mercoledì 31 agosto 2011

Di oziose invettive, di impaziente avidità e di un gelato allo zabaione

Mi sono a lungo interrogata sull'opportunità o meno di pubblicare questa ricetta.

Prima di tutto per via della sua provenienza. 
In questo blog ho sempre cercato di parlare di ricette tratte da libri di cucina, oggetti per i quali - dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro - ho una passione smodata virante, temo sia assodato, al patologico.

Questo blog, in effetti, è nato soprattutto, all'inizio, come spazio in cui parlare di libri, di quelli che mi piace leggere e di quelli che mi piace usare sia in cucina sia nelle mie scoordinate ma felici incursioni nel mondo del craft.

Tra l'altro i libri di cucina che si pubblicano oggi sono anche, spesso, libri da leggere. 
O meglio.
Diciamo che va molto di moda pubblicarli e presentarli come libri anche da leggere (e la frase spesso utilizzata è ne vorrete una copia in cucina e una per il vostro comodino, o qualcosa di molto simile), come se ci fosse qualcosa di disdicevole nel proporre un onesto manuale.

Sia ben chiaro.
Io amo molto - e l'ho detto più volte - i libri che uniscono ricette e ricordi, divagazioni e brevi saggi.
Il fatto è che assai raramente ci si trova tra le mani testi scritti con garbo sufficiente per essere effettivamente letti con piacere e senza digrignare i denti di fronte alla disinvoltura con cui - in nome della spontaneità e della commistione dei generi - chi li scrive maltratta la lingua italiana.  
Ma questo è un altro discorso, fatto ad abundantiam in altre sedi e non è il caso di ripeterlo anche qui.

Comunque, la ricetta di oggi non è presa da un libro, ma (con molta libertà) da un opuscolo di Sale & Pepe, acquistato in edicola più o meno un mese fa, dal titolo (per me orrido) Dolci da brivido.

Esistono scuole di pensiero differenti su quella che è forse tra le più note riviste di cucina di questo disgraziato paese. Ci sono fierissimi detrattori e grandi, entusiasti sostenitori. I primi non eseguirebbero nemmeno sotto tortura neanche una ricetta tratta da quelle pagine; i secondi non accettano che si muova neanche la più lieve critica a quello che considerano quasi un testo sacro - anche se pubblicato a puntate mensili e acquistabile in edicola, come un romanzo d'appendice.

Io ne ho acquistati gli ultimi 5-6 numeri, per farmi un'idea.
Per certi versi la trovo una bella rivista: è colorata, con un layout elegante, chiaro, fotografie comme il faut (e con questo intendo come van di moda oggi, stile Donna Hay, per intendersi) e le ricette sembrano essere eseguibili da qualunque "cuciniere" medio. Molte poi sono estremamente appetibili - almeno per me.

Ma non c'è numero la cui lettura non mi trasformi prima o poi in una piccola erinni, quando mi imbatto in certe espressioni che ormai han fatto scuola e si leggono più o meno ovunque si parli di cucina.
Nelle pagine di Sale & Pepe, infatti, è tutto un fiorire di termini come scioglievolezza, leccornia, bocconcino e di aggettivi leziosi come ghiotto, delizioso, goloso, gustoso, stuzzicante, sfizioso - progenitori di tutti quei coccoloso, profumoso, sofficioso, cioccolatoso etc. che si trovano a iosa nel web.

Abbondano poi le frasi fatte noiose e ripetitive: la dolcezza è sempre irresistibile, la leggerezza ghiotta, il sapore sorprendente, l'antipasto raffinato (o chic).

Che noia. E che fastidio.

Lo so che l'importante è che le ricette siano affidabili e scritte chiaramente - e mi sembra che da questo punto di vista si possano muovere poche obiezioni alla rivista.
Ma perché, mi chiedo, non limitarsi a questo - che è già tanto, e meritevole - evitando di creare uno stile che secondo me ha fatto più danni che la grandine? Non era possibile trovare un'alternativa meno ingessata e raggelante alla pur mitica La cucina italiana senza per forza cadere nel bamboleggiante e nello stucchevole?

Fine dell'(oziosa) invettiva.

Il secondo motivo che mi induceva ad esitare fino ad oggi è che la fotografia ritrae - è evidente - una tazzina vistosamente vuota.

Il gelato allo zabaione (fatto partendo dalla ricetta di questo opuscolo, poi modificata in corso d'opera e meticciata con altre ricette) è venuto in effetti così bene che non siamo riusciti, né io né la Spia, a fermarci in tempo per immortalarlo ancora intonso.

Tutto sommato, però, a ben pensarci, non c'è prova migliore della sua bontà: un inglese probabilmente commenterebbe col noto The proof is in the pudding.


****

Gelato allo zabaione

3 rossi
100 gr di zucchero
250 ml di latte
50 ml di marsala
150 ml di panna


Battete con le fruste i rossi con lo zucchero fino ad ottenere un composto liscio e chiaro, a "nastro".

In un pentolino riscaldate il latte senza farlo bollire.

Aggiungetene un mestolo al composto di uova e zucchero, sempre mescolando con le fruste (alla velocità minima), poi un secondo mestolo, infine tutto quel che resta. Mescolate e versate tutto di nuovo nel pentolino in cui avete scaldato il latte, cuocendo a fuoco basso-medio fino a quando la crema non veli il cucchiaio (circa 8 minuti? più o meno).

Spegnete e lasciate raffreddare. È possibile che la crema, lasciata a se stessa per un po', formi la pelle e risulti granulosa: niente panico. È pratica assai eterodossa e verrò sicuramente tacciata di eresia, ma io in questi casi ricorro felicemente al frullatore ad immersione: pochi secondi e la crema è di nuovo liscia, perfetta.

A quel punto aggiungete il marsala.

Poi montate la panna (non esagerate) e aggiungetela delicatamente al composto.

Se usate la gelatiera, mettete tutto nel cestello e tenete presente che il liquore allungherà senz'altro i tempi di preparazione (nella mia ci son voluti 45 minuti buoni invece che i soliti 20-25); se non avete la gelatiera, preparatevi al balletto i cui passi principali sono: mettere nel freezer per due ore, tirare fuori dal freezer, frullare con le fruste, rimettere nel freezer, tirare fuori dal freezer etc etc per almeno un paio di volte (se non tre).

Ma alla fine avrete un gelato allo zabaione stupefacente, quasi più buono di quello che si trovava dentro il Cucciolone.

Enjoy!

sabato 27 agosto 2011

La felicità domestica di Lev Tolstòj

Che un uomo di 29 anni abbia potuto partorire un libro come questo è stupefacente; che abbia potuto dare una voce tanto credibile, sincera e autentica ad una giovane donna che per la prima volta si apre al mistero dell'amore, ha - per me - del miracoloso: nell'esame attento (e rispettoso, e non paternalistico; altro miracolo) delle emozioni, spesso complesse e confuse, che accompagnano la nascita di un sentimento, il suo fiorire e maturare, il suo trasformarsi – attraverso il doloroso passaggio della delusione e della disillusione - da passione estatica ed esclusiva in affetto profondo e finalmente scevro di ogni proiezione e finzione più o meno inconscia, si sentono vibrare tutta l'intelligenza, la sensibilità, l'incredibile acutezza e maturità del giovane Tolstòj.

