì 10 febbraio 2010

Diario di scuola di Daniel Pennac

Era tanto che non leggevo Pennac.

Sono stata (come moltissimi) fulminata, anni fa, dal suo Malaussène (soprattutto dai primi tre romanzi), ho amato il suo saggio sulla lettura, poi ho smesso di comprare i suoi libri, che mi hanno 'trovata' lo stesso, grazie ad amici generosi che me li hanno prestati.
Ma non ho più rivissuto la magia degli inizi.

Pennac è uno scrittore generoso, un uomo simpatico che emana calore, intelligenza, tolleranza, sensibilità. Questo penso nessuno possa metterlo in dubbio, neanche il più prevenuto dei lettori.

La sua voce, anche in questo suo Diario di scuola, è calda, venata di umorismo, addolcita di comprensione, a volte vibrante di passione indignata per quella scuola in cui ha lavorato e vissuto per venticinque anni. Si sente che ha messo l'anima nel suo lavoro, che ha saputo davvero conoscere e, in qualche caso, cambiare in meglio la vita dei (fortunati) ragazzi che lo hanno avuto come professore.

Però questo libro non mi ha convinta.
Le prime pagine con il ritratto affettuoso e ironico della madre che non riesce a capacitarsi di come il suo figlio più piccolo, ex somaro, poi professore e ora scrittore tra i più osannati e amati in patria e all'estero, sia ormai un uomo di successo, e il cui futuro continua ciò nonostante ad angustiarla, sono deliziose.

Poi, non so che cosa sia successo. Mi sono disamorata. La voce di Pennac, pur simpatica e piacevole, mi ha quasi fatto addormentare.

Dunque, son certa di rendere omaggio a questo autore che un tempo ho tanto amato, abbandonando questo suo libro al suo destino, obbedendo così a due dei suoi diritti imprescindibili del lettore:

II. Il diritto di saltare le pagine
III. Il diritto di non finire un libro.



Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli 2008, traduzione di Yasmina Melaouah.


giovedì 4 febbraio 2010

Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi

Benedetta Tobagi ha 33 anni, l'età che aveva il padre, Walter, quando fu assassinato a Milano nel 1980 da un gruppuscolo di terroristi rossi. Lei allora, di anni ne aveva 3.
Essendo stato Tobagi freddato sotto casa, colpito alle spalle, la sua bambina fece in tempo a scendere con la madre e a vederne il corpo senza vita, riverso tra il marciapiede e la strada, immerso in una pozzanghera, la nuca sporca di sangue, prima che un cameriere di una trattoria lì vicino lo coprisse pietosamente con una tovaglia bianca.

Per anni la bambina Benedetta penserà di essere stata la crudele responsabile di quella morte, perché pur avendo disperatamente chiesto a tutti i presenti di chiamare un dottore, fu ignorata da tutti, che in parte erano sotto choc e in parte pensavano che, ignorandola, avrebbero potuto distrarla da quel fatto traumatico e crudele.

È difficile scrivere qualcosa su un libro come questo senza scadere immediatamente nel mélo, nel retorico e nel sentimentale. Ancora più difficile sarà stato scriverlo, facendone al tempo stesso una ricognizione puntuale e informata del variegato - per non dire caotico - mondo del terrorismo italiano, una biografia professionale e privata del giornalista Tobagi e uno struggente atto d'amore di una figlia per un padre perso troppo presto, nei confronti del quale, come è scritto nel bellissimo epilogo, Benedetta sente di avere un doppio debito di riconoscenza: perché questo padre l'ha generata e le ha dato poi la forza di nascere una seconda volta, quando il suo esempio e la sua lezione l'hanno spinta, pur in preda al disagio e alla disperazione a cospetto di un vuoto troppo grande, a voler capire, a voler conoscere, a cercare di dare un significato, o quanto meno una ragione, a una perdita tanto crudele. A scegliere, insomma, la vita.

La sofferenza, lo straniamento, il vuoto atroce che una morte così tragica e insensata ha provocato sono raccontati con sincerità e pudore, con accenti accorati ma sobri, in un gioco sapiente e fragilissimo di equilibrismo tra sentimenti e indignazione, pietà e struggimento, analisi storica e ricerca del padre, nel tentativo di restituire alla vita quell'uomo che, circondato dalla retorica e dall'epica dell'eroismo, per troppi anni è apparso alla figlia come Ettore appare al piccolo Astianatte prima di andare in battaglia, nascosto sotto l'elmo che ne fa un essere estraneo e spaventoso e fa scoppiare in lacrime il bambino che non lo riconosce. Spogliando il padre dell'aura perfetta del martire, Benedetta ha finalmente ritrovato l'uomo che visse per il suo lavoro e per la sua famiglia e temeva di morire prima di esser stato capace di "scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa".

Quella riflessione Tobagi non fece in tempo a scriverla, ma le parole che avrebbe probabilmente scelto per essa sono tutte lì, nei suoi articoli lucidi e coraggiosi, nei suoi quaderni privati dove annotava tutto (conversazioni, appunti, meditazioni, spunti) e soprattutto nel modo in cui ha saputo vivere la sua vita, i suoi rapporti di amicizia e d'amore, e trasmettere ai figli un'eredità fatta di fiducia nella capacità degli uomini di "cercare soluzioni realistiche e rispettose, per ricavare il meglio dalla realtà, per trasformare e costruire piuttosto che distruggere".

Bellissima quella pagina in cui Benedetta racconta del ritrovamento di un vecchio nastro, registrato in casa in occasione del penultimo compleanno del padre, in cui lo si sente invitare amorevolmente la piccola 'Bebina', intimidita e messa in ombra dal più esuberante e ciarliero fratello maggiore, a dire qualcosa nel registratore.

