venerdì 8 ottobre 2010

The Pedant in the Kitchen di Julian Barnes

Che gioia poter leggere questo libro e capire che non sono la sola ad essere una pedante in cucina!

Che consolazione sapere che c'è qualcun altro che, come me, si angoscia in preda allo smarrimento di fronte alle ricette ad occhio, quelle in cui si parla di manciate, pizzichi, forni caldi, q.b. et similia senza specificare grammi, temperature, tempi.

Com'è stato confortante rendermi conto che non sono sola ma faccio parte di un gruppo, di dementi o incapaci, forse, di inesperti senz'altro, che come me hanno bisogno di esser presi per mano e portati con precisione ed esattezza, passo dopo passo, dall'inizio di una ricetta fino alla fine.

Senza dar niente per scontato.
Senza presumere previe conoscenze.
Senza aspettarsi che il lettore colmi i vuoti lasciati dall'autore e deduca gli eventuali passaggi mancanti.
Senza dimenticare che chi legge un libro di ricette non necessariamente sa cucinare.

Julian Barnes lancia le sue appassionate, sarcastiche e divertenti invettive contro quegli autori responsabili di simili orrendi crimini e intona invece dichiarazioni appassionate di devozione e gratitudine a quanti realmente mettano i loro lettori in condizione di poter riprodurre, con soddisfazione, le loro ricette, dando così prova, in primo luogo, di generosità - oltre che di onestà intellettuale.

Il mio preferito tra i tanti autori citati? Sicuramente Edouard de Pomiane, che nel 1948 pubblicò un famoso libro intitolato La cuisine en dix minutes ou L'Adaptation au rythme moderne nel quale, tra le altre ricette, proponeva quella per il Boeuf à la ficelle (fatto cioè bollire in acqua sospeso tramite un pezzo di spago).

Cito direttamente Barnes, che cita a sua volta Pomiane:

"Togliete la carne dalla pentola ed eliminate lo spago. La carne sarà grigia all'esterno e con un aspetto assai poco appetitoso. In quel momento potreste sentirvi piuttosto depressi".

Quanto può essere confortante sapere che anche il nostro avvilimento di fronte all'apparente risultato di una ricetta può essere previsto dal suo autore, perché anche a lui è capitato di esserne vittima?

E soprattutto, quanto sollievo si può provare al pensiero che, dopo tutto, esso è immotivato?


Julian Barnes, The Pedant in the Kitchen, Atlantic Books 2003 (in Italia tradotto per i tipi della Guido Tommasi Editore).

domenica 3 ottobre 2010

Sunday Music: 70 Million - Hold Your Horses

Un po' di leggerezza.

Ogni tanto ci vuole.

E quando è anche intelligente, ironica ed esteticamente gradevole, ci vuole sempre.

(Grazie a Paolina!)








venerdì 1 ottobre 2010

Di vite precedenti, di occasioni mondane e di una torta di mele


Nel post precedente parlavo di Cat Power e delle sue molte vite.

Anche io, come tutti, ne ho vissute tante. In una di queste, sono stata la moglie della Spia in versione ufficiale.

Che tradotto in parole povere ha significato, tra le altre cose, accompagnarlo a feste, ricevimenti, inaugurazioni, cene, colazioni, cocktail e cerimonie varie, sempre vestita in modo acconcio (leggi: da babbiona) a trascorrere il tempo evitando di ingozzarmi di vaccate e sostenendo conversazioni - nel migliore dei casi spesso insignificanti (quelle che gli inglesi, con sublime, secca concisione chiamano small talks) e nel peggiore noiose da piangere - con persone con le quali, avessi potuto scegliere, nella maggior parte dei casi non avrei mai voluto nemmeno trovarmi in fila alla cassa del supermercato, tanto per dare un'idea.

Quella vita, che si è protratta per quasi dieci anni, dall'esterno avrebbe potuto apparire anche desiderabile, affascinante, esotica e per certi versi, ad essere sincera, lo è anche stata, a volte.
Ma poche persone hanno realmente compreso quanto poco potessi sentirmici a mio agio.
Quanto intensamente desiderassi non partecipare a quelle occasioni mondane.
Quanto mi sgomentasse, soprattutto i primi tempi, la prospettiva di ritrovarmi in mezzo a decine di persone più o meno sconosciute o, peggio ancora, note, ma alle quali mi legava un tenuissimo filo di frequentazioni assidue ma superficiali, costanti ma formali, che si mantenevano sempre entro i confini di quell'avvilente dimensione del "Io e te faremmo volentieri a meno di essere a questa festa, ma facciamo lo stesso due chiacchiere compìte perché è quanto richiede l'etichetta in queste situazioni".

Quella vita mi ha insegnato molto, credo, su quanto le persone abbiano tutte, indistintamente, bisogno di essere ascoltate, su quanto poco siano abituate ad esserlo veramente e su quanto meno ancora siano 'allenate' ad ascoltare gli altri.

La mia personale strategia di sopravvivenza, elaborata dopo anni di coliti e timidezze feroci, fu invece proprio quella di ascoltare.
Più che cianciare del nulla, cosa che mi faceva sentire un'idiota o divorata dall'imbarazzo, ascoltavo con tutta l'attenzione che potevo concedermi in quella situazione.
Superato lo scoglio iniziale (terribile, come lo è per tutti i timidi), finivo spesso per appassionarmi.

Il mio interlocutore, invece, tutto preso dal racconto di sé, non si accorgeva nemmeno se fossi intelligente o scema, bella o brutta, interessante o spiritosa, ma se ne tornava a casa sicuramente convinto che fossi un ricettacolo di ogni cristiana virtù.
A parte rari casi di sociopatici, infatti, chi si sente ascoltato da te te ne sarà grato e tu, in cambio, trarrai la sensazione di aver fatto qualcosa di utile, o quanto meno di non dannoso, per la società.
Il che non ti salverà, sia ben chiaro, dal rischio di farti comunque ammorbare, a volte, da racconti noiosissimi sui più insignificanti dettagli di vite assai modeste come respiro, orizzonte e contenuti - e questo spiega le mie pur frequenti crisi di avvilimento, allora.

Ovviamente quella vita è stata in parte redenta da incontri significativi, anche affettuosi e stimolanti, con persone cui sono riuscita - spero - a dar veramente qualcosa di me, e non solo la mia educata attenzione per una sera.
Alcune di loro, benché non le veda e non le senta da anni (e non ne senta il bisogno, diciamolo pure), mi sono rimaste in qualche modo nel cuore.

Per un gesto di gentilezza autentica, magari durante una serata particolarmente pesante in cui avrei voluto scappare saltando a pie' pari le siepi del giardino e invece sono rimasta lì a sorseggiare vino cattivo in preda alla colite.

Oppure per uno sguardo fugace, brevissimo, di complicità e di ironia condivisa.

O per una parola detta con spontaneo calore, rivolta davvero a me e non al personaggio che in quel gioco fatuo cui pure dovevo giocare mi era stato assegnato.

Una di queste persone, un signore, la prima sera che venne a casa nostra per una cena cosiddetta "di rappresentanza", arrivato questo dolce in tavola, per un momento si intenerì.

Mi chiese come fosse esattamente e, ascoltata la mia descrizione, concluse: "Un dolce inusuale per una cena così, un dolce di casa".

Lo disse con tenerezza, con nostalgia (della moglie che lo attendeva a svariate migliaia di chilometri e dalla quale desiderava tornare? della bambina che aveva appena adottato con tanta fatica dopo mesi e mesi di burocrazia e incertezze? della sua mamma?).
Per me, lo disse con la voce giusta, quella che io volevo sentire in quel momento.

Dopo quella cena, quel signore sedette alla nostra tavola altre volte e furono tutte occasioni di incontro reale ed affettuoso, di allegro nutrimento del corpo e dello spirito.

Tutte le volte che preparo questo dolce, penso a quell'uomo, alla sua espressione quasi riconoscente quando ne assaggiò una fetta, all'intima condivisione che si creò, magicamente, intorno a quel tavolo tra persone che fino a quel momento avevano parlato, con civiltà e garbo, sì, ma anche con una certa educata ritrosia, soprattutto di lavoro e politica e si ritrovarono, invece, ad un tratto, a discorrere di figli e mariti, di mogli e ricette, di ricordi del liceo e di libri, di musica e gatti e a ridere spesso e volentieri, con gran gusto.