Come è vero e reale (e giusto e provvidenziale, aggiungerei io) il naturale ridimensionamento reciproco che avviene in ogni relazione (perché di questo, soprattutto, parla questa storia): da divinità fulgida e tanto magnanima da ritenerci meritevoli del suo amore, l'altro torna - finalmente e per fortuna - ad essere l'essere umano imperfetto che è, quello stesso essere umano imperfetto che siamo anche noi e che torniamo ad essere ai suoi occhi; com'è difficile accettare tutto questo senza disamorarsi e senza perdere l'amore dell'altro; com'è difficile - e per alcune persone penoso, quasi impossibile - accettare senza smarrirsi che niente rimanga identico, che i sentimenti con il tempo sembrino perdere intensità, vita, sangue.

Ci vuole a volte una vita, insieme o da soli, per arrivare a capire che solo allora essi mettono radici solide e sane, acquistano potenza e vigore e sostengono grandi, pacifici e fruttuosi alberi, non fulgidi, profumatissimi ma traballanti e fragili arbusti di rose.


Lev Tolstòj, La felicità domestica, traduzione di Serena Prina, Oscar Mondadori 2008.

martedì 23 agosto 2011

Arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern

Poco più di 100 pagine di grande bellezza.

Un catalogo "estetico-sentimentale" - per dirla con le parole dello stesso Rigoni Stern - che raccoglie informazioni, descrizioni, notizie, curiosità, leggende e miti su alcuni rappresentanti del "grande popolo degli alberi". 


E poi ricordi di infanzia, di guerra, di amicizia, di famiglia: ad ogni ramo, foglia, frutto si intrecciano storie, divagazioni, aneddoti, curiosità e la denuncia, a tratti sommessa e malinconica, quasi commossa, a tratti indignata e vibrante, delle innumerevoli, stupide e turpi violenze cui questi giganti della terra sono sottoposti giornalmente dalle brutture della speculazione edilizia, dell'ignoranza, del disamore improvvido per quella che rimane, sempre e comunque, la nostra unica, vera risorsa: la natura.


Un arboreto selvatico, dunque, ma anche "salvatico", cioè salvifico - come spiega l'autore - perché dove ci sono la conoscenza, la consuetudine e la familiarità con la natura necessariamente si fanno strada l'amore, il rispetto, la cura, l'attenzione.

E quante parole nuove, mai sentite, mai lette, dal suono bellissimo, dalle assonanze misteriose ed evocative, da ripetersi sottovoce, come una filastrocca: disàmare, stipole, carpello, glomeruli...

Per me, cittadina al 100% che non sa riconoscere un tiglio da un pioppo, un castagno da un acero (e comincia a crucciarsene), una splendida lettura.


Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1996.
 

lunedì 22 agosto 2011

Di idiosincrasie alimentari, della maturità e di un'insalata di peperoni arrosto

Delle idiosincrasie alimentari mie e della Spia ho parlato a lungo e spesso.

È un vero peccato (e causa di diverse piccole e grandi difficoltà logistiche) il fatto che raramente esse coincidano, anzi.

Ma dopo 12 anni di convivenza stiamo lentamente imparando a non scandalizzarci più di fronte alle manifestazioni della diversità dei nostri gusti - per quanto la Spia non riesca, se non assai raramente, a resistere alla tentazione di dire con voce disgustata "Che puzza di aceto!" ogni volta che mi vede, non dico aprire e versare, ma prendere dalla dispensa una bottiglia di aceto (di qualunque aceto; ne ho diversi, perché li amo molto).

Ci sono alcuni cibi che ho rinunciato da tempo a comprare (per esempio il gorgonzola, di cui vado matta ma la cui sola presenza nel frigo - anche se sigillato - getta la Spia in uno stato ora di panico ora di prostrazione) e piatti che gusto solo se qualche anima pia di mia conoscenza me li prepara sapendo che ne sono ghiotta ma che non li mangio magari da anni.

Ne cito alcuni, così, en passant, nella speranza che qualcuno che passi di qui se ne ricordi nel caso in cui volesse invitarmi a mangiare a casa sua: la francesina (un piatto tradizionale della mia famiglia a base di cipolle, pomodoro e aceto), l'insalata russa, la lingua in salsa verde, le alici marinate, le zucchine in carpione e mi fermo qui, ché mi sta prendendo la malinconia.

Per anni, pur amandoli alla follia, non ho comprato peperoni: il loro odore è uno tra i più potenti repellenti anti-Spia che si conoscano. Poi un giorno, non ricordo perché (forse la Spia mi aveva fatto arrabbiare, chissà), mi son ritrovata al supermercato con due bei peperoni rossi nel carrello, decisa a cucinarmeli.

La Spia, alla loro vista, è quasi svenuto, non poteva credere a ciò che vedeva e mi ha guardato con gli occhi azzurri pieni di addolorato sconcerto: questo acquisto significava forse che non gli volevo più bene?

È passato qualche anno da allora e svariati chili di peperoni sono transitati per la nostra cucina.
Non c'è volta in cui li prepari che non arrivi prima o poi il solito commento: "Che puzza di peperoni".
Ma io ho imparato ad ignorarlo e a non farmene innervosire: lo considero una sorta di innocuo e involontario tic; dal canto suo, la Spia ha finalmente compreso che l'insalata di peperoni arrosto non è né il barometro che segna il grado di salute della nostra relazione né un modo piuttosto ambiguo e contorto (e particolarmente crudele) di dirgli che non gli voglio più bene. 

E questo, mi piace crederlo, è uno dei tanti modi, tutti nostri, di vivere insieme la maturità.

****

Insalata di peperoni arrosto con feta e mandorle da Nigella Bites di Nigella Lawson

(per 3-4 persone o una Papera molto affamata o in crisi d'astinenza da peperoni)

4 peperoni rossi
50 gr di feta (ma regolatevi voi, a gusto)
succo di limone
sale e pepe
olio d'oliva
mandorle (io preferisco quelle intere con la pelle, ma ogni tanto uso anche quelle spellate e persino quelle a scaglie)
prezzemolo fresco

Preriscaldate il forno a 230°. Quando è pronto infilateci dentro una teglia coperta con un foglio di carta da forno su cui avrete adagiato i peperoni.

Lasciate cuocere per circa 45' (volendo a metà cottura potete girarli, ma io non l'ho mai fatto): i peperoni dovranno essere belli abbrustoliti e morbidissimi.  Indi tirateli fuori e metteteli in una ciotola capiente che poi coprirete con della pellicola. Lasciateli lì quanto volete: sarà più facile poi spellarli.

Dopo averli spellati e puliti (cioè privati dei semi e del picciolo), tagliateli a falde e metteteli sul piatto di portata: sbriciolatevi sopra la feta, condite con sale (poco), pepe, del succo di limone e dell'olio d'oliva.
Aggiungete le mandorle e il prezzemolo (io a volte non ne uso, non lo amo moltissimo, ma in effetti è una bella aggiunta che dà più carattere e allegria al piatto).

Assaggiate, aggiustate di sale, limone, olio o quant'altro vi sembri necessario aggiungere e portate in tavola.
A volte, invece del limone, uso (per fare ancora più contento la Spia!) dell'aceto balsamico.

Enjoy!

mercoledì 17 agosto 2011

Il giardino che è la nostra vita di Geri Larkin

Geri Larkin pratica il buddhismo da quasi 30 anni e da 10 dirige un proprio centro di meditazione a Detroit; in più ha lavorato per anni in un vivaio: da queste due esperienze è nata l'ispirazione per questo libro, che io pensavo essere una sorta di manuale zen di giardinaggio o un testo di filosofia zen in chiave "verde".

L'immagine del giardino come correlativo oggettivo del proprio sé, come luogo da coltivare, curare, seguire e dei cui frutti godere, non è tra le più originali, ma è di sicuro tra le più suggestive e affascinanti.