"Mio padre tiene a bada Luca e ripetutamente, con pazienza e immensa tenerezza, mi invita a parlare, finché non mi faccio coraggio e affronto il microfono. (...) Ogni tanto penso a quella voce dolce e mi ci avvolgo dentro. Non riesco ad ascoltarla spesso, è un'emozione troppo forte, uguale ogni volta. Un minuscolo caleidoscopio di relazioni. Un minuto e cinquantaquattro secondi che mi hanno fatto capire tante cose.
Lo immagino così, un buon padre: una persona che ti sostiene, ti protegge e ti sollecita, amorevole, affinché trovi il coraggio di tirare fuori la tua voce."

Se questo è un buon padre (ed io tendo a pensare che lo sia), in un modo misterioso e sublime Walter Tobagi lo è stato.

Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi 2009.

domenica 31 gennaio 2010

Delle paturnie o di un dolce ai datteri


Uno dei miei peggiori difetti è che sono decisamente lunatica, caratteristica, tra l'altro, che condivido con tutti i miei parenti più prossimi e che, lo immaginerete, non ha giovato negli anni alla serenità della mia vita familiare.

Sono soggetta a repentini cambiamenti d'umore, forse perché sono molto sensibile all'atmosfera emotiva che mi circonda e riesco a captarne rapidamente anche le più impercettibili variazioni.

Ci vuole davvero pochissimo perché mi ritrovi con le lacrime agli occhi per la commozione (basta una musica che, attraverso qualche misteriosa via, sfiori certi miei tasti sensibili) o ostaggio di inspiegabili e brumose malinconie; ma è ugualmente facile per me essere posseduta all'improvviso da un'altrettanto inspiegabile e indomita allegria o da una fanciullesca, fiduciosa attitudine nei confronti della vita.

Poi ci sono quei momenti - e per fortuna non sono frequenti, ma ahimé più numerosi di quanto vorrei - in cui vago in un limbo emotivo che non conosce né grandi entusiasmi né drammatiche infelicità (né tanto meno una quieta serenità), in cui niente mi soddisfa non so bene neanche io perché; in realtà, in genere, lo so benissimo; è che non mi va di ammetterlo o di dirmelo. Appena lo faccio, quando lo faccio, l'umore malmostoso di solito svanisce.
In quei momenti so di essere una piaga d'Egitto, ma questa consapevolezza non contribuisce a migliorare granché la situazione.

Essendo la mia una famiglia di lunatici, come dicevo poc'anzi, conosciamo tutti benissimo questa molesta condizione dell'anima e la chiamiamo 'avere le paturnie'. Ricordate Holly Golightly, la protagonista di Breakfast at Tiffany's, il film del '61 con la soave Audrey Hepburn? Quando le venivano le paturnie, l'unico modo per ritrovare la serenità era prendere un taxi e recarsi da Tiffany.
C'era un bel dialogo tra Holly e Paul, in cui lei spiegava a lui che differenza ci fosse tra avere le paturnie ed essere tristi. Sei triste quando fuori piove o ti accorgi di essere ingrassata, per esempio, mentre per la paturnie spesso non c'è una vera ragione: è una specie di paura, non si sa bene di cosa.

Sono sicura che prendere un taxi e andare in qualche lussuosa gioielleria non mi gioverebbe affatto in caso di paturnie. Dedicarmi, invece, a qualche attività quieta e solitaria che richieda concentrazione ma non eccessiva destrezza, e sia al tempo stesso rilassante e non troppo impegnativa per i miei due neuroni, mi aiuta molto a ritrovare un po' di equilibrio.

La cucina mi offre uno splendido riparo in queste circostanze.
La mia scarsa (anche se momentanea) propensione a trarre una qualche forma di piacere dalla compagnia dei miei simili può benissimo camuffarsi da necessità di muovermi liberamente e in solitudine nella mia piccola cucina, che detta fuori dai denti vuol dire che in quei momenti è meglio che la Spia mantenga una cauta distanza di sicurezza (diciamo quella che può essere difficilmente coperta da un mestolo lanciato da una donna in preda alle paturnie) ed in genere lo sa benissimo.

Durante uno dei miei ultimi 'attacchi', ho preparato questa torta ai datteri, una delle preferite della Spia (altro elemento per me importante: scegliere di cucinare qualcosa che lui predilige, così se non capisce l'antifona posso sempre dirgli qualcosa del tipo 'Se stai lontano dalla cucina per un po' poi sarai ricompensato').

Devo ammettere che, per una qualche ragione misteriosa (proprio come misteriose sono le paturnie), questa torta mi piace moltissimo anche se non ho mai amato i datteri.

La prima volta che li ho mangiati ero piccola e ammalata. Ero febbricitante e in preda alla nausea e non mangiavo da un po'. Mia madre, allarmatissima (io dico sempre che il giorno in cui i miei cari e i miei amici mi sentiranno dire 'Non ho fame' dovranno seriamente preoccuparsi), insistette per farmene assaggiare uno, sperando che li trovassi di mio gusto.

Non li trovai di mio gusto.
E quello che mi disse mio fratello per spiegarmi come mai quegli strani frutti zuccherini fossero tutti rugosi non mi aiutò a trovarli appetibili. Lo sventurato spiegò quel loro aspetto non proprio attraente dicendomi che erano stati raccolti nel deserto, dove erano stati ciucciati e poi sputati a terra dai cammelli.

Tralasciamo qualsiasi considerazione sulla crudeltà mentale dimostrata in quella e in altre occasioni dal mio venerabile fratello e passiamo direttamente alla ricetta, che è presa da Modern Classics book 2 di Donna Hay.

Si fa un gran parlare delle ricette ipercaloriche di Nigellona, ma ci si dimentica spesso che quelle di Donna Hay non scherzano affatto. Sono buone, però. E quando si hanno le paturnie si ha altro cui pensare che le calorie.