E mi dico che quella vita lì, che oramai è passata e a volte sembra quasi assumere i tratti sfumati e vaghi del sogno, non solo non è stata inutile, ma mi ha lasciato anche qualche gemma tra le dita.
Cose piccole, come questa.
Infinitamente preziose.
Cerco di non dimenticarlo mai.


Torta di mele con salsa toffee (da Falling Cloudberries di Tessa Kiros)

per una tortiera di 24 cm di diametro

3 mele
100 gr. di burro, a temperatura ambiente
200 gr. di zucchero
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
3 uova
200 gr. di farina 0
2 cucchiaini di lievito per dolci
1 cucchiaino di cannella
(assente nella ricetta originale; per me è un riflesso condizionato: dove ci sono mele, non può non esserci della cannella)
60 ml (4 cucchiai) di latte

per la salsa toffee:

20 gr. di burro
115 gr. di zucchero
125 ml di panna


Preriscaldate il forno a 190°.

Imburrate e infarinate la tortiera, possibilmente di quelle a cerniera.

Sbucciate le mele, tagliatele in quarti. Da ogni quarto ricavate delle fette non troppo spesse.
In realtà, ad essere sinceri, io le taglio in modo sempre diverso. A volte uso la mandolina e faccio delle fettine sottili sottili, che si fondono quasi nell'impasto. Altre, invece, no. Regolatevi voi.
Come che sia, disponete queste fette nella teglia. Se siete bravi e avete pazienza, optate per il classico disegno a raggiera. Se siete impazienti e sciattoni come me, mettetele più o meno a casaccio, cercando di non sovrapporle troppo e di coprire i buchi.

Con le fruste elettriche sbattete insieme lo zucchero, l'estratto di vaniglia e le uova, fino a quando il composto non si sia schiarito e trasformato in crema.

Setacciatevi dentro la farina, il lievito e la cannella (se la volete usare).
Aggiungete anche il latte, mescolate con cura, indi trasferite il composto nella tortiera e cuocete per 35'-40' (prova stecchino).

Nel frattempo preparate il topping.
Mettete burro e zucchero in un pentolino e a fiamma media fate cuocere per 3'-4'.

Aggiungete la panna, all'inizio con cautela (attenzione agli sputazzamenti bollenti).
Abbassate il fuoco e cuocete per un altro minuto.

Liberate la torta dalla sua tortiera e versateci sopra un po' della salsa.

Il resto portatelo in tavola, magari in una bella lattiera, così che chi lo desidera possa aggiungerne altra.

Enjoy!



domenica 26 settembre 2010

Sunday Music: Where Is My Love? - Cat Power

Cat Power ha la mia età e ha già vissuto diverse vite, una delle quali da alcolizzata.

Mi interrogo da tempo sul nesso, doloroso e inquietante, che sembra spesso esistere tra una particolare sensibilità - soprattutto musicale - e una decisa tendenza all'autodistruzione.

Come se questa sensibilità mettesse in contatto, oltre che con la bellezza e con la ricchezza della vita, anche con il suo dolore e il suo orrore.

Come se essa, ad un certo punto, non sostenesse più il suo proprio peso e la sua propria profonda intensità e decidesse di ottundersi, inesorabilmente, crudelmente.

La storia della musica è tristemente affollata di uomini e donne che un incredibile talento, l'amore delle folle, l'acclamazione della critica non sono riusciti a salvare dal bisogno oscuro e terribile di annullarsi.

Alcuni sono entrati nella leggenda, altri no.

Alcuni si sono salvati, più o meno bene, e hanno scelto di vivere.

È ciò che sta cercando di fare Cat Power.

Con tutti i fantasmi che si porta dietro, tutto il dolore che ha accumulato negli anni, tutte le insicurezze e le fragilità della sua ricca e complessa personalità.

Ed io ne sono molto contenta.

(Grazie a Manusa)





sabato 25 settembre 2010

Di unioni improbabili ma felici e di una torta alla cipolla e all'uva


Quanto è sottile la linea che separa il buono dal cattivo gusto e l'originalità dalla bizzarria?

A volte molto sottile - e tutto dipende da chi la guarda, questa linea, tanto per complicare la faccenda.

Ci sono abbinamenti gastronomici che ad alcuni sembrano il non plus ultra del gusto e della raffinatezza e ad altri atroci aberrazioni nate dalla demenza, dalla mancanza di idee, dalla volontà di stupire a tutti i costi o, e questo è di gran lunga il peggiore dei casi, dalla presunzione.

D'altronde, mai come in cucina gli abbinamenti sono un fatto puramente personale.

L'insalata tiepida di lenticchie che amo mangiare io, condita con aceto balsamico, menta, dadi di caprino e olio d'oliva (ispirata ad una cosa simile che fa Nigella Lawson), manda in estasi me e riempie di sconcerto venato di disgusto la Spia.

Gli spaghettini al pomodoro e basilico della suddetta Spia su cui lui lascia scivolare - quando pensa che io non guardi o quando non ci sono - un bel pezzo di burro mi hanno sempre lasciata più che perplessa (e meditabonda circa le differenze culturali tra chi è nato al di sotto e chi è nato al di sopra del Po).

Ci sono alcune unioni che paiono incomprensibili a chi le osservi da fuori, tanto diversi e distanti tra loro sembrano gli individui che danno loro vita, e invece funzionano a meraviglia, per quanto bizzarra e improbabile possa apparire la combinazione.

Ce ne sono altre che sembrano sempre incomprensibili etc etc e non funzionano nemmeno tanto a meraviglia, ma lì più che di fronte alla spesso sublime e a suo modo commovente irrazionalità dei rapporti umani si è di fronte al - pur sempre umanissimo - micidiale incastro del desiderio di due persone di farsi del male.
Di fronte a tanto complessi e inconsci moti dell'animo umano, confesso di sentirmi impotente e senza parole e incapace di formulare giudizi.

Ma per tornare a noi.

Quando ho letto la ricetta di questa torta su un numero recente di Marie Claire Idées (una delle mie riviste preferite), ho capito subito che mi sarebbe piaciuta, per quanto stramba potesse suonare la lista degli ingredienti.

Incredibile ma vero, è piaciuta molto anche alla Spia e alla di lui genitrice, che ci ha recentemente allietato con una breve visita.


Tarte fine à l'oignon et aux raisins
(leggermente modificata)

(per una tortiera di 30 cm di diametro)

200 gr. di farina integrale
100 gr. di burro
1 cucchiaino di sale
2 cucchiai di acqua fredda
2 cipolle rosse, medie, affettate molto sottilmente con una mandolina
acini di uva bianca
40 gr. di grana, grattugiato
timo
olio d'oliva
sale e pepe


Preriscaldate il forno a 210°.

Dosate la farina e il burro e mettete la ciotola che li contiene in freezer per 10'-20', indi trasferitene il contenuto nella coppa del robot da cucina.

Utilizzando la funzione pulse, riducete il burro e la farina in briciole, aggiungete il sale, poi i due cucchiai di acqua.
Non appena si formerà un abbozzo di palla spegnete tutto, estraete l'impasto, appiattitelo e stendetelo finemente con il mattarello su un foglio di carta da forno che poi utilizzerete per foderare la tortiera.

Dopo aver bucherellato il guscio di pasta con i rebbi di una forchetta (quanto mi piace scrivere questa cosa), ricopritelo con gli anelli finissimi delle cipolle, scaglie di grana ottenute utilizzando un pelapatate e il timo.

Sistemate come più vi aggrada gli acini di uva bianca (ovviamente lavati e asciugati). Io ho tentato di dar loro una disposizione vagamente artistica e simmetrica - senza risultati apprezzabili (il dito che vedete nella foto è quello della suocera che non ha saputo resistere alla tentazione di provare a dare una parvenza di bellezza e logica alla mia sbilenca composizione).

Sale, pepe, un filo d'olio e mettete in forno per circa 20'-30' (direi più 30' che 20').

Se avete paura di ritrovarvi le cipolle sullo stomaco anche il giorno dopo, potreste forse provare a fare come il nostro caro Arturi, che le sbollenta brevemente con l'acqua caldissima.

Dice che si mantengono croccanti ma perdono l'acre. Non ho sperimentato - non ho particolari problemi con le cipolle - ma mi fido del consiglio e ve lo passo.

Enjoy!

domenica 19 settembre 2010

Della domenica, di lavoratori e lazzaroni: Sunday Music

La domenica è per me un giorno sacro - e sia tolta qualunque connotazione devozionale a questa mia affermazione, please.