Il giardino come spazio fisico dove ci si sporca le mani e si suda, dove ci si ferisce con spine e attrezzi taglienti e si combattono, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, mille piccole e strenue battaglie: contro i parassiti, contro le infestanti, contro gli effetti nefasti degli elementi avversi.

Il giardino, anche e soprattutto, come spazio spirituale, luogo di epifanie di straordinaria, numinosa bellezza e di fragile e commovente splendore, in cui intessere, con pazienza e tenacia, un (si spera) sano e affettuoso legame con la terra su cui si cammina, in cui riconciliarsi con l'idea che la vita si nutre di morte e viceversa e in cui sentirsi attivi ed entusiasti cocreatori, insieme alla natura, di bellezza ed armonia.

Un po' tutto questo ho cercato in questo libro, invano.

Vi ho trovato, invece, pagine su pagine di aneddoti che secondo l'autrice dovrebbero essere particolarmente rivelatori e illuminanti, di fatti occorsi a lei o a qualche suo amico o conoscente, e che dovrebbero inconfutabilmente dimostrare che la vita è molto più bella e semplice se si cerca di essere sempre allegri, pazienti e gentili con gli altri e se ci si aspetta sempre il meglio da tutti e da tutto.

Un principio che in linea generale mi vede assolutamente d'accordo, ma che credo sia possibile esprimere in modo più articolato, complesso, profondo, e soprattutto senza quel tono sempre entusiasta, ingenuo, sopra le righe, semplicistico e ammiccante di molti testi americani di self-help/new age/spiritualità/fuffa varia etc etc che non sopporto proprio più.


Geri Larkin, Il giardino che è la nostra vita, traduzione di Gaia De Pascale, Ponte alle Grazie 2009.


martedì 16 agosto 2011

Di giochi di coppia e di alcuni amaretti farciti

Ricordate, ne Le fabuleux destin d'Amélie Poulain, come vengono presentati i genitori della protagonista?

In modo, secondo me, geniale: con una brevissima biografia che include anche un elenco, ovviamente parziale e arbitrario, delle cose che amano e che detestano.

Da quando abbiamo visto quel film, io e la Spia giochiamo spesso a questo gioco: ormai è diventato una sorta di abitudine familiare. 

Non appena ci imbattiamo in qualche esperienza che ci delizia o, al contrario, ci lascia perplessi - o peggio - ci viene automatico "aggiornare"  il nostro personalissimo elenco di gusti e disgusti, e di farlo ad alta voce, proclamando solennemente e con la voce impostata: "Alla Spia/alla Papera piace/non piace...". 

La cosa bella, almeno secondo me, è che l'aggiornamento è sempre incrociato, per così dire: sono io che aggiorno il suo elenco e lui che aggiorna il mio, in una sorta di affettuoso, eclusivo e spesso divertito e stupito riconoscimento dell'altro.

Qualche sera fa, dopo cena, pensavo in questi termini alle tante piccole cose che mi piacciono di questo agosto in città.

In ordine rigorosamente sparso, queste sono le prime che mi sono venute in mente (e chissà quante ne potrebbe indovinare la Spia):

- lo sguardo e i sorrisi di complicità che ci si scambia con i pochi clienti del supermercato del quartiere, come a dire "Anche lei qui? Ne sono lieto"

- le serate con le finestre aperte dalle quali entrano, oltre alla brezza e alle zanzare (accidenti a loro), echi di conversazioni lontane intrecciate a qualche tavolata in giardino, risate, le note di un passaggio particolarmente complesso che qualcuno sta cercando di imparare a suonare al piano 

- le sieste pomeridiane di Matilde dentro il vaso dell'ulivo

- nel tardo pomeriggio dare l'acqua alle piante nel terrazzo e pensare a come cambierà il loro aspetto in autunno

- uscire per le scale la mattina per andare a prendere la posta anche in camicia da notte e ciabatte, sapendo che non si incontrerà nessuno con cui scambiare sguardi mutualmente soncertati

-  trovare il tempo per (finalmente) attaccare quei quadri che aspettavano da un anno di trovare una collocazione

- intravedere nel cielo luminoso della sera i primi, sottili annunci della stagione più bella dell'anno, quella che verrà

- cercare tra i libri e gli appunti ricette di dolci facilissimi, da mangiare freddi, la sera, dopo cena

E riguardo a quest'ultimo punto, eccone una, di ricetta, se di ricetta si può parlare, che mi incuriosiva da tempo: mi è stata passata a voce dalla suocera (e dunque mi è stato assolutamente impossibile capire da dove venga) e non l'avevo mai provata, perché in realtà prevederebbe l'uso del mascarpone e della Nutella, che io adoro - sia chiaro - ma la cui compresenza in un'unica ricetta mi ha sempre inquietata (per quanto non dubito che il risultato valga senz'altro qualche inquietudine).

Qualche giorno fa, sprovvista e dell'uno e dell'altra, ma fornita di ingenti quantitativi di amaretti secchi e cioccolato fondente, e dovendo vieppiù finire una confezione di panna già aperta, li ho fatti così.

****

(più o meno) Amaretti farciti della suocera (e sicuramente di qualcun altro, di cui al momento si ignora l'identità)

50 gr di cioccolato fondente a pezzetti (io ne ho usato uno al 70%)
50 ml di panna liquida
amaretti secchi (non so darvi le quantità; io ho usato quelli piccoli e ne saranno venuti 10-12)
mezza tazzina di caffè forte
farina di cocco

In un pentolino scaldate la panna senza farla bollire. Versatela in una ciotola resistente al calore dove avrete messo i pezzetti di cioccolata. Attendete qualche secondo, poi mescolate fino a quando la cioccolata non sia completamente sciolta. Lasciate raffreddare e mettete in frigorifero per almeno una mezz'ora.

Nel frattempo fate il caffè (posso dire che uso il caffè liofilizzato? L'ho detto. Due cucchiaini scarsi in mezza tazzina d'acqua) e preparate un piatto cosparso di farina di cocco.

Tirate fuori la ganache dal frigo e montatela con le fruste fino a quando non sia soda.
Usatela per farcire gli amaretti a due a due. Indi, passate il piccolo sandwich prima nel caffè e infine nella farina di cocco.

Consiglio di mangiare queste robine subito o quasi subito.
Io e la Spia le abbiamo finite in un paio di giorni, lasciandole in frigorifero: il sapore, ovviamente, ne ha guadagnato, ma gli amaretti si sono ammorbiditi. 
Scegliete voi.
Secondo la suocera si possono mettere in freezer. Onestamente non so. Ma se qualcuno ci dovesse provare, sarei curiosa di sapere com'è andata.

Enjoy!

lunedì 8 agosto 2011

La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa di Carla Pasquinelli

Sono una creatura profondamente domestica, una Penelope fatta e finita, ma ho scoperto di esserlo in tempi relativamente recenti, con una certa sorpresa.

Da giovani non fa fico affermare una cosa simile; da giovani si vuole essere tutti Ulisse, indipendentemente dal proprio sesso: passare per la Penelope della situazione può essere insultante e svilente come la peggiore delle offese.
D'altra parte penso sia giusto e sano che da fanciulli si sia attratti e incuriositi e innamorati soprattutto dell'altrove, del lontano, del diverso da sé e se ne vada in cerca, anche se questo significa tralasciare, trascurare, non vedere veramente ciò che invece è vicino, familiare, conosciuto, domestico.
Si avrà tempo, poi, eventualmente, per tornare, con occhi nuovi, a ri-conoscerlo.