(A proposito. Spero siate avvezzi al sistema cups/spoons, altrimenti la preparazione di questa torta potrebbe farvi venire, invece che farvi passare, un attacco di paturnie. E sarebbe un grande peccato. Vi do dunque un consiglio: la prossima volta che vi capita, acquistate uno di quei set che ormai si trovano praticamente ovunque di cups e spoons. Sono mooooolto comodi qualora ci si trovi a cucinare seguendo delle ricette americane. Altrimenti comprate l'edizione italiana del libro in questione: lo trovate pubblicato da Guido Tommasi).


Date loaf

1 e 1/2 cups di farina
1 cucchiaino e mezzo di lievito per dolci
2/3 cup di zucchero
1 cup di datteri tagliati grossolanamente
1/2 cup di noci pecan tagliate grossolanemente
125 gr. di burro
1/4 cup di latte
2 uova

Preriscaldate il forno a 170° (nella ricetta originale c'è scritto 160°, ma per il mio forno è una temperatura troppo bassa).

In una ciotola mettete tutti gli ingredienti secchi.

Mettete in un pentolino a fuoco dolce il latte e il burro fino a quando quest'ultimo non si sia sciolto.

Versate il composto nella ciotola con la farina e compagnia bella (per dirla alla giovane Holden) e aggiungete anche le uova. Amalgamate.

Versate in una teglia da plumcake imburrata e infarinata e cuocete per circa 1 ora (1 ora e un quarto nella ricetta originale): affidatevi, as usual, alla prova dello stecchino.

La Hay consiglia di mangiare questa torta tagliata a fette e spalmata di burro.
In linea di principio trovo questa pratica aberrante (e totalmente inutile; questo dolce è ricco di suo). Ma non bisogna mai dire mai. Magari al prossimo attacco di paturnie potreste ritrovarmi in cucina, appollaiata sullo sgabello a spalmare di burro una fetta di questa torta.

Speriamo di no.

Enjoy!

domenica 24 gennaio 2010

Della dromofobia, della buona compagnia, o di un'insalata e una zuppa

















Chi mi conosce sa che odio viaggiare e che ci sono poche cose al mondo che mi gettano in uno stato di prostrazione e di ansia quanto la prospettiva di doverlo fare.
Tutte le fasi di un viaggio mi sgomentano, a partire dalla preparazione della valigia, che per me è sempre un incubo.

Non c'è mai stata una volta, dico una sola volta, a memoria d'uomo, che io abbia fatto una valigia in modo sensato, mettendoci dentro cose utili e necessarie. In passato mi portavo dietro la casa intera, nel tentativo inutile e destinato al fallimento di sentirmi ancora tra le sue quattro mura proprio quando ne sarei stata lontana per un periodo più o meno lungo.

Ovviamente, in quella versione leggermente più ristretta della mia casa che cercavo di infilare nei miei valigioni sempre pesantissimi, figuravano proprio gli oggetti più assurdi e incongrui e brillavano per la loro assenza quelli essenziali e opportuni. Se andavo al mare lasciavo a casa il costume, per intenderci, o il telo da spiaggia. Dio solo sa quanti spazzolini e quante paia di ciabatte ho dovuto ricomprare negli anni, per non parlare di mutande e calzini.

Vorrei chiarire, però, un punto essenziale.
Quando dico che odio viaggiare non voglio dire che non mi piaccia scoprire paesi a me sconosciuti, camminare per le vie di città di cui sogno da anni, immergermi in realtà assai lontane dalla mia.
È solo che odio l'idea di spostarmi, di muovermi fisicamente nello spazio per arrivare infine a destinazione. E odio quasi tutti i mezzi di trasporto. Se potessi viaggiare a piedi sarei molto più contenta.

Sono sempre stata terrorizzata dagli aerei e negli ultimi dieci anni ne ho presi molti ma molti più di quanti avevo previsto ne avrei presi in tutta la mia vita. La gamma di reazioni psicosomatiche che scatena in me un viaggio in aereo (tutte sgradevolissime e socialmente imbarazzanti) è ampia e variegata e ve la risparmio. Ma credetemi, su un aereo ci salgo proprio se non c'è alternativa e per tutto il viaggio soffro, soffro, soffro.

Delle navi non parlo nemmeno: probabilmente in qualche vita precedente sono morta annegata, non so. Sta di fatto che a stento riesco ad immaginare situazione per me più ansiogena che un viaggio per mare (uno in aereo, appunto). Appena mi ritrovo su un piroscafo, un traghetto, una barca o un canotto (a volte basta un materassino, giuro), a bordo di qualunque cosa immersa nell'acqua, insomma, vengo presa immantinente da furiosi attacchi di nausea e in genere finisco per accasciarmi da qualche parte, gemendo come un'anima in pena e con la faccia verde. Sono rimasta famosa per aver sofferto il mal di mare su un grosso barcone che però era ancorato in un porto e, mi dicono, perfettamente immobile.

Viaggiare in treno non sarebbe neanche tragico (e infatti è così che viaggio, per lo più) se non fosse per la promiscuità cui condannano i vagoni, dove si è quasi sempre costretti a subire le continue telefonate degli altri viaggiatori, che sembrano non essere capaci di resistere neanche un minuto senza utilizzare compulsivamente il cellulare, o, peggio ancora, le loro conversazioni spesso atroci, e poi anche gli urli, i capricci, i pianti dei bambini e gli smadonnamenti dei loro genitori, per tacere degli annunci deliranti del capotreno (soprattutto quelli che dovrebbero essere in inglese e sono ahimé pronunciati in un idioma sconosciuto e mai sentito), che ripetono senza sosta informazioni che nessuno sente il bisogno di avere. Sto pensando di comprarmi l'ipod esclusivamente per ovviare a questi penosi inconvenienti.