Lo è perché per molti anni ho lavorato di domenica, prima in una sala da tè a Roma, leziosa come una bomboniera, che proprio di domenica faceva affari d'oro, poi in una orrenda libreria in un orrendo centro commerciale che rimaneva aperto anche durante il fine settimana.

I miei amici andavano a mangiare fuori porta, poltrivano sui prati di Villa Borghese nei lunghi pomeriggi primaverili, andavano al cinema, a vedere una mostra o semplicemente se ne restavano a casa e si ritrovavano a sera rinfrescati, ritemprati, felici come un papa.

Io, invece, in preda alla colite e alle paturnie, servivo vassoi di tè e tisane o risistemavo gli scaffali di libri travolti dal passaggio delle orde dei barbari domenicali, individui che per lo più ignoravano persino che cosa si vendesse in una libreria ma la domenica non sapevano dove altro andare e pensavano che star lì a devastar scaffali fosse, in mancanza di meglio, un modo come un altro di ingannare il tempo.

Quelle domeniche di lavoro, fatica, nervosismo - e diciamola tutta, anche di odio feroce per tutti quei lazzaroni che me le funestavano venendo a prendere il tè o a sfogliar libri proprio dove lavoravo io - sono lontane, per fortuna. Qualche anno fa mi sono ripromessa che solo in caso di vita o di morte mi piegherò ancora alla necessità di trascorrerle lavorando.

Ora, la domenica è per me un giorno speciale.
In qualche modo tutto mio ne ho fatto davvero un giorno sacro.
È un giorno di tempi lunghi, rilassati, direi quasi sognanti: nei limiti del possibile faccio esattamente quello che voglio (e prima di tutto evito di uscire; la Spia mi prende molto in giro per questo motivo).

È un giorno consacrato alla lettura, alla cucina, a un po' di pasticciamenti simil-artistico-creativi, agli amici, cui amo offrire il tè nel pomeriggio.

Soprattutto è un giorno di musica, che aleggia nell'aria a tutte le ore.

La sentite anche voi? Non è una meraviglia?

Spero vi piaccia anche solo la metà di quanto piace a me.

Buona domenica!

P.S.
1. L'immagine all'inizio del post, H 19 Domenica, è un'acquaforte di Francesco Campanoni. Vi invito caldamente a visitare il suo sito, un luogo di poesia e stralunato, delicato umorismo.

2. Il video è un "regalo" che mi ha fatto tempo fa un mio amico telematico che ha molto a cuore la mia educazione musicale (grazie Rigus!).


Ensemble Arpeggiata di Christina Pluhar - Ciaccona di Maurizio Cazzati (1616-1678)



venerdì 17 settembre 2010

Memorie di una lettrice notturna di Elisabetta Rasy

Da molti e molti anni nutro un grande (a volte quasi maniacale) interesse per la scrittura delle donne, soprattutto intimistica (diari, lettere, autobiografie etc): un interesse che mi è stato in parte trasmesso dalla professoressa con cui mi sono laureata, un'intellettuale femminista e poetessa appassionata di letteratura femminile.

Un libro come questo, dunque, non poteva che attrarmi.

Devo ammettere, però, che ho una certa allergia alle teorizzazioni e ai discorsi, ahimè spesso eccessivamente intellettualistici, che si fanno e si sono sempre fatti intorno e sulla scrittura femminile (e quanti ne ho dovuti leggere, studiare, ascoltare negli anni!). Quando comincio a imbattermi in quel gergo da critica letteraria militante (con tutte le parole d'ordine del caso), comincio immediatamente a sbadigliare in preda alla noia, gli occhi e la mente abbandonano la pagina e vagano in tutt'altra direzione, andando ad altri libri, a ciò che accade fuori dalla mia finestra, alle gatte che giocano vicino alla mia poltrona, a che cosa posso cucinare per pranzo.
E in questo testo, di discorsi così, ce ne sono, eccome.

Quando invece, e in queste Memorie di una lettrice notturna - per fortuna - accade spesso, a parlare è la lettrice Rasy, la donna Rasy, il libro mi ha totalmente avvinta: a tratti l'ho trovato meravigliosamente interessante e commovente, perché si respira una vera, autentica empatia nei confronti delle scrittrici, di tutte, anche quelle con le quali, è evidente, l'autrice sente meno affinità e punti di contatto.

Bello, bellissimo, forse il mio preferito, il ritratto di Frida Khalo, che scrittrice non fu, ma come dice non a torto la Rasy, fu autrice di una violenta, personalissima, intensissima 'scrittura col corpo' della quale, al di là dei giudizi estetici che se ne possono dare, non si possono non avvertire la verità e la drammatica autenticità.

Molti anche gli spunti e le indicazioni di ulteriori ricerche ed esplorazioni(e testi come questo sono preziosi soprattutto per l'abbondanza di simili stimoli che regalano al lettore): mi sono segnata una decina di libri da cercare, che sono andati ad ingrossare le fila della mia già elefantiaca wish list (è talmente lunga che neanche in 2 vite potrei esaurirla).


Elisabetta Rasy, Memorie di una lettrice notturna, Rizzoli 2009.

venerdì 10 settembre 2010

Di condizionamenti ed eredità familiari e di una marmellata di prugne


Quando ero bambina, la mia colazione era pane o fette biscottate, burro, marmellata e un bicchiere di latte.
Ogni giorno che dio mandava in terra.

Io avrei voluto mangiare biscotti del Mulino Bianco, orrende merendine che sapevano di lievito chimico e tanta Nutella, come i miei compagni di scuola, le cui mamme lavoratrici, alle 7.30 di mattina già in tailleur, tacchi alti e perfettamente truccate e profumate, preparavano in tutta fretta il tavolo della colazione.

Ho desiderato per anni queste colazioni e queste mamme lavoratrici.
La mia, di mamma, era sempre vestita per stare in casa (qualche volta - assai raramente - si presentava in vestaglia), con le pantofole, un grembiule a proteggere la gonna, i capelli appena spazzolati e neanche un po' di trucco, le mani che già sapevano di cucina.

Quanto al menu della colazione, immagino che fosse stato stabilito anche perché mia madre è sempre stata un'indefessa confezionatrice di conserve, e di vasetti di marmellata, in casa, ce n'è sempre stata un'enormità.

Ricordo lo sgabuzzino di casa (chiamato 'lo stanzino buio'), una microscopica nicchia chiusa da una porta che si affacciava - in modo piuttosto bizzarro, ora che ci penso - sull'ingresso e che odorava sempre di chiuso e di legno. Sui suoi scaffali facevano bella mostra di sé, tutti allineati, decine e decine di barattoli di marmellate.

Per lo più erano di albicocche, di prugne e di arance (a volte quelle amare, amatissime da mio padre, che provenivano dal giardino di una sua mezza parente di Livorno) . Ogni tanto, qualche vasetto di marmellata di lamponi o di more e, praticamente solo per mio padre, che ne è sempre andato matto, di mele cotogne, che io trovavo ripugnante (ora che ci penso, dovrei riprovarla).

Ieri mattina mi è venuto in mente tutto questo, mentre assaggiavo la mia marmellata di prugne.
Sì, perché dopo anni di colazioni il più possibile lontane e diverse da quelle impostemi per decenni dai miei, dopo solenni promesse fatte a me stessa di non fare mai e poi mai un barattolo di marmellata in vita mia, ieri mattina mi sono appunto ritrovata con in mano una fetta biscottata spalmata di marmellata fatta in casa. Da me.

E accidenti, non c'è stato niente da fare. Ho provato una soddisfazione enorme, uno sciocco e compiaciuto orgoglio. Io, proprio io, avevo fatto quella marmellata e la trovavo buonissima e bellissima.

(La ricetta si trova in Confetture al naturale, di Federica Guerra [Terra Nuova Edizioni], ma l'idea di cimentarmici mi è venuta grazie ad un'amica aNobiiana, che qui ringrazio [grazie Paola!]).


500 gr. di prugne
250 gr. di zucchero (io ho usato il Golden Caster Sugar del commercio equo e solidale)
il succo di mezzo limone (più o meno)
1 stecca di cannella, spezzata a metà
1 chiodo di garofano
2 capsule di cardamomo, leggermente schiacciate


Dubito che il mio sistema sia pienamente ortodosso.
Per me funziona, comunque.

La tecnica è più o meno quella di Christiane Ferber, regina alsaziana delle marmellate.

Lavate le prugne, tagliatele a metà se sono piccole o in quarti se vi sembrano troppo grandi, togliete il nocciolo e mettetele in un pentolino dal fondo spesso.

Aggiungete tutti gli altri ingredienti e portate a bollore.