Quando ero giovane (o diciamo più giovane di adesso!), qualunque cosa avesse un profumo vagamente "casalingo" e domestico suscitava in me reazioni claustrofobiche, se non di irritazione, disgusto, estraneità; nel migliore dei casi, un'assoluta indifferenza.

Poi mi sono ritrovata, gradualmente, a cambiare prospettiva ed ho capito di non avere alcun problema con la domesticità, con l'idea di "casa" in generale, ma solo con la casa dei miei genitori!

E così, in ognuno dei luoghi in cui ho abitato la mia vita da adulta - lasciata, cioè, la casa paterna - ho trovato e vissuto e coltivato amorevolmente e con enorme piacere e gioia quella che, ora lo so, è la mia dimensione più vera e più aderente al mio sentire: la domesticità, appunto, la casalinghitudine, per dirla con la Sereni.

Non potevo, dunque, non leggere questo breve saggio e non trovarlo, in molte sue pagine, interessante.
 
Carla Pasquinelli offre - spesso con garbo e leggerezza, il che non guasta - una riflessione multidisciplinare sull'idea della casa intesa come spazio fisico, certamente, architettonico, ma anche e soprattutto simbolico: della propria identità di invidivui, della propria appartenenza ad una determinata cultura, a uno specifico gruppo sociale etc etc.

Curiosi e per me molto interessanti certi confronti sull'idea di "casa" nelle varie culture, sul modo in cui concezioni filosofiche e religiose e culturali imprimano il loro marchio evidente e concreto sull'organizzazione dello spazio fisico in cui si articola la vita domestica e sull'idea (che può essere diversissima, da cultura a cultura) di "ordine" e "disordine".

Ogni tanto mi è parso che l'autrice partisse un po' per la tangente, per così dire, e scivolasse verso regioni teoriche in cui non mi sento mai troppo a mio agio e in cui, dunque, non l'ho seguita troppo volentieri: quelle in cui il discorso si fa un po' troppo astruso per i miei gusti e troppo infarcito di concetti e riferimenti culturali evidentemente al di là della mia portata (e mi pare che questa mia insofferenza a certi discorsi teorici aumenti con l'età, invece che diminuire; non dovrebbe essere il contrario? Non dovrei diventare sempre più saggia e colta e istruita? Pare proprio di no).

Ma nel complesso si è trattato di una lettura assai gradevole, non di rado divertente, e ricca di spunti di riflessione per me insoliti.

Carla Pasquinelli, La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa, Baldini Castoldi Dalai, 2009.


giovedì 4 agosto 2011

Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

Un po' come Giovanni Drogo, il tenente protagonista de Il deserto dei tartari, che aspetta tutta la vita l'inizio della sua vita vera, anche io ho aspettato tutti questi anni prima di leggere questo capolavoro.

Adesso che l'ho letto, so bene la ragione di questa lunga attesa, che pure non mi ero mai motivata.

Ci sono alcuni libri per i quali mi preparo da anni, nella convinzione di non esser pronta ad affrontarne la lettura, di non essere ancora matura abbastanza per avvicinarli: il primo che mi viene in mente è ovviamente La Recherche di Proust, ma la lista è lunga, lunghissima.

E ce ne sono altri che mi aspettano su uno scaffale della grande libreria della sala; pazienti, senza pretese,  attendono il loro turno. Anche per anni, anche per decenni, proprio come Il deserto dei tartari.

A prima vista non sembrano esserci ragioni particolari per cui un altro libro finisca sempre per esser scelto al posto loro; perché, quando la sera mi ritrovo davanti alla libreria e devo scegliere un nuovo libro da iniziare (un momento sempre bellissimo, eccitante, estatico; io adoro ogni inizio, ogni esordio, ogni principio), le mie dita finiscano sempre per estrarre un altro libro e non uno di loro.

Questo è stato, per circa 25 anni, il destino de Il deserto dei tartari
La vecchia copia della Oscar Mondadori, acquistata da mia sorella per la scuola, mi ha seguita in tutti i miei traslochi, è stata più volte presa in mano, soppesata, sfogliata e poi rimessa a posto.

Ma ora l'ho letta.
E ho capito perché abbia aspettato così tanto per farlo, perché abbia rimandato per tutti questi anni questo incontro.

Perché ho sempre avuto la netta sensazione, tutte le volte che il mio sguardo si posava su questo libro, che la sua lettura richiedesse la volontà di immergermi in una storia che parla molto anche di me, forse un po' di tutti; della tendenza a procrastinare, a cullarsi nella prospettiva (spesso illusoria) di una vita futura appagante e soddisfacente, a misura propria, alla quale ci si prepara per anni e che però non arriva mai, perché nulla si fa perché finalmente arrivi, perché è più facile e dolce (anche se a tratti può essere frustrante e paralizzante) immaginarla, anticiparla, prefigurarsela e pregustarla, rimanendo nella pura dimensione del possibile, rifiutandosi ostinatamente di tradurre tutti questi sogni e queste aspettative in azioni concrete, che finalmente diano sangue e carne a quel sogno, pur bellissimo, ma anodino e irreale.

Questo romanzo parla moltissimo di me, dei lunghi anni in cui sono stata affacciata dalla mia personale Fortezza Bastiani a scrutare la linea dell'orizzonte, gli occhi fissi verso il nord, verso quelle terre misteriose, inquietanti e insieme portatrici di qualche luminosa ma vaga promessa di appagamento e realizzazione futura.

Ora so perché ci ho messo 25 anni a leggere questo romanzo e perché, qualche sera fa, dopo tutti questi anni, sia arrivato finalmente il suo momento.
Perché c'è un momento per leggere certi libri, e se non lo si coglie quei libri rimangono muti e opachi, le loro parole non ci raggiungono, le loro immagini non ci parlano.

Ma quando lo si coglie, quel momento, ci si specchia in quelle pagine, ci si ritrova tali e quali e si è presi da una travolgente gratitudine nei confronti di chi le ha scritte, perché (forse lo sapeva, o forse no) sembra averle scritte proprio per noi, perché una notte d'agosto le leggessimo e leggendole capissimo, anzi, sentissimo, che quella storia è la nostra storia, o meglio, avrebbe potuto essere la nostra storia. 

Avremmo potuto essere come Giovanni Drogo, con la sua attesa sempre più rassegnata e patetica della vita vera, con la sua paura di mettersi alla prova con il mondo reale, nel timore di scoprirsi "un uomo comune, a cui per diritto non tocca che un mediocre destino" (ed io non penso che esistano destini mediocri e destini eccelsi, ma solo che esistano destini individuali, ognuno dei quali costruito giorno dopo giorno, con azioni, parole, scelte e decisioni individuali).

Avremmo potuto essere come Giovanni Drogo, se un giorno, tempo fa, non ricordiamo bene quando, non avessimo avuto il coraggio (e l' incoscienza, senz'altro; una benedetta incoscienza) di abbandonare la nostra fortezza Bastiani, e con essa fragili e vaghi sogni di gloria, per scendere finalmente a valle, verso la vita vera, con le sue opacità e le sue imperfezioni - le nostre opacità e imperfezioni, quelle che abbiamo voluto che avesse - ma tutta nostra e tutta permeata di realtà e concretezza, quella realtà e quella concretezza che abbiamo deciso che avesse.

E questo è il momento giusto di ricordarsene e di continuare a costruirla, questa realtà.
E di viverla, e di goderne.

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Oscar Mondadori 1981. 



domenica 31 luglio 2011

Pollice verde di Ippolito Pizzetti

Fino a qualche mese fa ignoravo chi fosse Ippolito Pizzetti e quale grande e infelice lacuna fosse questa.