Quanto alla macchina ha i suoi indubbi vantaggi: si può ascoltare la musica, starsene tranquilli (o almeno si spera), ci si può fermare quando si vuole e per quanto si vuole, ma dopo un po' che sto chiusa lì dentro l'abitacolo comincia a sembrarmi un sudario, divento inquieta, mi viene da mangiare ogni genere di schifezza a portata di mano (quintali di caramelle, crackers, biscotti, panini) messa da parte per il viaggio che invece finisce nelle mie fauci dopo neanche mezz'ora aver lasciato la mia casa. E se poi ci sono ingorghi o code, mi riduco in uno stato pietoso, simile a quello della mia versione 'marittima', con in più una dose di insofferenza e di nervosismo che non mi rende, propriamente, la compagna ideale per un viaggio.

Dal momento in cui, però, finalmente, giungo a destinazione, sono felicissima di avere vinto le mie ataviche resistenze all'idea di partire e in genere sono una viaggiatrice infaticabile e del genere 'entusiasta', di quelle che trovano incredibilmente bella e interessante qualunque cosa, dalle fontane ai piccioni, dai marciapiedi ai negozi, dallo stile di guida al modo in cui si veste la gente.
Se posso, mi piace moltissimo interloquire con gli indigeni e, ovviamente, mangiare quello che mangiano loro: tutti i miei viaggi, anche di pochi chilometri, sono per lo più pretesti per avventure e scoperte gastronomiche.

Ovviamente ho bisogno di motivazioni 'forti' per abbandonare la mia cuccia, come per esempio la nostalgia di persone e luoghi a me molto cari, o il desiderio di dare un volto a un'amica 'telematica'. Questa è stata la ragione di un mio recente viaggio in Puglia, viaggio tra l'altro funestato da orrendi ritardi delle ferrovie che mi hanno costretto a passare tre ore e mezzo tra le più miserabili della mia vita in quel girone infernale che è la Stazione Termini. Roba da 'attaccone di squallore' fulminante (per dirla con la mia amica Annalisa).

Non parlerò di quanto felice sia stata la mia settimana in compagnia della mia amica, di quanto accolta e in famiglia mi sia potuta sentire nella sua casa, con la sua famiglia e con i suoi amici, ma di quanto mi sia piaciuta la sua terra. Ho visto campagne splendide e cittadine linde e pinte, sontuosi palazzi barocchi e vicoli da presepe, spiagge raccolte e torri saracene e poi ho mangiato cose paradisiache e che nemmeno nelle mie fantasie più sfrenate avrei potuto immaginare. Per esempio quella frittella fatta di pasta di pane fritta nell'olio bollente e spalmata di ricotta acida, che detta così sembra una roba tremenda ed è invece una delle sette meraviglie del mondo. Per non parlare poi di quei rettangoli di polenta, ahimè sempre fritti, cosparsi di grani di sale e infilati in un sacchetto, assaporati in preda all'incantamento e all'estasi nei vicoli di Bari vecchia, in una sera freddissima.

Innumerevoli sono state le scoperte gastronomiche in quella settimana, non solo della tradizione locale ma anche della tradizione 'casalinga' della mia cara amica. Adoro essere ospite di qualcuno e vedermi proposto un piatto 'della casa', un cavallo di battaglia, una pietanza la cui ricetta si tramanda di generazione in generazione e, se possibile, sentirmi raccontare la genesi di una ricetta, le storie nate intorno ad essa che a volte coinvolgono vecchie zie zitelle o bisnonne dispostiche, zii eccentrici e con l'amore per la cucina o cugine perse o dimenticate se non fosse per quella loro splendida interpretazione culinaria.

Le due di cui parlo oggi non hanno origini tanto antiche e appartenenti al folklore familiare, ma sono buone, buonissime e ultratestate. Per una di esse, la zuppa di zucca e arancia, violo un mio personale criterio di selezione delle ricette, rispettato fin dall'inizio in questo blog: è la prima di cui scrivo qui che probabilmente non è stata presa da un libro. Dico probabilmente perché se ne ignora l'origine. La splendida cuoca che me l'ha cucinata, la bella Piera, non ricordava più dove l'avesse presa. Io l'ho copiata dal suo quaderno delle ricette.
Eccola qui:

Vellutata di zucca all'arancia

(per 4 persone)

400 gr. di zucca già pulita
1 arancia
4 foglie di salvia
20 gr. di farina
8 dl. di latte tiepido
1 porro
noci

In tre cucchiai di olio fate appassire per circa 3' la parte verde del porro, le foglie di salvia spezzettate, un paio di strisce di scorza d'arancia e la zucca tagliata a cubetti.

Aggiungete la farina, poi il latte tiepido.

Coprite e cuocete a fuoco lento per circa 30'.

In un paio di cucchiai di olio ben caldo fate friggere per mezzo minuto la parte bianca del porro tagliata a julienne. Tenete in caldo.

Ripescate dalla zuppa la scorza dell'arancia e frullate. Aggiustate di sale.

Guarnite i piatti con alcuni gherigli di noce spezzettati, il porro a julienne e riccioli di scorza dell'arancia.


Questa, invece, è l'insalata che ha concluso il pranzo; la ricetta è tratta da La grande enciclopedia della cucina di Anne Willan (Rizzoli).

Insalata di salmone, avocado e pompelmo rosa

(per 4 persone)

2 pompelmi rosa
90 gr. di rucola (volendo si può usare un misto di rucola e valeriana; io, che in genere non amo la rucola, penso però che qui sia necessaria)
125 gr. di salmone affumicato
2 avocado

Disponete sul piatto di portata la rucola (o il misto di rucola e valeriana), tagliate a straccetti il salmone e adagiatevelo sopra.

Pelate i pompelmi al vivo, tagliateli a cubetti e uniteli al resto degli ingredienti.

Tagliate a fettine sottili gli avocado, spruzzatele di succo di limone, salatele leggermente e disponetele sul piatto di portata.

Non è necessario condire con olio.