A questo punto spegnete il fuoco e lasciate riposare, secondo la Ferber anche tutta una notte, al fresco.

Io in questo caso ho aspettato 3-4 ore, ho assaggiato, corretto con un altro po' di succo di limone, tolto un po' di bucce, poi ho riportato la marmellata a bollore e ho aspettato che le prugne fossero sfatte (questione di pochi minuti), schiacciandole - ma senza troppa convinzione - con uno schiacciaverdure.

Infine ho invasato la marmellata in barattoli che avevo lavato con acqua calda e sapone e che avevo lasciato in forno a 120° per circa 25'-30'.

Quanti pensieri mi sono venuti in mente, ieri mattina, quando ho assaggiato questa marmellata.
Sui condizionamenti e le eredità familiari, che a volte sono pesantissimi fardelli, zavorre inutili e moleste che impediscono alla propria mongolfiera di alzarsi in volo e a volte - invece - meravigliose consuetudini che ci si ritrova, quasi senza volerlo, a ripetere, aggiungendovi, si spera, qualcosa di irripetibilmente personale - e qui sta l'elemento creativo, positivo, che le riscatta e le redime e le sottrae al possibile rischio di farsi statiche e inconsapevoli ripetizioni senza vita.

Consuetudini che sanno di casa, di saperi utili, di cose buone che passano da una mano all'altra, in una lunga, affettuosa, tenera catena.

Enjoy!

venerdì 3 settembre 2010

Nel regno di Acilia di Marco Baliani

Per chi ha avuto la fortuna di assistere ad un suo spettacolo, leggere questo romanzo significherà rinnovare, in un certo senso, la meravigliosa esperienza di ascoltare la voce di Baliani.

Da questo punto di vista, infatti, dalla prima all'ultima riga, questo libro è autentico e reale, nel senso che vi si ritrovano intatti il timbro e il ritmo della narrazione tipici di questo attore.

E per chi, come me, è nato e cresciuto a Roma, la storia assumerà subito un sapore di verità in più: la parlata, lo spirito della città, e soprattutto della sua periferia più povera e disperata, sono riprodotti con fedeltà assoluta, con rigore da filologo, da etnoantropologo, così come è resa con assoluto e dolente realismo la bruttezza quasi dolorosa di quel che resta delle campagne subito intorno a Roma, di quelle rive spelacchiate e arse di rifiuti del Tevere dove tra canneti e ciuffi di erbe selvatiche si arrugginiscono carcasse di motorini rubati e lavatrici e si coprono di muffe e ragnatele sanitari abbandonati e poltrone sfondate.

Nessuna freddezza, però, nell'operazione. Nessun senso di compiaciuta artificiosità, anzi.
Baliani riesce nella difficile alchimia di costruire una storia unica, irripetibile, straordinariamente caratterizzata e splendidamente inserita in un contesto storico e geografico particolare e al tempo stesso rende questa storia un mito che qualunque lettore può sentire suo.

Siamo stati tutti bambini, e dunque più o meno ostaggi delle prevaricazioni degli adulti, della loro violenza o indifferenza, ammutoliti dall'impotenza e dall'ignoranza della vita, ma anche estatici visitatori di mondi magici e incantati popolati di esseri fatati alleati del Bene o del Male e sovrani assoluti di regni solo nostri, magari anche solo per una stagione, o per una notte, unici e prescelti interpreti e decodificatori di quel linguaggio misterioso e segreto parlato dalla natura che a volte, dal suo mutismo, affida proprio a noi messaggi che parlano di redenzione, salvezza, iniziazione.

(Marco Baliani è prima di tutto un attore, l'esponente più rappresentativo, insieme a Marco Paolini, del cosiddetto teatro di parola o di narrazione.

L'unico suo spettacolo che ho visto, Tracce, non prevede alcuna scenografia. C'è solo una sedia sul palco, illuminata da un faretto. Su quella sedia Baliani si siede all'inizio dello spettacolo e lì rimane, per più di due ore, senza interruzione. A parlare, a raccontare storie, miti, favole, a recitare poesie, a improvvisare, anche, ché il suo Tracce è uno spettacolo sempre diverso, che cambia a seconda della serata, del pubblico, dell'umore suo e dell'atmosfera che respira in sala.

Un teatro vivo, il suo, e reale, anche quando racconta le fiabe dell'infanzia, quelle degli orchi e delle vecchie streghe che vivono nel bosco, e permeato di grande tenerezza, a tratti, e anche di rigore, di malinconia e di umorismo.

Baliani è empatico con il pubblico, gli è vicino, lo coinvolge, lo ammalia, ma con rispetto, con garbo. Non fa il piacione, non ammicca, non strizza l'occhio a conquistare un consenso facile e un po' drogato che, subito dopo, lascia in chi lo ha accordato la sgradevole sensazione di essersi lasciato andare in modo sconveniente.

Uscita da quelle due ore e passa di spettacolo, ricordo di aver avuto la testa e il cuore ribollenti di pensieri, riflessioni, immagini; seduta nel buio del taxi mi ripassavo nella mente una lunga lista di libri e musica da trovare, leggere, ascoltare, in preda a un'estatica, feroce e gioiosa esaltazione. Baliani infatti è generoso: offre spunti a migliaia, lancia esche, apre prospettive nuove, inedite, annoda fili, tesse trame, crea connessioni, mostra disegni, percorsi, condivide.

Nei tempi squallidi e piccini in cui ci tocca vivere adesso, una serata così riconcilia con la vita e con il mondo, e restituisce allo spettatore riconoscente la speranza in ciò che ancora può essere una persona: un essere pensante, intelligente, ma soprattutto sensibile. Alla realtà che lo circonda, certo, ma soprattutto alla realtà interiore, sua e degli altri, cui cerca di tributare il rispetto che le è dovuto.)






Marco Baliani, Nel regno di Acilia, Rizzoli 2004.

venerdì 27 agosto 2010

Mia sorella è una foca monaca di Christian Frascella

Romanzo di formazione e di educazione sentimentale di un diciassettenne della provincia torinese.

Una sorella con ansie religiose ma anche alle prese con il primo fidanzato imbranato; un padre ex ubriacone nullafacente che cerca di redimersi e di rimettersi in carreggiata; una madre che un giorno se l'è svignata con un benzinaio più giovane di lei e chi s'è visto s'è visto; una futura matrigna donna in carriera che sembra Frau Blücher e invece poi non è neanche troppo cattiva; lo scontro con il mondo della fabbrica e la difficoltà di conciliare la voglia di rivalsa e di affermazione di sé con la solidarietà nei confronti dei propri compagni di lavoro; il primo amore vissuto con il desiderio di (finalmente) abbandonarsi e insieme il terrore di farlo, tra l'incanto della scoperta dell'altro e l'istinto che spinge ad attaccare per proteggersi dai sentimenti.
In questo romanzo c'è tutto.

Il protagonista, di cui non si sa il nome (forse perché una maschera, universale), è un giovane Holden che oscilla tra l'infanzia e il mondo degli adulti e, alla ricerca spasmodica di conferme, alterna slanci di generoso candore ad aggressioni scomposte e spesso dall'esito ridicolo e patetico.

Io l'ho trovato esilarante.
Una scrittura fresca, efficace, dall'umorismo a tratti perfido, che non scivola sulla buccia di banana del buonismo ma all'improvviso si apre in inaspettate, irresistibili tenerezze.


Christian Frascella, Mia sorella è una foca monaca, Fazi Editore, 2009.

sabato 21 agosto 2010

Della gioventù, dei compromessi e di una torta alla cannella


In una relazione, in qualunque relazione, si sa, prima o poi si giunge a fare qualche compromesso.

La sola parola fa scorrere brividi di raccapriccio sulla schiena di molte persone, oppure ne provoca un istantaneo 'ingobbimento' causato da immediato e irrefrenabile avvilimento.

Soprattutto quando si è giovani, e dunque spesso estremisti - non tanto per convinzione, quanto per inesperienza e per ignoranza: non si sa che esistono quasi sempre infiniti modi di fare le cose, se solo ci si prenda la briga di andarli a cercare - anche solo l'idea di doversi piegare a qualche compromesso fa venire le bolle, ed è in fondo giusto che sia così: in un momento in cui si cerca spasmodicamente di capire chi si è non è pensabile abdicare, anche per un solo istante, a quella che si crede essere la propria unicità. Se si dice 'bianco', che bianco sia, sempre, senza se e senza ma; lo stesso dicasi per il 'nero'. Poi magari, più tardi, ci si pente di tanta tetragonicità, ma si ritiene sia troppo tardi per tornare indietro (altro errore: si può inserire la retromarcia molto più spesso di quanto si voglia credere, ammesso che si sia disposti, ovviamente, a fare ammenda, il che, alla maggior parte delle persone, secca moltissimo, tanto da indurle a rinunciare a priori) e si rimane lì, a difendere ostinatamente posizioni nelle quali non si crede nemmeno più.
Ah, la gioventù! Quante energie sprecate spesso in direzioni inutili!