Poi, grazie ad un'amica, c'è stato questo incontro, seguito da un improvviso innamoramento.

E l'ho capito subito che Ippolito Pizzetti mi sarebbe piaciuto, fin dalle prime pagine di questo libro, che raccoglie alcuni dei tanti articoli di giardinaggio da lui scritti per l'Espresso e per altre riviste e quotidiani.

Mi è piaciuto prima di tutto il fatto che Pizzetti avesse capito relativamente tardi quale grande passione avesse per il mondo delle piante e che gli si fosse avvicinato gradualmente, in un percorso assolutamente non lineare, partendo da una cattedra di assistente di Natalino Sapegno all'Università La Sapienza e passando per molto lavoro editoriale (svolto in molteplici ruoli: come traduttore, come direttore di collane, come consulente).

L'amore per il verde si fece in Pizzetti prima interesse per la storia dei giardini (e bellissime sono le pagine dedicate a quelli tedeschi o quelle in cui racconta la storia dei Kew Gardens a Londra, dove si recava in pellegrinaggio come gli antichi Greci a Delfi, secondo una sua felice espressione), poi passione progettuale: pur senza avere una formazione tecnica, divenne in poco tempo un famoso e apprezzatissimo architetto di giardini - la laurea in architettura gli fu data, honoris causa, solo nel 2004, tre anni prima della sua morte.  

In questo libro si trovano molti consigli pratici su come coltivare cosa e dove: consigli presentati in poche, spicce istruzioni, oppure, al contrario, nascosti in divagazioni dal vasto respiro elegiaco, in meditazioni filosofiche, in invettive amarissime.

Soprattutto si trovano bellissime pagine di prosa (e tra tutte, le più belle per me sono quelle de L'incontro con l'indeterminato o di Oziorrinco è morto), piene di passione, impeto, ironia, sarcasmo, trasudanti raffinata e ampia, metabolizzata cultura, ma anche soffuse di nostalgiche memorie d'infanzia, pervase di una tenerezza ruvida e accorata per quella natura sempre più violentata dall'uomo, sempre meno compresa, sempre più considerata aliena.

Qui, come e quando posso, cerco di dare delle informazioni: su piante sconosciute, sul modo di coltivarle, su come reagiscono in giardino.
Ma chi segue i miei scritti sa bene che non è questo soltanto che mi spinge a scrivere; ma i mille modi, le mille aperture da trovare nel rapporto con la natura, che per moltissimi è andato perduto, o non è mai esistito: riuscire a indicarlo anche agli altri. Non è un rapporto facile, come non è facile nessun rapporto, umano o non umano che sia; ma è uno di quelli, per me almeno, che rendono la vita degna di esser vissuta; e che mi sono altrettanto necessari per esistere dell'aria e dell'acqua. Sono incapace di sentirmi, nella mia natura di uomo, come qualcosa di staccato dal mondo vegetale e animale.

Se Ippolito Pizzetti mi avesse conosciuta, mi avrebbe sicuramente trovata insopportabile: mi sono infatti riconosciuta in pieno nel ritratto, tra il patetico e il ridicolo, dell'aspirante giardiniere da balcone, ignorantissimo e tremebondo, che desidera, spasmodicamente desidera, sviluppare un qualche contatto affettuoso con quel mondo vegetale che insieme lo attira e lo inquieta, e che però è terrorizzato, pressoché costantemente terrorizzato, dalla possibilità di provocare ogni genere di disastro, perché con quel mondo non ha sviluppato fino ad ora la minima confidenza, e dunque è pieno di quesiti angosciosi su come avvicinarglisi.
Per esempio quanto, come e quando bisogna innaffiare le piante?

Di solito le domande di questo genere mi imbarazzano (quando non mi irritano) perché mi rendo conto che il mio interlocutore è (in quel momento almeno) le mille miglia lontano dall'aver capito come le piante vadano accostate; che si tratta di una persona, poveretta, impacciata, tutta legata, non libera affatto, timorosa nel proprio rapporto con la natura e mi auguro in cuor mio che il praticare le sue quattro piante possa in qualche modo indicarle la via.

Sì, in queste poche righe ci sono tutta, hélas
Faccio parte di quel numero di esseri umani che in mezzo alla natura (che sia un bosco, un giardino o le piante in vaso di un balcone) sono presi sì da incantamento, ma insieme da ansia e inquietudine e timori ancestrali.

Perché noi (...) entriamo nel bosco, e lo vediamo carico di ombre, di bronchi, di ramaglie; l'erta è piena di ostacoli e di sassi, il prato impedisce il cammino coi rovi e con le spine, e dovunque l'angue minaccioso attende in agguato; e poi quant'altri pericoli ci sovrastano, tutto intorno è materia indistinta, il male peggiore è l'indistinto che regna sovrano; non sappiamo i nomi, non sappiamo le forme, ci mancano le parole, precipitiamo nel pozzo della non cultura.

Manca però, a questo mio fedele ritratto, la fiducia incrollabile e forse idiota nella possibilità di diventare, un giorno, un essere umano meno a disagio a contatto con la natura, meno spaventato all'idea di ucciderla per colpa della propria ignoranza. 

Con un simile maestro, e con tutti quelli che incontrerò per la via (sto ovviamente accumulando una piccola biblioteca sull'argomento), credo di avere buone speranze.


Ippolito Pizzetti, Pollice verde, BUR 2006.

sabato 23 luglio 2011

Di vacanze (già fatte), di un'estate clemente e di muffins ai mirtilli

Ma come si sta bene in questi giorni a Firenze!

Aria fresca, nuvole a schermare il sole e a dare tregua a chi, invece di spassarsela al mare o in montagna, è in città.

Dopo una breve e quasi paradisiaca vacanza nelle campagne tra Siena e Grosseto (il "quasi" è dovuto ad un incontro notturno e ravvicinato, nella camera dell'agriturismo in cui dormivamo, con alcuni ragnoni che mi hanno terrorizzato; lo sapete, sì, che sono un'aracnofobica di fama mondiale), allietata dall'ottima compagnia di carissimi amici - e anche dall'abbondanza di buon cibo e buon vino con cui ci siamo deliziati giorno e notte - io e la Spia siamo tornati, come si suol dire, alla base.

Ben felici di tornarci, tra l'altro. 
Entrambi amiamo trascorrere il mese di agosto in città, tranquilli tranquilli a fare ognuno le proprie robine.

Il cortile interno (quello della quercia di cui parlavo qui) è silenzioso: ogni tanto si sente qualcuno ascoltare musica o parlare al telefono, ma per lo più le nostre giornate sono soprattutto accompagnate dal cinguettìo degli uccelli e dal miagolìo di qualche gattone dei paraggi.

Un'estate serena e non proprio rovente: proprio ciò di cui sento di aver bisogno.

Si può persino usare il forno senza morire di caldo - non che il caldo mi abbia mai dissuasa dal cuocere arrosti o torte anche in piena canicola, a ben pensarci - e magari, approfittando di alcuni strepitosi mirtilli acquistati con gli amici del GAS, preparare in quattro e quattr'otto una bella teglia di muffins per la colazione della Spia (io, dopo gli ozi senesi - e soprattutto dopo i diversi chili di pecorino e gli svariati metri di salsicce e salamini transitati per le mie budelline papere - meglio che me ne stia a dieta).