Paola ha abbellito l'insalata con riccioli di scorza d'arancia (sempre quella della zuppa) (ERRATA CORRIGE: Leggere il commento di Paola al post; la scorza è quella del pompelmo, scottata in acqua bollente per toglierle l'amaro).

Da mangiare preferibilmente con persone affettuose, intelligenti e vivaci, rendendo grazie per il buon cibo e, soprattutto, sempre sempre sempre per la buona compagnia, in nome della quale si vincono, a volte, le proprie idiosincrasie più radicate.
Ed è giusto che sia così. La buona compagnia è merce rarissima sotto il sole, molto più di quanto si creda, e soprattutto di questi tempi.

Enjoy!

P.S. Ringrazio per le foto Anna e Paola; io, ovviamente, avevo dimenticato di portare con me la macchina fotografica.

domenica 17 gennaio 2010

La vita davanti a sé di Romain Gary

Relazioni sentimentali appassionate hanno scricchiolato ed amicizie decennali e profonde si sono incrinate nell'udire pronunciare la fatidica frase: "Non hai mai letto questo libro? Deeeevi assolutamente leggerlo! Non puoi non averlo letto! E' il libro fondamentale della mia vita!".

Pare una frase innocente, dettata dal sincero e insopprimibile desiderio di condividere tutto con una persona amata, anche e soprattutto ciò che ci ha dato piacere e senso e comunicato bellezza, sapienza, commozione. Si vuole che anche lei faccia l'esperienza che ha cambiato in meglio la nostra vita, che le ha dato maggiore spessore e ricchezza, forse addirittura un nuovo corso (perché, sì, i libri sono capaci anche di questo; i libri veri) e che sicuramente ha aperto nuove finestre e nuovi affacci su di essa, consentendoci di averne una visione più ampia, più distesa, più complessa, più reale.

Invece è una frase tremenda, che non bisognerebbe pronunciare mai. Non ci si può impedire di pensarla, non dico che bisognerebbe censurarsi fino a questo punto - anche perché lo ritengo impossibile. Però credo senz'altro sarebbe necessario eliminarla dal nostro frasario 'sociale', per così dire. Dovremmo tenercela per noi, anche quando incontriamo una persona che ci piace infinitamente e che pensiamo possa davvero accogliere, tra le sue mani, l'offerta forse misera, ma per noi preziosa e vulnerabile, della nostra vita interiore. Dovremmo esprimere il nostro entusiasmo, la nostra gratitudine nei confronti di quel libro, ma mai l'invito a leggerlo. Mai e poi mai, soprattutto, l'ingiunzione a farlo.

E così, quando Paola mi ha porto un pacchetto rosso e aprendolo mi sono trovata di fronte a questo romanzo, ho avuto un brivido di apprensione. Sapevo bene quanto sia attaccata a questo libro, quanto esso significhi per lei e per un attimo sono stata presa da inquietudine e ho pensato: 'E se non mi piacesse? E se non ci vedessi quel che lei ci ha visto? Se non ci trovassi quei tesori che lei ci ha trovato?'.

Poi però, un po' la curiosità, un po' un sesto senso che mi ha fatto immediatamente sentire che qualcosa in quel libro ci avrei trovato comunque, ho vinto la mia riluttanza e mi sono tuffata nella sua lettura. Su un treno deserto che mi riportava a casa, durante un lungo viaggio solitario e meditabondo, proprio alla fine di una settimana trascorsa con lei.

Non potevo non leggerlo senza sentire nella mia testa, insieme alla mia voce, anche la sua. L'ho scorta in molte pagine, ho creduto di intravederne le lacrime e di sentirne il riso. Ho letto questo romanzo insieme a lei, presenza benevola e protettiva come certe fate buone che appaiono nelle fiabe e vegliano sulle sorti del protagonista.

Ma non credo che questo solo abbia contribuito a farmi amare questo romanzo.
Perché questo è un libro davvero speciale e il fatto che per me sia legato indissolubilmente ad una cara amica ha senz'altro reso più intensa e significativa la sua lettura, ma non gli ha donato pregi e virtù che altrimenti non avrebbe avuto.

Ci si commuove molto leggendo la storia di Momò e si ride anche, moltissimo, perché Momò è un bambino, e come tutti i bambini ha un suo linguaggio, personalissimo e buffo e immaginifico, e sue categorie, spesso inusuali ed eccentriche, con le quali interpreta il mondo intorno a sé. Un mondo particolare e che non sembrerebbe affatto adatto ad un bambino: quello di una Belleville multietnica e spesso criminale, negli inquieti e carichi di tensione anni '70.

Momò è insieme l'innocenza dell'infanzia e il cinismo dell'età adulta; ha dentro di sé intatti certi sogni e certe fantasie che abbiamo avuto tutti alla sua età e la consapevolezza, precoce, della bruttura e della spietatezza della vita, della gratuità del male, dell'incomprensibilità della sofferenza umana, della sua ingiustizia.

Ci si commuove, e tanto, perché Gary è riuscito a ricreare, in modo magico e che ha del paranormale, i sentimenti e i pensieri e le paure di un bambino, di tutti i bambini: quella di non essere amati, di rimanere soli, di non essere protetti ma anche di non poter proteggere chi si ama, il senso di inadeguatezza e di impotenza che da piccoli si prova di fronte a un mondo, quello degli adulti, che appare spesso indecifrabile e dominato da leggi assurde e a volte crudeli e nei confronti del quale si prova insieme desiderio e timore, attrazione e repulsione.

Ma soprattutto, leggendo questo romanzo, si incontrano uomini e donne speciali e indimenticabili, prima fra tutti la vecchia e malata Madame Rosa, l'ex prostituta polacca sopravvissuta all'olocausto che ha creato una pensione per i figli delle prostitute (Momò è uno dei suoi pensionati) e tiene un ritratto di Hitler sotto il letto, da contemplare quando si sente infelice, per ritrovare un po' di serenità nella consapevolezza che "era pur sempre una grossa preoccupazione di meno" non dover più avere a che fare con lui.