"Oh be', ma dove vuole andare a parare?" vi starete chiedendo - e a ben donde.

Voglio andare a parare in direzione della cucina, ovvio, per parlare di uno dei tanti compromessi di cui la mia vita con la Spia è costellata.

Mi sembra sia evidente, a questo punto, che io e il mio accompagnatore siamo due persone mooooolto diverse.
Per fortuna su alcune cose davvero fondamentali la pensiamo alla stessa maniera, altrimenti davvero non si vedrebbe - a volte - la ragione del nostro incaponirci a volerci bene.

In cucina è assai facile ci si trovi in disaccordo: i nostri gusti sono spesso agli antipodi e anche il nostro approccio alle novità.
È strano, perché io sono senz'altro un'abitudinaria, una fanatica dei riti casalinghi e domestici, eppure mi piace moltissimo sperimentare nuove ricette.

La Spia, che invece è uno spirito piuttosto avventuroso in generale (soprattutto quando si trova con il sedere su qualche mezzo di locomozione e con una cartina in mano), in cucina dà prova di un certo qual tradizionalismo.

A me piace soprattutto provare nuovi dolci (e mi pare che la cosa sia abbondantemente evidente), ma se fosse per la Spia potrei limitarmi a fare solo crostate.

Così, abbiamo deciso, come in molti altri campi, di fare un piccolo compromesso: una volta si fa una crostata, una volta un dolce nuovo, con gli strappi alla regola del caso. Dal che si deduce che io e la Spia non siamo di certo due giovanottoni. Voglio dire, per riallacciarmi alla riflessione iniziale sulla gioventù inflessibile, che anche accettare le deviazioni dall'accordo che si è più o meno tacitamente stipulato è, secondo me, segno di quel grado di tolleranza - più o meno bonaria, più o meno divertita o rassegnata - che, ai miei occhi, dovrebbe connotare ogni maturità che si rispetti (piccola postilla: qui ovviamente si parla di torte, crostate, roba seria ma non grave: su alcune questioni, altro che tolleranza! come dice la cara Grazia. Ed io sono perfettamente d'accordo con lei).

Dunque, questa settimana toccava a me decidere quale dolce fare.
Ne volevo uno leggero e non troppo complicato e dopo la mia solita sosta davanti alla libreria rossa, ecco quello che ho trovato.


Cinnamon teacake da Sweet Old-Fashioned Favourites (della serie Australian Women's Weekly)

per una teglia di 20 cm. di diametro

60 gr. di burro, a temperatura ambiente + 10 gr., fuso
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
120 gr. di zucchero + 1 cucchiaio
1 uovo
135 gr di farina autolievitante
80 ml di latte
1 cucchiaino di cannella in polvere

Preriscaldate il forno a 180°.

Imburrate e inzuccherate la teglia e foderatene il fondo di carta forno.

Sbattete con le fruste il burro, l'estratto di vaniglia e l'uovo fino a quando il composto sia leggero e spumoso.

Incorporate la farina setacciata, aggiungete il latte e mescolate.

Versate nella tortiera e cuocete per circa 30'.

Togliete la torta dal forno, spennellatene la superficie con i 10 gr. di burro sciolto e spolverateci sopra il cucchiaino di cannella mescolato al cucchiaio extra di zucchero.

Tiepida è davvero buona, ma anche il giorno dopo (checché ne dicano le signore dell'Australian Women's Weekly, che consigliano di consumarla il giorno stesso in cui si prepara) è ottima e mi sembra si conservi benissimo: non si secca, non diventa gnucca e fa equamente felici le Papere e le Spie.

Enjoy!

sabato 14 agosto 2010

Ballata per la figlia del macellaio di Peter Manseau

Finito un romanzo, mi trovo sempre più spesso a pensare che non so bene che cosa pensarne.

Da che cosa dipenda questa mia incertezza è difficile dirlo, ma mi accade sempre più spesso.
E, lo confesso, lo considero un buon segno. Perché uno dei miei problemi è sempre stata una certa furia nel crearmi subito un'opinione precisa, mentre man mano che invecchio mi sembra sia meglio lasciare sedimentare le esperienze, le conversazioni, i pensieri, gli incontri, lasciar maturare la vita dentro di me prima di dire "È così/Non è così (forse)".

Ma per tornare al romanzo (che tra i suoi punti di forza ha indubbiamente il titolo).

Scrivevo a un amico aNobiiano che mi chiedeva che cosa ne pensassi che ogni tanto, durante la sua lettura, ho avuto l'impressione di leggere un gran bel romanzo, specialmente nella prima parte, quella ambientata nella Moldavia degli albori del secolo scorso e poi ad Odessa.
Ma anche e soprattutto perché, in questa prima parte, ci si trova di fronte a un grande affresco familiare e io sono da sempre attratta dalle storie di famiglia.

Dopo alcuni anni a Odessa - dove il protagonista Itsik Malpesh arriva appena adolescente, dopo un lungo e periglioso viaggio, per sfuggire alle conseguenze di un guaio combinato nella natìa Kishinev - la scena si sposta in America. L'approdo nella terra dell'oro, rocambolesco e letterario quant'altri mai, ovviamente da clandestino, dentro un baule che contiene le matrici con incise le lettere dell'alfabeto yiddish che il suo mentore/datore di lavoro/padre vicario Minkovsky spedisce a New York al suo vecchio amico Knobloch perché possano essere utilizzate per stampare un giornale in lingua yiddish, segna una tappa fondamentale nella lunga iniziazione di Itsik.

La sua dura vita da emigrante conoscerà una rapinosa svolta quando dal passato e da una terra lontana e sognata si materializzerà davanti ai suoi occhi, nella sera del suo debutto ufficiale come poeta, quella Sasha la cui forza e il cui coraggio Itsik crede gli abbiano salvato la vita proprio nel momento in cui egli vi si affacciava: nel giorno della sua nascita, durante un violentissimo pogrom, il pugno alzato in segno di minaccia della figlia del macellaio, che aveva allora solo quattro anni, riuscì a placare la sete di violenza e distruzione dei cristiani che avevano fatto irruzione nella stanza in cui la madre di Itsik lo stava faticosamente dando alla luce.

Da quel momento in poi, Sasha Bimko è per Itsik Malpesh la vita stessa: una potente e fiera dea protettrice, una musa elusiva, sfuggente, conturbante che dell'esistenza di Itsik è origine e fine, scopo e significato, estasi e tormento.

Eppure, nonostante immagini bellissime, pagine commoventi, alcuni personaggi ben tratteggiati e convincenti, questo romanzo non mi ha del tutto persuasa. Qualcosa nelle sue pagine è rimasto inerte, materia priva di risonanza. Forse su di me non ha presa il mondo, pur fascinoso e ricchissimo, della cultura yiddish: questo romanzo è prima di tutto un omaggio a quell'universo e alla sua tarvagliatissima storia. Forse la visione della vita che gli è sottesa non riesce a parlarmi. Sicuramente il finale un po' troppo 'americano' mi ha lasciata indifferente, per non dire perplessa.

Mi rimarrà, però, a lungo il discorso che Sasha fa a Itsik nel momento in cui la loro vicenda giunge ad un punto nevralgico e drammatico, e che riassume in modo magistrale la semplice e bruta verità che vede il mondo diviso in due categorie di persone: quelle che dalle bordate della vita traggono forza per creare (non solo arte, ma altra vita, in generale) e quelle che invece quella forza da cui sono stati brutalmente investiti la impiegano per distruggere.

Perché vogliono esorcizzare l'impotenza che ha segnato in modo infausto il loro esordio nel mondo o perché il bagno nel quale si è immersi nei primi anni della propria vita è un bagno tenace, che penetra nei pori della pelle e lascia segni, codici di comportamento e chiavi di interpretazione della realtà che si fa una fatica bestia ad abbandonare, anche qualora li si scopra manchevoli, difettosi o addirittura nocivi, per sé e per gli altri. Soprattutto quando in quel bagno di violenza e distruzione si sia immersi insieme a tutto il proprio popolo, da millenni, portandosi sulle spalle il peso di una storia complessa, tragica, apparentemente senza remissione.