****

Blueberry and Almond Muffins da Rachel's Food for Living di Rachel Allen (con qualche modifica)


per 12 muffins

200 gr di farina 0
1 cucchiaino abbondante di lievito
1 cucchiaino di cannella
50 gr di farina di mandorle
125 gr di zucchero di canna (io uso il Golden Caster Sugar del commercio equo)
200 ml di latticello (io l'ho sostituito con la stessa quantità di latte alla quale ho unito il succo di mezzo limone, facendo, in sostanza, il soured milk; in teoria bisognerebbe poi lasciare a riposare per una notte. In pratica, da sciattona quale io sono, non lo faccio mai)
1 uovo
50 gr di burro fuso
100 gr di mirtilli
2 cucchiai di mandorle a lamelle

Preriscaldate il forno a 200° e preparate la vostra teglia per muffins: potete imburrare e infarinare ogni cavità, oppure,  come faccio io, servirvi di pirottini di carta colorata. 
Non è molto ecologico, ne convengo, ma poche cose in cucina rischiano di farmi venire una crisi di nervi quanto imburrare e infarinare le teglie da muffins (adesso comincia forse ad esservi più chiaro il motivo per cui la Spia dice che per certi versi io sono una deragliata). 
Sulle ragioni di questa mia idiosincrasia al momento non mi sento di indagare.

In una ciotola capiente setacciate la farina e il lievito, poi unite la cannella, la farina di mandorle  e lo zucchero.

In un'altra, più piccola, versate il latticello (o lo pseudo soured milk), l'uovo e il burro fuso e amalgamate con una frusta a mano. 
Indi, come in tutte le ricette di muffins che si rispettino, versate gli ingredienti liquidi nella ciotola di quelli secchi, mescolate con una forchetta giusto per amalgamare, ma non esagerate: come dice Nigellona, più l'impasto è grumoso più i muffins saranno leggeri.
Infine, unite delicatamente i mirtilli.

Deponete cucchiaiate di impasto nei pirottini, poi distribuite sulla superficie le mandorle a lamelle e fate cuocere in forno per circa 20'.

Enjoy!



lunedì 4 luglio 2011

No alla censura

Chi ogni tanto passa di qui sa che sono state davvero rare le occasioni in cui mi sono mobilitata attraverso le pagine di questo blog. 

Un po' per carattere e per inclinazione, un po' perché questo spazio non è mai stato pensato come luogo di attivismo sociale o politico, assai di rado ho partecipato ad iniziative collettive promosse da altri bloggers o siti web.

Ma stamattina,  facendo il mio giro di letture sulla rete, mi sono imbattuta in questo post di Alberto Cane e ho sentito di dover fare qualcosa.

Molto poco, come si vede. E in parte, ad essere sincera, condivido le perplessità di cui parla lo Zio Scriba in un suo commento - oggetto di un altro post nel blog di Alberto, lo trovate qui.

Pure, ho l'impressione che sottrarsi alla possibilità di fungere da specchio o da cassa di risonanza, per quanto piccolo possa essere il mio contributo in questo senso, non sia cosa buona e giusta.

Ecco dunque il testo del post di Alberto, verbatim
Meglio di come l'ha scritto lui, io non avrei potuto. 
Vi invito a leggerlo e a diffondere almeno la notizia: forse sono la solita bella addormentata, ma io dell'intera faccenda ero completamente all'oscuro fino a stamattina - e ringrazio dunque Alberto per avermi offerto questa informazione. 
Mai come in questi casi ignoranza significa impotenza.

Buona giornata a tutti!

*****


Mercoledì 6 luglio l'AgCom voterà una delibera con cui si arrogherà il potere di oscurare siti internet stranieri e di rimuovere contenuti da quelli italiani, in modo arbitrario e senza la sentenza di alcun giudice. È una decisione gravissima, forse anche ingenerata dall'importanza che internet, e nello specifico social network e blog, ha avuto nelle recenti tornate elettorali. È una decisione di uno Stato dittatoriale e che ricorda la censura in situazioni di guerra.

Il tam tam sulla Rete sta aumentando di ritmo e di intensità e adesso anch'io mi unisco alla protesta per questa porcata.

Qualcosa si può fare, e riporto i suggerimenti di metilparaben
  • se sei un blogger scrivi un post, usando il logo che vedi qua sopra e riportando tutti i link, e diffondilo più che puoi tra quelli che conosci;
  • vai alla pagina di Agorà Digitale in cui sono raccolti tutti i link, le iniziative e le proposte dei cittadini;
  • firma e diffondi la petizione sul sito di Avaaz;
  • partecipa e invita tutti i tuoi amici a "La notte della rete": 4 ore no-stop in cui si alterneranno cittadini e associazioni in difesa del web, politici, giornalisti, cantanti, esperti.

domenica 26 giugno 2011

(Sunday Music): W il Margatania FC!

Sì, lo so, qui si bara.

Questo non è un video musicale - benché la musica ci sia, e anche di mio gusto - ma è un gioiello.

Me lo ha segnalato la Spia, che mi conosce bene e sapeva che avrei apprezzato, anche se probabilmente non si aspettava che, durante la visione di questo video, mi trasformassi in un vero e proprio idrante umano.

Ho pianto praticamente dalla prima scena fino all'ultima. Ma non vorrei fuorviarvi. Non è un video strappalacrime. O meglio: non fa questo effetto su individui adulti mediamente equilibrati, cosa che io evidentemente non sono (la parte che mi difetta sarà quella adulta o quella mediamente equilibrata?, mi chiedo. Meglio non approfondire).

Questo video racconta la storia di una squadra di calcio di bambini, che in un anno ha incassato 271 goal e ne ha segnato solo uno - ma al momento in cui è stato girato, questo traguardo non era ancora stato raggiunto.

Una squadra di bambini che sì, sono perfettamente consapevoli di aver sempre perso e si aspettano di perdere ad ogni partita (ma sono contenti quando il punteggio finale si attesta sull'11 a 0, perché ne hanno avuti altri che viaggiavano intorno al 27 a 0), ma coltivano il sogno fresco e fiducioso di segnarlo quel benedetto gol, anche uno solo. 

E si preparano a quell'evento, e continuano a giocare, con immutato entusiasmo e ottimismo e impegno, ma soprattutto con divertimento, che è forse la cosa che più mi ha commosso.

C'è da imparare molto dalla visione di questo video, io credo.

C'è da imparare da questi bambini e dagli adulti che sono loro vicini, che evidentemente sono stati capaci di trasmettere non soltanto le regole del gioco (che però non sembrano essere state assimilate del tutto, visti i risultati!), ma anche una tenerissima fiducia nella propria capacità di migliorare e un incrollabile gusto del gioco, a dispetto di ogni disfatta e sconfitta. 

Questi bambini sulla carta sono dei perdenti tragici, degli sfigati colossali e degli incapaci.
Nella realtà, sono dei veri sportivi e dei vincitori.

Concedete a questo video 10 minuti della vostra attenzione e del vostro tempo. 
Non ve ne pentirete.

Buona domenica!







giovedì 23 giugno 2011

Di piaghe d'Egitto, di audaci piccioni e di una torta di ricotta

Insomma, c'è poco da girarci intorno. 
Qui si batte la fiacca.

Il problema è che è arrivata l'estate.

"Qualche mese fa il problema era che era arrivata la primavera", qualcuno potrebbe osservare, ricordando certe mie geremiadi.
E a ragione. 

"Forse il problema è che tu hai molti problemi con molte cose diverse", potrebbe dire qualcun altro, e anche lui a ragione.

E comunque.
La primavera mi fa dormire, più o meno ovunque, e mi fa venire un po' di malinconia e di paturnie.

L'estate, invece, mi spossa. 
E mi fa venire voglia solo di leggere, ascoltare Paolo Conte e giocare a videogiochi (al momento Rise of Atlantis, una roba che dà vera dipendenza). Insomma, come direbbe mia madre, mi riduce ad una piaga d'Egitto fatta e finita.

