martedì 10 luglio 2012

Di sensi di colpa, di beduini e di un piatto di spaghetti alle vongole felici

Sono stata vegetariana per anni, al tempo in cui - difficile a credersi - praticavo lo yoga 5 giorni a settimana (ero davvero io quella fanciulla vestita di bianco che sosteneva posizioni impossibili per intere mezzore e meditava intonando mantra? Pare di sì).

Quando io e la Spia ci siamo trasferiti a Cipro, però, il mio vegetarianesimo cominciò a vacillare, per motivi eminentemente pratici: benché la cucina cipriota - che è poi praticamente quella greca, a parte pochi piatti davvero locali, ma non ditelo a un cipriota - sia ricca di ricette a base di verdure (molte delle quali, però, a quel tempo non mi attraevano granché), il pezzo forte di ogni cena o pranzo è sicuramente a base di carne: agnello, pollo, maiale.

Essere invitata a casa di qualcuno e dover ogni volta spiegare che "No, grazie mille, sono vegetariana, cioè non mangio carne. Sì, certo, anche il pollo è carne. Non mangio animali, diciamo così. No, non mangio neanche il tonno; i pesci sono animali, sa" era diventato per me motivo di discreto stress. 
E per quanto tempo si può mangiare ad ogni occasione mondana un'insalata greca (che a Cipro si chiama "del villaggio") guardando tutti gli altri divorare gustosissimi spiedini o salsicce?

Dunque, non senza nutrire i miei bravi e immancabili sensi di colpa, ormai da 11 anni ho ricominciato a mangiare carne. 

Ne mangio, poca, pochissima, e tutte le volte che posso o l'acquisto con il gas o privilegio quella proveniente da allevamenti toscani dove gli animali sono cresciuti in maniera non abominevole e criminale, vengono nutriti in maniera sana e vivono il tempo loro concesso dalla bramosia umana in un modo il più possibile naturale.

Anche così, comunque, ogni volta non posso fare a meno di sentirmi a disagio, convinta come sono che senza carne si può vivere, e benissimo, anzi, direi meglio; la mia è davvero una questione di gusto e di gola e per questo, ai miei occhi, quasi imperdonabile. 
E così come non sono mai stata una fanatica crociata del vegetarianesimo (mai indottrinato nessuno né fatto reprimende a chi si sbafava con soddisfazione la sua fiorentina), ora sono una consumatrice occasionale di carne non troppo convinta.

L'unica mia vera debolezza, quella di fronte alla quale anche i miei princìpi più radicati scricchiolano pericolosamente è il salame (me lo sognavo la notte, oscuro oggetto dei miei desideri repressi): per una fetta di salame potrei tradire tutti i miei amici o vendere la Spia ai beduini - ammesso che lo volessero.

A parte il salame, però, sono sempre ben contenta di trovare alternative alla carne. Mi sto avvicinando con curiosità al tofu e al seitan, per esempio. E ogni volta che mi imbatto in una ricetta che interpreta in chiave vegetariana un piatto che prevede invece l'utilizzo di carne o pesce o molluschi ("Sì, anche i molluschi sono animali, già"), se mi convince, la provo.

Ecco dunque l'ultimo esperimento, per me di grande soddisfazione.
Una pasta alle "vongole felici" - felici perché non di vongole si tratta, ma di pistacchi- trovata sull'ultimo numero di AAM Terra Nuova.

Intendiamoci: gli spaghetti in bianco alle vongole sono tutt'altra cosa. Non aspettiamoci da un piatto del genere quello che non può essere.
Ma questi spaghetti al pomodoro e pistacchi sono piacevoli, facili da preparare e fanno un gran bene alla mia coscienza. 
Di più, a una ricetta, non sento di poter e dover chiedere.