Di fronte alla violenza della vita bisogna scegliere da che parte stare, come rispondere, ed essere pronti a sopportare il peso e le conseguenze della propria scelta, qualunque essa sia.

Sasha decide di spogliarsi di quell'eredità dolorosa del suo passato, sceglie di non fare più da staffetta, di spezzare quella catena di violenza di cui lei stessa è stata troppe volte un anello, ma per farlo condanna se stessa e l'uomo che ama ad un'esistenza che, pur nella sua ricchezza e nella sua generosa apertura agli altri, rimane un'esistenza a metà, fondata sulla rinuncia all'amore della sua vita.

Itsik, forse meno lucido e meno consapevole di lei, non ci riesce, e da quell'eredità di sofferenza e violenza si fa travolgere in un'unica, fatale circostanza, facendosi poi trascinare, giorno dopo giorno, da anni di grigia e quieta disperazione.

La storia, se così fosse stato, sarebbe stata tragica e assai lontana dalla mia sensibilità, ma coerente e rigorosa.
Il finale, invece, in cui tutti i fili si riannodano, gli opposti si avvicinano e l'impossibile diventa realtà, ha un'aria consolatoria e posticcia che rovina non tutto ma molto.

Ancora una volta, peccato.



Peter Manseau, Ballata per la figlia del macellaio, Fazi Editore 2009, traduzione di Giuliano Bottali e Simonetta Levantini.

lunedì 9 agosto 2010

Di amici in visita e di pesche al caramello


Uno dei vantaggi di vivere in una cosiddetta 'città d'arte' è che spesso gli amici sparsi per mezzo mondo ti vengono a trovare.

Nella scelta della nuova casa ha giocato molto anche la presenza di ben due stanze per gli ospiti; in realtà una sarebbe lo studio della Spia, che però ha graziosamente accondisceso a metterci un divano letto, nel caso in cui ci fosse bisogno di offrire un giaciglio a una seconda coppia di amici visitanti (o ai loro pargoli).

Proprio lo scorso fine settimana, la camera degli ospiti, o chambre d'amis, come si dice in francese con un'espressione che trovo molto molto più bella, è stata ufficialmente inaugurata da un nostro carissimo amico milanese-tedesco in tournée estiva per l'Italia con la sua fidanzata.

Non dirò delle bellissime ore trascorse in loro compagnia, delle appassionanti chiacchierate (soprattutto la mattina appena svegli, incredibile a dirsi), della musica ascoltata insieme e delle passeggiate per Firenze e sulle colline, e non mi dilungherò nemmeno sui bei momenti passati in cucina, a preparare pranzi e cene e colazioni.

Dirò soltanto che per me ci sono poche attività più rilassanti, appaganti e piacevoli che preparare un pasto aiutata da amici. Mi piace anche solo essere intrattenuta dalle loro chiacchiere, mentre taglio, peso, impasto, cuocio, inforno etc etc e loro, appollaiati sugli sgabelli della cucina, e magari spiluccando qualcosa o leccando ciotole e spatole, mi contan su quello che vogliono.

Che felicità! Che beatitudine!

Tra i desserts più apprezzati in questo weekend, le pesche al caramello.

Si fanno in un attimo, si preparano un'oretta prima di consumarle e si mangiano dopo una cena leggera.

Meraviglia!


(per Claudio e Betta, con grandissimo affetto)


Caramel Poached Peaches da Rachel's Favourite Food for Friends di Rachel Allen

per 4-6 persone

200 gr. di zucchero
100 ml di acqua fredda
200 ml di acqua calda
la buccia di mezzo limone, a strisce
4 pesche, tagliate a metà e senza nocciolo
il succo di mezzo limone

In una pentola che possa ospitare agevolmente le pesche mettete i 100 ml di acqua fredda e lo zucchero e lasciatelo sciogliere dolcemente.

Alzate il fuoco e fate bollire fino a quando lo sciroppo non cominci a scurirsi: per quanto grande sia la tentazione di farlo, non usate mestoli, cucchiai o altri ammennicoli per mescolare e sfrucugliare; limitatevi a inclinare la pentola di qua e di là.

Ora, se siete come me, cioè pavidi e pasticcioni, aspettate 3-4 minuti. Non avrete un caramello, ma uno sciroppo, cioè un liquido molto più lento e fluido.

Se invece avete tempre più coraggiose e intrepide resistete fino a 6-8 minuti. Il caramello dovrebbe assumere il colore del whiskey e cominciare appena a fumare. Ci vuole un attimo perché prenda uno spiacevolissimo sapore di bruciato, dunque occhio.

A questo punto abbassate il fuoco - non troppo, deve essere medio - aggiungete l'acqua calda (attenzione, perché il caramello potrebbe sputazzare per qualche secondo), mescolate appena e deponete con grazia le pesche e la buccia di limone nella pentola.

Lasciate cuocere per circa 4-5 minuti: le pesche non devono spetasciarsi, ma ammorbidirsi, mantenendo però forma e consistenza.

Spegnete il fuoco, aggiungete il succo di limone e lasciate le pesche lì, a insaporirsi.

Servitele con panna fresca appena montata, con gelato alla crema, con crema di mascarpone, con yogurt condito con un po' di zucchero mascobado.
C'è da dire - e stento a credere di essere proprio io a dirlo - che sono divine anche così, nature.

Il giorno dopo, a colazione, con dello yogurt bianco o anche con una torta secca, sono la fine del mondo.

Enjoy!

venerdì 30 luglio 2010

Di un tempo bizzarro, di tempi incerti e di un'insalata


Son giorni strani, questi, da queste parti.

Giorni in cui l'afa e la calura umida che in genere, in questo periodo dell'anno, opprimono senza nessun garbo questa città e i suoi abitanti sono state sostituite da piogge, temporali e da una brezza fresca che a tratti fa venire voglia di infilarsi un maglione di cotone e un paio di calzini.

Io non mi lamento affatto di questo tempo bizzarro, anzi.

E sto pensando di farmi, per cena, una bella zuppa di legumi.

Ma prima, un'insalata tra le mie preferite.


per 4 persone:

Watermelon, feta and black olive salad
da Forever Summer di Nigella Lawson
(con qualche piccola modifica)

1 cipolla rossa di Tropea
2 cucchiai di aceto (io ho usato quello di mele)
4 cucchiai di olio d'oliva
700-800 gr. di anguria
125 gr. di feta
prezzemolo
menta
50 gr. di olive nere
sale e pepe


Tagliate assai finemente la cipolla.
Se avete una mandolina, usatela, evitando di affettarvi qualche polpastrello (o capita solo a me?).

Disponete gli anelli in una ciotola, aggiungete i due cucchiai di aceto e i 4 di olio, mescolate, coprite con della pellicola e lasciate riposare per circa 2 ore (meglio un'ora in più che in meno).

Quando siete pronti, pulite l'anguria dai semi (io odio farlo e in genere lascio questa incombenza alla Spia), tagliatela in pezzi non troppo grandi e mettetela nella ciotola in cui poi la servirete.

Aggiungete anche la feta - a tocchetti o semplicemente sbriciolata-, le foglie di prezzemolo, quelle di menta e le olive nere, che avrete denocciolato al momento e tagliato a metà.
Vi sconsiglio vivamente di usare le olive già denocciolate: nel migliore dei casi sono molto meno saporite di quelle con il nocciolo; nel peggiore sono semplicemente orrende.

Infine unite gli anelli di cipolla, resi trasparenti e lucidi dalla marinatura, salate (con mano leggera, c'è già la feta), pepate, mescolate delicatamente e portate in tavola.

Non sarei onesta se vi dicessi che questa insalata piacerà a chiunque.
Non sarà così.

È un piatto che suscita reazioni estreme, o almeno questo è ciò che ho notato io, non quei commenti gentili ma ambigui ("Ha un sapore complesso", oppure "Interessante...") che si accompagnano a piluccamenti tentennanti e incerti.

All'inizio aspettatevi qualche occhiata perplessa da parte di chi se la troverà in tavola, e anche qualche netto e fermo rifiuto preconcetto ("No, grazie, io prendo l'insalata di pomodori").

L'anima curiosa che invece l'assaggerà e la troverà di suo gradimento ne sarà entusiasta e se ne mangerà una tonnellata.

Se vi incuriosisce, provatela.