Per fortuna, tra i suoi effetti collaterali l'estate non mi toglie la fame, per cui in questa casa si mangia, come al solito.
Ma si sperimenta poco. E quando lo si fa, raramente si ha voglia di fare qualche scatto (non che faccia una grande differenza, data la media qualità delle mie foto!).

Ma questa torta - che non è certo né una novità né una ricetta particolarmente esotica - è davvero buona e piace molto alla Spia, e non solo.

Qualche giorno fa, l'avevo appena fatta e l'avevo lasciata su una gratella, sul tavolo.

Dopo di che, un piccione particolarmente audace - o goloso, chi sa - è entrato dal balcone in cucina, è salito sul tavolo e si è abbondantemente servito della torta.

Quando la Spia, presentendo qualche disgrazia, è entrato in cucina, ha avuto una delle visioni più raccapriccianti della sua vita: un piccione - animale da lui sommamente detestato - che mangiava la SUA torta.

Ripresosi dal trauma, la Spia l'ha cacciato via a male parole e il piccione, poveretto, è volato via come un fulmine e per la paura ha dato una sonora capocciata alla porta finestra. 
Poi la Spia ha inveito contro le due gatte, che sono sempre in giro a cacciare moscerini e farfalle (mai una zanzara che sia una, mai,  accidenti a loro!) e quando c'è bisogno davvero di loro che cosa fanno? Dormono. "Vi mando a lavorare!" l'ho sentito urlare, la Spia, che è una personcina educata e parla sempre come se fosse dentro un confessionale - e quanto mi piace questa cosa di lui, benché a volte faccia una fatica del diavolo a capire che cosa dice e che cosa vuole (ma ho notato che dire "Sì, caro" risolve gran parte delle situazioni).

Insomma, non credo sia nella lista dei primi 100 motivi per cui si consiglia di fare una torta, ma nel caso voleste compiacere un piccione, sappiate che con questa potreste riuscirci con facilità.

Una parola ancora sulla ricetta, che è presa da I love cake di Trish Deseine di cui ho parlato già qui.

Ho fatto questa torta diverse volte e a parte la prima ho sempre modificato la procedura (sul libro ce n'è una a mio parere piuttosto inusuale) e anche le quantità di burro,  zucchero e ricotta. Forse la versione più equilibrata è questa di cui vi do le quantità, ma tra parentesi metto l'ultimo "modello", in cui ho aumentato considerevolmente la ricotta e ridotto ulteriormente il burro. Ovviamente tutte queste modifiche comportano variazioni nel tempo di cottura e nella consistenza della torta, che diventa più morbida, quasi fondente. Non è una torta ariosa, sappiatelo, ma umida. 


Torta di ricotta da I love cake di Trish Deseine

(per una tortiera di 20 cm di diametro)

80 gr di uvetta
100 ml di Marsala
125 gr di burro (80 gr)
125 gr di zucchero 
3 uova, separate
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
250 gr di ricotta (300)
175 gr di farina
1 cucchiaino e mezzo di lievito per dolci

Preriscaldate il forno a 180°.

In un pentolino scaldate appena il Marsala, poi metteteci l'uvetta e lasciatela riposare per circa 20'.

Nel frattempo lavorate il burro con lo zucchero fino ad avere un composto soffice.
Aggiungete i rossi delle uova, poi l'estratto di vaniglia, la ricotta e le uvette CON il Marsala (secondo la ricetta originale il Marsala si butta; orrore e abominio!, al limite lo si beve, ma buttarlo...), la farina e il lievito (entrambi setacciati).

Montate le chiare e unitele al composto che poi verserete nella teglia imburrata e infarinata.

Fate cuocere per circa 40-50' (nel mio forno più 50' che 40').

Sfornate, mettete su una gratella e lasciate raffreddare - eventualmente vigilando che nessun piccione ne approfitti per assaggiare il risultato delle vostre fatiche (si fa per dire, è facilissima!).

Servite eventualmente con zucchero a velo - cosa di cui io e la Spia non abbiamo mai sentito il bisogno: la torta è ottima anche così, nature.

Enjoy!




lunedì 13 giugno 2011

Legittimo godimento

La ricetta che oggi intendo proporvi per festeggiare il raggiungimento del quorum è davvero semplice semplice: aprite il rubinetto dell'acqua della vostra cucina, riempiteci un bicchiere, bevete.

Alla salute di tutti gli italiani, qui e all'estero, che hanno fatto tutto il possibile perché l'acqua rimanesse una risorsa per tutti, il no al nucleare una conferma - ma non si era già deciso tutto nel 1987? Altro che Viagra, questi politici dovrebbero assumere qualche pillolina di fosforo! - e la legge effettivamente uguale per tutti, ma davvero tutti, e non solo i ladri di polli o i poveri disgraziati.

Evviva!

(La foto, a mio parere bellissima, ovviamente non è mia. 

È del mio carissimo amico Claudio Santambrogio, anima eclettica e curiosa, che tra le sue attività di concertista, informatico e guida artica - avete letto bene - da qualche tempo si è appassionato alla fotografia e con risultati eclatanti.

Bellissime le foto scattate durante la sua lunga permanenza in Norvegia [Claudio ha una sorta di inquietudine nomadica che lo spinge a cambiare paese di residenza almeno una volta ogni 4-5 anni], ma io trovo magnifiche quelle "domestiche" [ma va?], semplici, essenziali, suggestive, assolutamente non costruite o artefatte, ritraenti gli oggetti quotidiani così come sono, con le loro imperfezioni e la loro sommessa poesia.

Claudio ama sperimentare soprattutto in fase di stampa, utilizzando tecniche inusuali e antiche - ad esempio usando il bianco dell'uovo.
Questa fotografia, invece, è una "stampa lith". 
Come mi ha scritto in una mail stamattina:
La stampa lith usa carta e rivelatori tradizionali b/n, ma lo sviluppo si  
effettua con un rivelatore altamente diluito: in questo modo si ottengono  
ombre scure e luci morbide.  Si può osservare un caratteristico viraggio  
del colore, dovuto ai tempi di sviluppo lunghissimi.  Viraggi creativi  
possono ulteriormente esaltare la paletta cromatica.
Trovate le sue bellissime foto, oltre ad altre notizie su di lui e sulle sue multiformi passioni e attività, nel suo sito: http://csant.info/).

domenica 12 giugno 2011

Domenica 12 e lunedì 13 giugno: si va a votare!

La vita non è né brutta né bella, ma è originale! - così diceva Italo Svevo.

Oh se aveva ragione Italo Svevo!

Questo mese di giugno me ne ha dato ampia conferma.

La faccio breve perché vi voglio bene, ma sono stata a lungo convinta che non sarei stata in Italia e non avrei votato per i referendum, e non a causa di impegni improrogabili o nobili cause, ma per una vacanza. 

Per colpa mia e dei miei pochi neuroni, che pur sapendo da tempo che il 12 e il 13 giugno si sarebbe votato, al momento giusto abbiamo disinvoltamente dimenticato questa informazione e abbiamo prenotato e comprato biglietti aerei e ferroviari per una sospiratissima e lungamente progettata vacanza a Londra.

Non voglio assumere pose melodrammatiche, ma la consapevolezza di aver dato un'ottima prova dei lati forse peggiori di me - una certa qual superficialità e una tendenza al velleitarismo - e di non poter scaricare la colpa su nessuno se non su me stessa, mi ha ridotto per quasi un mese ad una mezza larva, incline all'autoflagellazione e in preda a una profonda vergogna.