Da lei Momò impara che cosa significhi amare dell'amore che dovrebbe essere più puro e sublime, quello di una madre. Pur nello squallore e nella povertà, e nel discutibile ed equivoco ambiente in cui Madame Rosa lo fa crescere, tra spacciatori ed eroinomani, estorsori e travestiti, truffatori e pappa, a Momò vengono trasmessi i valori umani fondamentali e imprescindibili: la solidarietà, la compassione, la generosità, la capacità di discernere tra il bene e il male, la comprensione e il superamento delle differenze, la pietà per le debolezze altrui, l'infinito rispetto per la fragilità della vecchiaia e la gratitudine per il bagaglio di sapienza ed esperienza che essa, a volte, sa trasmettere, quando si sia disposti ad ascoltarla.

Grazie a questa eredità di affetti e di calore umano, anche quando Madame Rosa lo lascerà per sempre, il lettore sa che Momò riuscirà a trovare la forza e il coraggio di non chiudersi nel dolore e nella paura e si affaccerà alla vita adulta, forse non con allegria e spensieratezza, ma disposto a credere nella possibilità del bene.

Grazie, Paola cara. Grazie.


Romain Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza 2005, traduzione di Giovanni Bogliolo.

giovedì 14 gennaio 2010

Di altri traumi infantili, del vittimismo e di uno sformato di verza


Recentemente mi sono imbattuta in una bella frase di Theodore Roosevelt che dice, testualmente:

Do what you can, with what you have, where you are.

Ovvero sia:

Fa' quel che puoi, con ciò che possiedi, dove ti trovi.

Penso sia un gran bel motto da tenere presente, soprattutto quando nella cassetta 'a sorpresa' che il produttore biodinamico da cui si rifornisce il nostro GAS ci prepara ogni due settimane (a sorpresa perché sul suo contenuto noi del GAS non possiamo esprimere preferenze, ma accettiamo quello che, nei vari mesi dell'anno, il produttore ha a disposizione) ci si trova davanti un gran bel verzone e si viene presi da momentaneo - e per me comprensibilissimo - sgomento/avvilimento e dal desiderio irrefrenabile di lasciarlo a marcire lì nella cassetta e mangiare per pranzo un panino al salame.

Pure, non si può certo pensare ogni volta di regalare questa verza a qualcuno (e a chi, poi? visto che quasi tutti i nostri amici qui a Firenze fanno parte del nostro GAS e hanno dunque, anche loro, eventualmente, il loro bel da fare a smaltirne la loro quota personale?).

Se c'è qualcosa che proprio non ho mai tollerato è la verza. Ho ricordi traumatici infantili di orridi e brodosi involtini preparati con le sue foglie e ripieni di carne e altrettanto traumatiche memorie di certe padellate di verza stufata all'aceto che in casa mia accompagnavano immancabilmente, alternandosi con i broccoletti, le salsicce.

Ho scritto più volte in questo blog che da anni cerco di portare avanti una sorta di personale programma di rieducazione alimentare, nel tentativo di raddrizzare le numerose storture del gusto cui i miei sadici genitori mi hanno indotto e di vincere certe idiosincrasie che hanno limitato per molto tempo le mie esperienze culinarie.
Questo programma di rieducazione ha avuto, finora, un discreto successo. A parte quelle per i cardi e il cavolfiore lesso, sono orgogliosa di aver vinto molte mie storiche avversioni (ultimamente addirittura quella nei confronti dei finocchi cotti, di cui si favoleggiava nei cinque continenti).
La natura è evidentemente e fortunatamente più saggia di noi e fa in modo che ogni tot i nostri gusti cambino, in armonia con il ricambio delle nostre cellule, forse.

Quel che è difficile cambiare, però, è la propria testa. Se da decenni siamo convinti di non poter sostenere nemmeno la vista di una verza senza automaticamente provare un desiderio di fuga, un istinto omicida nei confronti del povero contadino che l'ha coltivata o dei nostri genitori che ci hanno costretto per anni a cibarcene, o semplicemente un conato di vomito, sarà assai difficile provare a mettere in dubbio questa granitica certezza. I meccanismi cristallizzati che scattano quasi senza che ce se ne accorga sono tra le robe più letali dell'esistenza. Si rimane incastrati in quell'ingranaggio che sembra partire da sé (sembra, e proprio questo è il punto), e ci si ritrova vittime inconsapevoli e passive.

Ora, se c'è una cosa che proprio non sopporto è sentirmi una vittima. E visto che ci sono diverse occasioni che la vita mi offre quotidianamente perché io possa fare questa avvilente esperienza, non voglio proprio metterci del mio e crearmene altre da me, dal nulla.

Dunque, qualche giorno fa, di fronte a quel bel cespone di verza che occhieggiava dal bordo della cassetta, invece di farmi prendere dallo scoramento ho deciso di sedermi in corridoio, per terra, davanti alla libreria su cui trovano posto i miei libri di cucina, alla ricerca di una ricetta che utilizzasse proprio ciò che in quel momento avevo a disposizione, e in abbondanza (do what you can, with what you have etc. etc.), e che, sperabilmente, mi facesse anche cambiare idea sull'argomento.