La cucina è uno di quei pochi luoghi al mondo in cui seguire la propria curiosità può portare tutt'al più, se proprio va tutto storto, a uscire all'ultimo minuto per andare a mangiare al ristorante - e magari viene fuori pure una serata carina e simpatica - oppure a prendersi del bicarbonato per digerire prima di andare a dormire (oddio, volendo può portare anche a bruciare o a far esplodere la cucina stessa o l'intero palazzo, oppure invece che al ristorante si può finire in ospedale per una lavanda gastrica, ma non siamo catastrofisti - per una volta).

A me questa consapevolezza fa sentire bene.
Un po' come saltare nel vuoto sapendo che sotto c'è una rete sicura, in caso di caduta.

Di questi tempi incerti e oscuri, una consapevolezza preziosa come l'oro.

Enjoy!

domenica 18 luglio 2010

Dell'entusiasmo, di ricerche e di una torta estiva


Chi mi conosce sa che una delle mie caratteristiche più evidenti è la mia capacità di entusiasmarmi davvero per poco.

Basta che mi arrivi la cartolina di un amico o che dal giornalaio ci sia la rivista che aspettavo perché la mia giornata viri irrimediabilmente al bello.

Trovare frutta o verdura particolarmente buona e saporita quando vado a fare la spesa o giungere alla soluzione di un problema pratico che magari mi assillava da un po' sono altri motivi più che sufficienti perché per tutto il giorno mi si stampi un sorriso soddisfatto sulla faccia (con grande, affettuosa e a volte sarcastica incredulità della Spia, persona di maggiori e più profonde inquietudini, di quelle che possono trovare una momentanea requie solo grazie a un piatto di fumanti spaghettini al pomodoro).

Essere rientrata finalmente in possesso di una cucina del tutto funzionante è stato per me motivo di somma gioia, una gioia che però ho dovuto attendere di celebrare (ho avuto un periodo un po' vivace dal punto di vista, diciamo così, lavorativo e ho frequentato i fornelli molto poco, direi proprio il minimo sindacale).

Ieri pomeriggio, dopo settimane di insalate e mozzarelle, couscous alle verdure e piatti di bresaola, ho finalmente deciso di festeggiare una serie di eventi fausti facendo una torta.

Volevo cimentarmi con qualcosa di nuovo e ho dunque passato una buona mezz'oretta cercando tra i miei libri di cucina una ricetta adatta (per me esistono poche attività tanto appaganti quanto questa: starmene in piedi davanti alla mia Billy rossa, o appollaiata sullo sgabello della cucina, a sfogliar libri e a confrontare ricette).

Ovviamente avrei voluto fare uno di quei dolci tipicamente invernali con ganache al cioccolato, frutta secca, spezie e arance e una parte di me non trovava niente di strano in tutto ciò.
Infine è prevalso quel che si potrebbe definire buon senso (evidentemente ce l'ho anche io), anche se non è stato facile trovare qualcosa che andasse bene per la stagione e che mi ispirasse il giusto.

Poi, finalmente, ho avuto un'illuminazione: era parecchio tempo che avevo voglia di cimentarmi con un tipico dolce inglese, la Victoria Sponge Cake (che altro non è se non la versione albionica del pan di Spagna), che viene in genere farcita con marmellata e panna montata e poi ricoperta da un leggero strato di zucchero.

Volevo una ricetta il più semplice e rapida possibile, dunque ho optato per l'All in One Sponge di Delia Smith, che è una versione assai eterodossa di quella originale.

Dopo una breve ricerca, svolta consultando il mitico Mrs Beeton's Household Management - il manuale per antonomasia della perfetta padrona di casa dei tempi vittoriani - e, ovviamente, English Puddings del caro Stefano Arturi, sono infatti giunta alla conclusione che la versione originale non preveda l'uso di burro, ma soltanto di farina, uova, zucchero, scorza di limone ed estratto di vaniglia (o di mandorla, o un po' di brandy).

Questi ingredienti danno una torta leggerissima ma che, a quanto pare, si conserva molto poco; ecco perché, in tutte le versioni 'moderne' che ho potuto mettere a confronto, è presente il burro.

La procedura spiccia e poco elaborata di Delia Smith mi ha molto soddisfatta, ma in futuro vorrei provare comunque le due versioni 'arturiane', leggermente più complesse (le trovate nel suo libro su citato, alle pagine 24-26; mi piace soprattutto il fatto che la tortiera venga imburrata e, anziché infarinata, inzuccherata).

Il risultato finale è piaciuto moltissimo alla Spia (e ciò ci ha alquanto rallegrati) e anche a me (cosa nient'affatto ovvia, dati i miei gusti).

Certo, niente a che vedere con il pan di Spagna della mamma, morbido, alto, soffice, leggerissimo.

Per quello ci vuole ben altro...


All in one sponge
di Delia Smith (da Delia's Complete Cookery Course)

per due teglie da 18-20 cm. di diametro, imburrate e infarinate e con un fondo di carta da forno

110 gr. di farina autolievitante, setacciata
1 cucchiaino di lievito per torte
110 gr. di burro, a temperatura ambiente
110 gr. di zucchero
2 uova, grandi
1 cucchiaino di essenza di vaniglia

Preriscaldate il forno a 170°.

In una ciotola capiente, setacciate (di nuovo) la farina e il lievito, tenendo alto il passino - per permettere alla farina di essere abbondantemente aerata.

Poi, molto semplicemente, unite gli altri ingredienti e, usando preferibilmente le fruste elettriche, amalgamateli perfettamente.

Se il composto fosse un po' troppo secco, aggiungete 1 o 2 cucchiaini di acqua tiepida (io li ho aggiunti) e mescolate.

Dividete il più equamente possibile il composto tra le due tortiere, livellate la superficie e fate cuocere per circa 30', trascorsi i quali tirate fuori le due tortiere e attendete 30 secondi.

Passate una spatola tutto intorno alle due torte per facilitare il loro distacco, rovesciatele su una gratella, togliete delicatamente la carta da forno e lasciate completamente raffreddare.

Solo allora potrete farcirle come più vi aggrada e cospargerle - volendo - di zucchero a velo o semolato: io ho optato per uno strato di marmellata di frutti di bosco e uno di panna montata (125 ml), perché mi sembrava che l'abbinamento fosse molto inglese e molto estivo.
Ma deve essere buonissimo anche il lemon curd (con cui ho farcito, tempo fa, una semplicissima torta allo yogurt; ne riparleremo) e, ovviamente, una qualche bella ganache al cioccolato - ma non ditelo all'Arturi.

Enjoy!

sabato 10 luglio 2010

Di antenati e di famiglie mai avute e della prozia Lina

Qualche tempo fa vi avevo presentato brevissimamente la mia prozia Lina, inquieta viaggiatrice ed accumulatrice (probabilmente compulsiva) di oggetti di ogni sorta.

Mi ero ripromessa di tornare a parlarne, una volta o l'altra, benché, a ben guardare, non siano molte le cose che so di lei.

Non so molto della mia famiglia, a dire il vero, né di quella materna né, tanto meno, di quella paterna.

Per motivi troppo complessi (e noiosi) e la cui natura mi è chiara solo in parte, sono stata cresciuta da un uomo e una donna che in qualche modo avevano chiuso, molti e molti anni prima che io nascessi, quasi ogni rapporto con i loro parenti.

Da qui una pressoché assoluta mancanza, nella mia infanzia e nella mia giovinezza, di un legame costante, affettuoso, al limite anche opprimente, con una 'famiglia'.

Zii e cugini di parte paterna (quelli di parte materna erano in Veneto e li vedevo, se possibile, ancora di meno) sono sempre stati per me persone incontrate assai di rado e in compagnia delle quali ho sempre provato un misto di imbarazzo e timore reverenziale.

Adesso mi viene da sorridere pensando alla bambina che ero, sempre a disagio e in soggezione di fronte a questi parenti 'esotici', che abitavano a Roma come noi ma in un quartiere di 'signori' e avevano case bellissime, arredate dall'architetto, che profumavano di mobili d'antiquariato, potpourri alle spezie contenuti in lucide boules d'argento, antichi lini preziosi e cera per parquet.

E che umiliazione ogni volta nel confrontare i miei vestiti dismessi dai miei fratelli maggiori e quelli delle mie cugine, sempre alla moda e provenienti dai migliori negozi della città.

Ho dei vaghi ricordi della prozia Lina, che è morta pochi anni dopo la mia nascita.