L'impossibilità di uscire dall'impasse se non a caro prezzo (economico, nel caso in cui avessi deciso di cancellare la vacanza per andare a votare; morale, nel caso in cui avessi optato per il fatalistico "E' andata così, va bene è colpa mia, ma ora comunque cerchiamo di goderci la vacanza" - che non mi sarei goduta, ovviamente) mi ha ridotto ad uno stato di pressoché totale impotenza finché la vita che, appunto come diceva Svevo, è originale, ha avuto pena di me.

Con un colpo di scena ha scompigliato le carte e mandato all'aria la vacanza. 
Stavolta non per colpa mia, ma per cause indipendenti dalla mia volontà: il che ha significato, tra le altre cose, perdere tutti quei soldi che mi sentivo in colpa a buttar via dalla finestra per andare a votare; ma dato che non l'ho deciso io, ora, il fatto di buttarli davvero via mi fa sentire leggera ed euforica.

In realtà, a ben guardare, il disagio di chi si è visto salvare per un pelo ma non per propri meriti, c'è, eccome; e il fatto che se non fosse stato per questo provvidenziale imprevisto oggi, invece di scrivere queste righe, sarei probabilmente stata in una libreria londinese, rimane comunque un fatto che lascia l'amaro in bocca; ma di riflessioni scoraggianti e avvilenti in questo mese e mezzo ne ho fatte ad abundantiam e credo di aver imparato la lezione, e bene: posso essere superficiale e una gran velleitaria (non che non lo sapessi già, sia chiaro, ma stavolta la consapevolezza è diversa): è brutto dirselo, ma è meglio farlo e, se si può, correre ai ripari.

E ora basta.
Col cuore leggero anche per avervi messo a parte dei miei psicodrammi, vi saluto: vado a votare, e invito tutti a fare altrettanto, e se possibile, invito tutti a votare sì ad ogni quesito.  Approfittiamo di queste poche occasioni di partecipazione che ancora ci sono riservate per cercare di uscire davvero dall'orrido incantesimo in cui siamo precipitati da quasi vent'anni.

Buona domenica a tutti!


lunedì 6 giugno 2011

Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa di Christopher Hitchens

Mi dispiace, forse non era il momento giusto per leggere questo libro, che mi è parso noioso e verboso.

Niente da eccepire sulla tesi: anzi, mi auguro che sempre più vengano scritti e stampati e letti testi intelligenti e onesti in difesa di una sana laicità.

Il fatto è che sono arrivata quasi a un terzo di questo libro e non vi ho trovato una notizia o uno spunto che mi abbiano sorpresa, indotta a riflettere, divertita, incuriosita. Niente.

Neanche l'ironia che l'autore sparge a piene mani è riuscita a conquistarmi: è un'ironia troppo spesso irritante, per i miei gusti, di quella che si porta dietro l'onnipresente sottotitolo "Mamma mia come sono arguto e intelligente e brillante e caustico".
Uno strazio.

Tengo a ripetere che l'autore sposa una tesi della cui bontà sono ben convinta, e da anni, dunque il mio fastidio non nasce dal vedere demolire senza troppo garbo certe mie idee, al contrario.

Per concludere, una nota per me dolentissima: qualcuno potrebbe dire al signor Mario Marchetti, che ha tradotto questo testo, che in italiano - per quanto ne sappia - si dice "pestaggio" e non "picchiaggio", "rivelatore" e non "rivelativo"?
So che il libro abbonda di simili fantasiose creazioni - altri me lo hanno detto.

Ma queste (le due più macroscopiche che ho registrato) mi sembrano più che sufficienti per farsi prendere da una crisi di sconforto di fronte alla sempre più triste situazione dell'Einaudi.


Christopher Hitchens, Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, traduzione di Mario Marchetti, Einaudi 2007.

giovedì 2 giugno 2011

Che cosa combino nella stanza accanto: processi creativi erratici

Ma quanto mi piace passare i pomeriggi nella mia stanza, il tavolo da lavoro ingombro fino all'inverosimile di perle, perline, fili, pinze e tronchesini, cercando di ritrovarmi tra le mani qualcosa che mi piaccia.

A volte, ma è raro, parto con un'idea già in testa - idea che, come spesso accade, esce fuori così, inopinatamente, nei momenti meno opportuni, ultimamente soprattutto all'alba: mi sveglio e penso qualcosa tipo "Ecco come fare!" - e c'è solo da raccogliere tutti gli ingredienti necessari e mettersi al lavoro assemblandoli.

Per lo più, però, l'idea è vaghissima e magari si limita a un colore, oppure ad un particolare tipo di perla che voglio usare ma non so come e per cosa e con che cosa.

E allora il processo è tortuoso e assolutamente non lineare e a volte è questione di aggiustamenti minimi, ma necessari: quella perlina che invece di star qui è meglio stia lì o accanto a quella e non a questa, un cordino invece di un altro. 

Ma non è facile capirlo subito, o almeno non lo è per me, e a volte per fare un paio di orecchini ci metto anche una settimana di tentativi anche perché accosto, provo, faccio, sfaccio, riprovo, riaccosto, metto al collo e alle orecchie, valuto, giudico, smonto e ricomincio e nel frattempo vado in cucina, faccio merenda, vado nello studio della Spia a fare quattro chiacchiere, do l'acqua ai fiori, carezzo le gatte, cucino, parlo al telefono con qualche amica, insomma, vivo.

Vorrei avere dei processi creativi più lineari, più disciplinati, meno casuali (e soprattutto meno dispersivi e che richiedano meno tempo) ma pare per me sia assai raramente possibile. E pace, esistono problemi più seri.

Ieri pomeriggio, comunque, ho avuto una di queste "sessioni" creative intensive, a metà della quale sono dovuta uscire per andare dal ferramenta, il mio ferramenta di fiducia, dove quando arrivo i commessi fanno finta di imboscarsi perché li faccio diventare matti.

Spesso non conosco il nome di ciò che voglio, o se lo so lo so in inglese e allora cerco di descriverlo, con risultati che vanno dal surreale allo psichedelico; a volte, invece, semplicemente non so che cosa voglio e vado dal ferramenta in cerca di idee ed è in questa versione, soprattutto, che divento particolarmente molesta e nociva per i poveri commessi.

In entrambi i casi, questi commessi con me sono tanto pazienti, ma pazienti che non vi dico, e sempre molto sorridenti, di quei sorrisi che in genere si riservano alle vecchiette svaporate che si capisce non vogliono tormentare nessuno intenzionalmente, però finiscono per farlo, e con metodo, caparbietà, costanza.

E poi arriva sempre il momento in cui sfoggiando io il mio miglior sorriso chiedo "Non è che mi farebbe passare dietro il bancone che da qui non vedo bene?" e allora davanti a tutti quei cassettini pieni di robine interessanti mi sento un po' come quando sono in libreria e tutti quei libri, quella scelta quasi illimitata, mi mettono letteralmente in uno stato di frenesia euforica. 

Tantissime idee mi vengono in mente quando sono dal ferramenta e se non mi vengono (ma è raro), mi viene sicuramente il buonumore - che è persino più importante, a volte, delle idee.

Come che sia, alla fine sono tornata a casa e ho capito che cosa mancava alla collana che stava cercando di materializzarsi sul mio piano di lavoro: delle schegge di pietre dure zambiane, che ovviamente non ho preso dal ferramenta, ma che con quello che ho comprato lì e certe perle strane di vetro grigio acquistate non ricordo nemmeno dove secondo me stanno molto bene.

Eccola qui, la collana che volevo.
Una con granati per me e una con ametisti per lo shop.