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Spaghetti alle vongole felici
(Ho dovuto necessariamente attuare delle modifiche, perché vistosamente sprovvista di ingredienti per me sommamente esotici quali l'alga kombu, l'alga nori, l'arame e la spirulina; per il resto, è praticamente identica.)

per 2 persone

50 gr di pistacchi, pesati con il guscio
olio extravergine d'oliva
1 spicchio d'aglio
peperoncino (a gusto)
1 foglia d'alloro
170 gr di spaghetti integrali
pomodori freschi (io ho usato, se non ricordo male, circa 7-8 piccadilly) 
1 cucchiaino di farina integrale
prezzemolo

Una mezz'ora prima di cominciare a cucinare lavate i pistacchi e metteteli, ancora col guscio, in una ciotola d'acqua. Lasciateli in ammollo.

Quando siete pronti, mettete su l'acqua per la pasta.

In una padella con un cucchiaio o due di olio extravergine d'oliva mettete a soffriggere dolcemente lo spicchio d'aglio intero, la foglia d'alloro e un pizzico di peperoncino secco.

Sbucciate i pistacchi. Appena sentite il profumo dell'aglio, aggiungeteli insieme a qualche cucchiaiata di acqua, coprite e fate insaporire per qualche minuto.

Indi aggiungete i pomodori freschi, che avrete pulito dei semi e tagliato a pezzetti.

Buttate gli spaghetti nell'acqua bollente e salata e fateli cuocere molto al dente: tenete presente che gli ultimi 3-4 minuti di cottura saranno nella padella con il sugo.
Prima di scolarli tenete da parte una buona mestolata di acqua di cottura - una buona pratica comunque.

Aggiungete al sugo 1 cucchiaino di farina integrale e mescolate.
Versate finalmente gli spaghetti scolati nella padella con il sugo, aggiungete eventualmente un po' dell'acqua di cottura tenuta da parte e finite di cuocere.

Prima di servire: prezzemolo tritato, volendo una spruzzata di succo di limone (io non ne avevo neanche l'ombra in casa, sigh), dell'olio a crudo e "fate portare in tavola" come si diceva nei vecchi libri di cucina.

Enjoy!

giovedì 28 giugno 2012

Romanzo rosa di Stefania Bertola

Le 4 stelle aNobiiane sono per l'affetto che ho per Stefania Bertola e per la riconoscenza che nutro per lei, che negli anni mi ha regalato ore e ore di sereno, intelligente, spensieratissimo sghignazzo, ma questo romanzo è davvero deboluccio, secondo me.

La Bertola è di solito maestra nel costruire romanzi corali, all'interno dei quali si intrecciano, in maniera quasi sempre surreale e ridicola ma anche perfettamente organica alla storia nel suo complesso, le vicende di molti personaggi, tutti sempre ben delineati e caratterizzati.

Anche questo è in teoria un romanzo corale e i protagonisti sono gli improbabili studenti di un ancor più improbabile corso di una settimana per imparare a scrivere il romanzo rosa perfetto.

Dico in teoria perché, stavolta, la Bertola ha scelto di dare un altro taglio al racconto: ha abbandonato la sua consueta posizione di narratore onnisciente e ha affidato a uno dei personaggi il ruolo di voce narrante e poi ha fatto soprattutto della metanarrativa, divertendosi probabilmente molto a parodiare, in modo intelligente e impietoso (ma è come sparare sulla croce rossa!), il genere letterario del romanzo sentimentale da edicola.

Peccato che così facendo si sia persa per strada proprio i personaggi, che invece sa costruire sempre con grande finezza e mestiere, che in questo caso risultano sfuocati, indistinti, poco più che macchiette con poco spessore.

Per il resto, qualche sghignazzata di gusto la riserva anche questo Romanzo rosa, soprattutto se, come me, anche voi, durante la lunga interminabile estate-senza-vacanze dei vostri 11 anni avete trascorso diverse ore al giorno leggendo i libri Harmony di vostra sorella maggiore.