E siccome chi cerca (quasi sempre) trova - a meno che non sia la Spia, che come gran parte degli uomini ha delle difficoltà intrinseche nel reperire qualunque oggetto, a meno che non si tratti del telecomando del televisore - mi sono imbattuta in una splendida creatura del mio caro Stefano Arturi. Da quella grotta di Alì Babà che è il suo Pausa pranzo, ecco qui uno stupefacente sformato. La ricetta è copiata pari pari, senza variazioni di rilievo.


per 4-6 persone

una verza (un kg circa)
50 gr. di farina
50 gr. di parmigiano grattugiato + 3 cucchiai (io ho usato del pecorino e del parmigiano, in proporzioni che al momento mi sfuggono; più pecorino che parmigiano, comunque)
400 ml di latte intero
60 ml di olio d'oliva
3 cucchiai di farina di mais per polenta
sale e pepe

Scartate le foglie più esterne della verza, tagliatela a metà, poi in quarti. Affettatela sottilmente e lavatela. Mettetela in una capace terrina e versateci sopra dell'acqua bollente. Lasciatela a bagno per circa 5', poi scolatela, passatela sotto l'acqua fredda, scolatela ancora, asciugatela con un canovaccio pulito e tritatela in modo grossolano (sembra complicato, non lo è. Non usate questa scusa per non provare questo sformato!).

Mettetela nella coppa del robot da cucina insieme alla farina, ai 50 gr. di formaggio, al latte e all'olio. Aggiungete sale e pepe. Se volete (ed io lo volli), unite anche un pezzetto di salamella piccante. Ci sta benissimo. Il bell'Arturi suggerisce anche, eventualmente, 50 gr. di groviera o una salsiccia a tocchetti precedentemente rosolata in padella.

Imburrate una tortiera di 28 cm di diametro, spolveratela con un cucchiaio di polenta e uno di parmigiano. Versate il composto di verza, livellate, spolverate con gli altri due cucchiai di polenta e di formaggio, zigzagate con olio e mettete in forno a cuocere per circa 30'-40'.

Lo sformato sarà bello dorato e per la vostra casa si sarà diffuso un profumo invitante che - statene certi - risveglierà l'appetito del più schifiltoso e rompiballe degli ospiti (o di eventuali mariti/compagni/fidanzati/tizietti, ma anche suocere; la mia ne è stata entusiasta e non l'ha neanche trovato cancerogeno).

Come tutti gli sformati che si rispettino, appena uscito dal forno non dà il suo meglio.
Per mangiarlo, aspettate che abbia raggiunto una temperatura che sia inferiore a quella di fusione del criceto (citazione! chissà chi la indovina...).
Il giorno dopo, vi dirò, sarà ancora più buono.

Enjoy!


mercoledì 13 gennaio 2010

Per favore, mi lasci nell'ombra di Carlo Emilio Gadda


"Temperamento piuttosto incline a solitudine, inetto a cicalare con brio, alieno dalla mondanità, io avvicino e frequento i miei simili con una certa fatica e una certa titubanza”.
Una scelta di interviste fatte allo scrittore ingegnere tra il 1950 e il 1972, dalla lettura delle quali emerge l'immagine di un uomo solitario, pieno di manie e piccole e grandi ossessioni, sempre pronto ad allevare sensi di colpa, a scusarsi di mancanze inesistenti, a ritenersi responsabile di varie e orribili nefandezze, ma anche convinto di essere oggetto di cospirazioni e complotti e malato di manie di persecuzione.
Tra reticenze e improvvise aperture, frasi involute e di barocca, spagnoleggiante cortesia, nostalgie e attacchi di furente indignazione, una lettura piacevolissima, a tratti involontariamente comica per via del modo spesso bizzarro e inusuale di esprimersi di Gadda. Per dire che non aveva ancora comprato un volume (perché questo avrebbe significato per lui prendere un autobus e recarsi in qualche libreria del centro, cosa che non amava fare e che lo stancava molto) ecco cosa disse: "per stanchezza fisica e mancanza di possibilità di moto topografico non sono ancora riuscito a procurarlo".
Gustosissimo il lungo pezzo scritto da Alberto Arbasino, La formazione dell'ingegnere, in cui Gadda esprime i suoi giudizi trincianti e spesso crudeli sui grandi della letteratura italiana. Dal Foscolo, odiatissimo per la sua ossessione per le donne e la sua sciocca vanità, che lo induceva a vantarsi di avere un petto villoso e una folta chioma ("Vantarsi del pelo! E' un'opinione da parrucchiere!") al Carducci, un tempo molto amato ma del quale Gadda non ignorava
le pecche e le ingenuità retoriche ai limiti del grottesco e del ridicolo, dal Pascoli (ritenuto troppo piagnucoloso) al Manzoni, fino ad arrivare a D'Annunzio. Pagine divertentissime e ricche di spunti e stimoli.
La mia intervista preferita è però, senza dubbio, quella di Cesare Garboli, Felice chi è diverso, che prende a prestito nel titolo un bellissimo verso di Sandro Penna. E' la mia preferita perché mi sembra che sia l'unica in cui alla giusta ammirazione per il genio e lo scrittore si unisca la nient'affatto inopportuna e sincera pietà per l'uomo Gadda che, dopo aver trascorso con Garboli un pomeriggio, prima di chiudere dietro di sé la porta di casa gli disse: "Lei sentirà dire che io sono un misantropo, in fondo è questo che si pensa di me. Smentisca, la prego, dica che non è vero".
Carlo Emilio Gadda, Per favore, mi lasci nell'ombra. Interviste 1950-1972, Adelphi 1993, a cura di Claudio Vela.

domenica 3 gennaio 2010

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda

Se cercate nei libri la cosiddetta evasione dalla realtà, un modo per rilassarvi immergendovi per un po' in un mondo altro che non richieda particolari sforzi mentali per essere compreso e fruito, allora prendete questo libro e rimettetelo subito sullo scaffale dal quale l'avete preso. Non fa per voi.

Questo romanzo, infatti, impegnerà molta della vostra energia e ogni vostro neurone: non solo quelli preposti al funzionamento del vostro intelletto, ma anche, probabilmente, quelli che sovrintendono al corretto svolgimento delle vostre funzioni più brute. Quando ne avrete letto l'ultima parola, vi sentirete deliziosamente stanchi e svuotati, ma anche misteriosamente corroborati e rinvigoriti, come ci si sente dopo una bella corsa di almeno un'oretta (o almeno così mi dicono ci si senta; io, mai corso in vita mia; figuriamoci se per almeno un'oretta).