Anzi, non sono nemmeno sicura che i miei ricordi non siano in realtà soltanto reminiscenze di foto che le furono scattate in tardissima età, da me intraviste in qualche album a casa delle mie zie.

Come che sia, l'immagine che ne ho è quella di una donna alta e curva, sempre vestita di nero e con un infinito filo di perle al collo, i capelli grigi raccolti sulla nuca da innumerevoli e minuscole forcine, ed orecchini di diamanti ai lunghi lobi delle orecchie.


Eccola qui, insieme alla sorella minore Olga (la mia nonna paterna) e al fratello Umberto.

Delle due sorelle, Lina fu sempre considerata la meno attraente e per questo le fu consentito di studiare e di diventare maestra.

Benché i miei bisnonni non fossero entusiasti all'idea di avere una figlia 'lavoratrice', probabilmente pensarono che un'occupazione come quella, per la quale Lina mostrava grande passione e che si addiceva comunque ad una signorina di buona famiglia, potesse rivelarsi un' àncora di salvezza nel caso in cui la loro primogenita fosse rimasta zitella.

Ecco una delle mie foto preferite: Lina è in primo piano a destra, durante una lezione di disegno e pittura nel collegio in cui fu educata, ma io sono sempre stata attratta dalla ragazza dietro di lei, col capo chino e quell'espressione concentrata e assorta, che si indovina essere stata assai graziosa.

La sua più avvenente sorella, Olga, venne invece cresciuta in funzione di un buon matrimonio: le fu garantita una minima istruzione, le fu imposto un po' di pianoforte (a Lina il liuto) e le furono insegnati i lavori femminili (anche se da sposata preferì sempre avere le sue ricamatrici e le sue sarte).

Ma soprattutto fu rifornita di uno splendido guardaroba e gettata sul mercato delle frequentazioni giuste.

Olga si sposò a 15 anni, con un uomo (mio nonno) che aveva quasi il doppio della sua età e che lei non aveva scelto.

Di sicuro Ferdinando adorò Olga dal primo momento in cui la vide e i genitori di lei acconsentirono di buon grado al matrimonio.

Quanto a lei, sembra fosse solita ripetere alle sue figlie che non bisogna mai sposarsi con l'uomo che si ama, ma con un uomo cui si vuol bene sì.
E a giudicare dalle foto che ho visto dei miei nonni, non ho motivo di dubitare che, col tempo, Olga avesse imparato a voler bene a quell'uomo che le era stato imposto.

Lina intanto aveva tante amiche, insegnava, fece il suo dovere di crocerossina durante la prima guerra mondiale (eccola qui in una foto in studio con il fratello), e alla fine, quando tutti la pensavano ormai destinata ad una vita da zitella, si sposò. Con un uomo di cui non so nulla, a parte il nome, che da piccola mi facevo ripetere dal mio babbo come una sorta di buffa filastrocca: Bernardino Bernardoni. Un omino piccolo di statura ma polputo, che assomigliava vagamente a Alfred Hitchcock, a quanto pare di buon carattere e molto paziente - benché con un filo di innocua bizzarria - che quando la rese vedova la lasciò addolorata il giusto, ma soprattutto libera di viaggiare.

Non credo che Lina si sia mai spinta al di là delle frontiere italiane, se non per recarsi in Francia e in Svizzera. Per lo più girò tutta l'Italia, acquistando ovunque cartoline e souvenir in quantità industriali.

Dei suoi libri a me ne sono arrivati solo un paio: una grammatica e un manuale di pronuncia di lingua inglese, con i suoi appunti e gli esercizi diligentemente svolti. So che studiò da sola anche il tedesco (il francese lo aveva imparato da giovane, quando questa lingua era ancora bagaglio obbligato di qualunque educazione rispettabile).

Di lei rimane anche un nastro - ormai temo inascoltabile perché troppo vecchio -, registrato da mio padre una sera, in cui la si sente raccontare ai miei due fratelli maggiori la fiaba del grillo e la cicala.

Lina doveva essere davvero molto anziana, a giudicare dalla voce, assai gracchiante ma senza il minimo accenno di incertezza e con un meraviglioso accento lucchese, appena appena appannato dai molti anni trascorsi a Roma.

Nella disinvoltura con cui racconta la sua favola , cambiando le voci a seconda dei personaggi, rispondendo sicura alle domande dei miei fratelli, si sente quanto Lina - che di figli non ne ebbe mai - abbia vissuto sempre per e con i figli degli altri.

Peccato non averla conosciuta, non aver mai potuto sedere con lei in giardino a leggere un libro o a chiacchierare e non averla mai sentita suonare il liuto.

Peccato non aver avuto mai accesso ai suoi ricordi, non aver mai sentito nessuna delle sue storie, non averle potuto chiedere come fosse davvero il suo Bernardino, e chi fosse invece quell'Amedeo che, molti anni prima che lei diventasse la signora Bernardoni, le aveva inviato diverse cartoline.

Dentro di me, inconsapevole ma presente, vive anche la memoria di questa signorina nata nell'800.

Mi piace credere che certi miei pensieri inusuali o certi strani déja-vu, certe emozioni forti che provo di fronte ad alcune immagini o paesaggi visti per la prima volta o suscitate in me da musiche mai sentite siano in realtà modalità inedite di comunicazione scelte dai miei antenati per parlare con me.

È un pensiero confortante, che fa sentire meno soli.

mercoledì 7 luglio 2010

Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams

Devo ammettere che non ho mai avuto quella che definirei una grande passione per la fantascienza, anzi.
Direi piuttosto di essere stata sempre indifferente a questo pur nobilissimo genere letterario e cinematografico, trovandolo indicibilmente noioso e lontano dalla mia sensibilità, con buona pace di un mio fidanzato dell'università che perse i suoi migliori anni cercando di farmi cambiare avviso in proposito e di farmi leggere questo libro - senza riuscirci, ovviamente (allora).

Ho dunque cominciato a leggere questo libro armata di tutti i pregiudizi del caso e, ora lo posso confessare, soltanto perché mi è stato regalato da una carissima amica, su consiglio di una persona coltissima, del cui gusto e della cui intelligenza nessun individuo sano di mente potrebbe dubitare (sì, lo so, sono una snob).

Naturalmente mi sono dovuta ricredere. E chi mi conosce bene sa che non esiste, per me, cosa migliore che ritrovarmi a dire "Ohibò, mi ero sbagliata al riguardo" - quando si parla di libri, ché in altri campi mi secca terribilmente ammettere di non averci visto giusto - (però lo faccio, se devo farlo).

Mi piace essere sorpresa e smentita, mi piace essere presa in contropiede e ritrovarmi tra le mani un testo su cui non avrei mai scommesso la proverbiale lira e avere voglia di non lasciarlo più fino a lettura ultimata, leggendo in quel modo un po' nevrotico che ho quando un libro mi piace, per cui in parte mi affretto perché voglio finirlo, in parte invece invento i pretesti più idioti per procrastinare il momento in cui dovrò voltare l'ultima pagina e comincerò subito a sentirmi orfana.

Sono sempre stata affascinata da quegli autori che riescono a costruire interi mondi, in sé perfettamente compiuti e autonomi e coerenti, con le loro leggi, la loro lingua, la loro storia e geografia ("Ma allora dovrebbe piacerti anche la fantascienza!", diceva, esasperato, il mio fidanzato di cui sopra): so di giocarmi ogni pur minima credibilità affermando che ho amato molto la saga di Harry Potter per questo motivo, ma che non sono riuscita comunque a finire Il Signore degli anelli, che pure, per le stesse identiche ragioni, avrebbe dovuto incatenarmi alle sue pagine e invece non ci è riuscito (nonostante sia evidente a tutti la sua intrinseca superiorità letteraria rispetto alla serie della Rowling).

Ci è riuscita, invece, questa Guida galattica per gli autostoppisti, che mi ha letteralmente trasportata nell'universo fantastico e surreale costruito dall'esuberante e folle immaginazione dell'autore e che è un libro veramente e totalmente delirante, pervaso di un gusto dell'assurdo e dell'invenzione incredibilmente fresco, infantile, entusiasmante e di quell'umorismo tipicamente britannico che sa essere connubio perfetto di raffinata intelligenza e sottigliezza, ma anche capolavoro di meravigliosa, semplice, pura, rilassante idiozia.

Pensate ai Monty Python, alla faccia di John Cleese o di Micheal Palin e al loro modo di farvi ridere: non è fantastico trarre la stessa innocente e sana goduria da un libro? Io penso proprio di sì.



Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, Mondadori 1996, traduzione di Laura Serra.