Riconoscerete tutte le assurde e grottesche convenzioni che regolano l'universo delirante dei cosiddetti "romanzi rosa", che già a 11 anni mi sembravano, a volte (ma solo a volte! ero una discreta zucchina a quell'età), stucchevoli e irreali.

Come dice la cara Oriana, una scivolata ogni tanto, a chi mi ha fatto finora solo tanto tanto bene, si perdona, eccome se si perdona; il prossimo libro della Bertola, però, lo prendo in biblioteca – hai visto mai.


Stefania Bertola, Romanzo rosa, Einaudi 2012.

giovedì 14 giugno 2012

Di assenze e presenze e di un incontro lungamente atteso


Quando ho aperto questo blog, quasi tre anni e mezzo fa (vincendo infinite remore, le solite: la vergogna, il timore del giudizio altrui, la paura di essere una velleitaria e di presumere di me, il terrore che a nessuno interessasse etc. etc. etc.), mi sono ripromessa che avrei scritto solo e soltanto se e quando avessi avuto qualcosa da dire e, soprattutto, la voglia di dirlo.

In questo mio mese e mezzo di assenza, di cose da scrivere ne avrei anche avute. Mi mancava la voglia.
Perché per me scrivere non è immediato; non è un gesto spontaneo, liberatorio, disinvolto. 
È disciplina, riflessione, lavorio mentale, lotta con il mio feroce giudice interiore, ricerca di equilibrio. 
Se non fosse forse eccessivo, direi: è lavoro.

E in questo periodo, di fare questo lavoro, non me la sentivo.
Sono stata distratta dalla vita, potrei dire; e per non esser troppo retorici, dalla bella stagione, dalla lettura (di pagine cartacee e non virtuali), dalle piante di cui cerco di prendermi cura, dal mio tavolo da lavoro; soprattutto sono stata distratta - assai felicemente distratta - dagli amici. 
Amici mai incontrati se non nelle maglie della rete e ai quali finalmente ho dato un volto e una voce (ciao Nela San!); amici cari che sono andata a trovare in Inghilterra.

E proprio lì, nella perfida Albione (per la precisione a Rodmell, nel Sussex), ho finalmente visitato - dopo circa 20 anni che lo desideravo - Monk's House, la casa di campagna di Virginia Woolf ("una casa senza pretese, lunga e bassa, dalle molte porte" la definì lei nel suo diario).

Raccontavo a più di una persona che temevo, una volta lì, di essere travolta dall'emozione e dalla commozione e di trasformarmi - con imbarazzo mio, soprattutto, più che della Spia e degli amici che erano con noi - in una sorta di estintore umano.

Invece no.
La commozione c'è stata, certo. Ma più forte di lei è stata la sensazione, dolcissima, di trovarmi in un luogo amico, noto, familiare.
Quante volte ho osservato con attenzione le foto di quel suo studio/capanno da giardino, la sua "stanza tutta per sé" con vista sui prati; di quel salotto verde ("verde nilo", direbbe mio padre) con le sedie disegnate dalla sorella Vanessa; della camera da letto monacale con la libreria dietro il letto, la grande finestra dalla quale si vede il glicine, il caminetto con le mattonelle dipinte, il paralume decorato...

E quante volte ho immaginato il giardino? Con gli iris piantati da Leonard durante i bombardamenti tedeschi, la chiesetta al di là del muro, la vasca con le ninfee, il grande prato teatro di interminabili partite estive a bocce (una grande passione di Virginia, che nei suoi diari si lamentava di dedicarle troppo tempo, a scapito della scrittura)?

In ogni centimetro quadrato di quel luogo ho sentito - non appannato dalla presenza pure costante di turisti, come me, armati di macchine fotografiche e silenziosi, quasi in soggezione, ancora, di fronte allo spettro della sua morte tragica e romanzata - la presenza viva di quello spirito inquieto e geniale che tra quei fiori e quelle mura trovò spesso riposo e ristoro e amicizia e molte ore di beate letture e scrittura.