Quello che sulla carta si presenta come un giallo (in un condominio 'di signori' si consuma un efferato delitto sul quale si indaga: questa la trama), nella realtà è un canto d'amore e di odio per la città in cui la storia si svolge. Mi chiedo, però, che cosa possa capire di questa storia qualcuno che non abbia avuto la sfortuna (o fortuna, dipende dai punti di vista) di nascere e crescere, o almeno vivere per un po', in quel luogo laocoontico e selvaggio, bizantino e fagocitante, psichedelico e polipesco che è Roma.

In questo romanzo la fa da padrone il dialetto romanesco, quello più becero e popolare parlato nei mercati, nelle portinerie, nelle baracche e nelle campagne spelacchiate e squallide che ancora negli anni '50 circondavano i quartieri più centrali di Roma; quello che si parla in Brutti, sporchi e cattivi, per intendersi. Io, che a Roma ci sono nata e cresciuta, ho avuto qualche problema a capire tutto. E infatti di questa storia non ho capito quasi niente; per esempio, a me pare che, se di un giallo si tratta, si tratti di uno di quelli senza soluzione, in cui alla fatidica domanda: 'Chi è il colpevole?' non si possa che rispondere con un convinto: 'Boh'. Il che però non mi ha impedito di godermi immensamente intere pagine assolutamente incomprensibili, delle quali mi è piaciuto farmi risuonare nel testone la musicalità di certi periodi lunghi e contorti, ingemmati di parole mai sentite e probabilmente create per l'occasione, o tanto vetuste e preziose da apparire incredibili invenzioni dell'autore.

La sperimentazione linguistica è infatti spericolata, audace e felicissima (ed è stata negli anni ampiamente studiata e giustamente celebrata e lodata), totalmente disinibita e noncurante di ogni considerazione di armonia e misura. La complessa e selvaggia commistione di registri linguistici e stilistici crea un caleidoscopio che lascia ipnotizzati e intontiti, in cui tutto si mescola senza soluzioni di continuità. Nella stessa frase possono trovarsi fianco a fianco parole tratte dal dialetto più becero, lemmi sofisticatissimi e arcaici, colti anglicismi o francesismi.

Tutto ciò fa capire come dietro il personaggio austero, timidissimo e sorvegliato dell'ingegnere milanese Carlo Emilio Gadda (sulle cui fobie e manie e sulla cui distanza dal mondo reale sono fiorite, negli anni, infinite leggende metropolitane, in parte da lui stesso create), vivesse un uomo vulcanico, un appassionato e attento osservatore della realtà 'altra' che lo circondava, attratto morbosamente e intensamente dal cosmo degradato e bruto delle periferie romane, quello che, tanto per dire una banalità, esercitò il suo fascino anche su quell'intellettuale raffinato e nordico che fu Pasolini.

A differenza di quest'ultimo, però, Gadda di quel mondo colse gli aspetti meno pittoreschi e più inquietanti, il rovescio della medaglia dell'ingenuità, della primitiva purezza, della bontà evangelica che invece, secondo Pasolini, risiedeva solo nelle anime candide dei proletari, non ancora contaminate dalla corruzione della cultura e dell'ipocrisia borghesi.

Questa umanità incattivita dalla miseria, selvaggiamente attaccata alla vita e in lotta per la sopravvivenza, perennemente tormentata da un'inquieta e inutile fuga dalla fame, raramente si concede bontà e nobili sentimenti. Essa è troppo presa dalla necessità animale di rimanere in vita, di non soccombere; ne è schiacciata al punto di non avere tempo e modo di essere pietosa, caritatevole, altruista, solidale. Non può permettersi simili lussi. Ed è dunque condannata, per lo più, a uno squallore morale irredimibile e spietato, ad una meschina grettezza che spesso si traduce in connotati fisici sbilenchi e deformi (abbondano i freaks, in questo romanzo), secondo l'antica, classica legge della corrispondenza tra panorama interiore ed aspetto esteriore.

Sul borghese e colto Gadda, però, questa povertà affamata, amorale e animalesca deve aver esercitato, a tratti, anche un'attrazione sensuale irresistibile: basti pensare agli inquietanti e conturbanti personaggi femminili di Ines e Tina, magistralmente tratteggiati dall'affascinato autore, che ce ne fa addirittura indovinare l'odore di piccole e selvatiche bestiole, di quelle coi denti ben affilati e taglienti, e il pelo che sarebbe serico e lucente se la polvere e la sporcizia non lo rendessero opaco e appiccicoso.
Fa loro da contraltare la bellezza nobile e classica, pur se estenuata, della povera vittima, l'elegantissima, misericordiosa, malinconica e sublime signora Liliana, la cui ultima immagine, però, ce la presenta con la testa quasi staccata dal collo e incrostata di sangue e le gonne sollevate a scoprire in modo indecente, umiliante e poco pietoso la biancheria, anche se raffinatissima e di seta.
Queste due diverse facce della femminilità, sideralmente lontane tra loro, sono però simili nell'attrarre e conturbare Gadda, e con lui il commissario Don Ciccio Ingravallo, uomo solissimo e malinconico, intelligente e acuto, capace di squisite delicatezze e insieme di brutale veemenza, al quale bisognerebbe dedicare un'intera recensione (tranquilli, non lo faccio).

Una cosa questi due mondi (quello dei poveracci e quello dei signori) hanno in comune: un'infelice solitudine. Questo è l'unico vero campo in cui tutti i personaggi del romanzo potrebbero incontrarsi e riconoscersi simili, a dispetto di ogni differenza di classe, censo, cultura e provenienza. Peccato che nessuno lo faccia.

Insomma, mi pare di esser stata chiara.
Questa non è una lettura di tutto riposo.
Al contrario.
Ma vi fareste un grave torto a privarvene.



Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, 1957 (prima edizione)