Non sono una grande fotografa, lo sapete; ma vi lascio comunque con alcune immagini di quel giorno.
Mi piacerebbe che, anche se maldestramente, riuscissero a comunicarvi un po' della mia emozione e della mia gioia.












 

lunedì 7 maggio 2012

Note del guanciale di Sei Shōnagon


Particolari eleganti e graziosi

Indossare su una veste rossa un'ampia e giovanile sopravveste candida. Le uova di anatra. Un dolce di zucchero di vite, conservato nel ghiaccio e presentato in una coppetta di metallo. I fiori di glicine. I fiori di prugno quando su di essi fiocchi la neve. Un bambino graziosissimo che mangi fragole.

Ecco una delle tante liste compilate da Sei Shōnagon - dama di corte devotissima all'imperatrice Sadako, vissuta in Giappone nel X secolo d.C. - e contenute in queste sue Note del guanciale.

In queste pagine, scritte, come dice la stessa autrice, per mitigare la noia di una vacanza a casa (…) pensando che nessuno le avrebbe lette, di liste ce ne sono molte: di cose piacevoli, disarmoniche, brutte e luride, belle se grandi, davvero antipatiche, che procurano un caldo soffocante, che dovrebbero essere corte, che fanno bella figura nella casa, antitetiche, rare, deludenti, irritanti, sgradevoli a udirsi, venerabili - e di molte altre, catalogate sotto le più disparate etichette: un intero universo, a noi lontanissimo nello spazio e nel tempo, inventariato e catalogato.

La donna che scrisse questo libro sembra aver avuto tutto dalla vita: figlia di un notissimo e celebrato intellettuale del tempo ed intellettuale stimata a sua volta, fu bella, ricca, amata, desiderata e celebre per la raffinatezza, il senso dell'umorismo e l'arguzia che la resero uno dei personaggi più in vista della corte dell'imperatore Ichijō.

Col piglio sicuro di chi è abituato a veder riconosciuta e tenuta in considerazione la propria opinione, Sei Shōnagon rende noti suoi gusti in modo personale e dettagliato: dai buoi ai gatti, dai cavalli alle carte per la scrittura, dagli scudieri ai paggetti, dalle più belle cascate del Giappone ai ponti, dai nomi dei villaggi ai colori più adatti per le sopravvesti estive, questa donna aveva un'idea precisa e personale su tutto e soprattutto pensava che valesse la pena esprimerla.

La lettura di questi suoi repertori è divertente, spesso piacevolissima (Cose che procurano felicità.  Leggere il primo volume di un romanzo che non conoscevamo e riuscire poi a scovare l'attesissimo secondo volume); a volte ci si ritrova commossi, altre decisamente spiazzati; spesso si stenta a credere di avere tra le mani un testo tanto antico, tali la freschezza e la modernità di molte sue pagine.

Le Note del guanciale sono però anche un piccolo trattato di storia e antropologia: molte sono infatti le descrizioni del complesso cerimoniale vigente alla corte imperiale di Kyoto, brani affascinanti ma che non di rado ho trovato noiosi, soprattutto perché i criteri rigidissimi che codificavano capillarmente la vita quotidiana dei dignitari di corte mi sono risultati molte volte assurdi e intollerabili, nel migliore dei casi incomprensibili - anche con l'ausilio delle ottime note, curate da Lydia Origlia.

Lo stesso dicasi per tutte le pagine dedicate alle molte facezie e agli scherzi che era abitudine scambiarsi a corte e che costituivano metro di giudizio del valore e della statura intellettuale e morale di ogni persona coinvolta: Sei Shōnagon li racconta con grande divertimento – e a volte con spregiudicata malignità - ma si sa, il senso dell'umorismo è una delle cose più difficili da esportare, sia nello spazio sia nel tempo.

Quel che comunque mi sembra di aver capito molto bene è che quello della corte imperiale era un mondo chiuso, che dietro la sua raffinatezza e i suoi minuziosi e complessi codici comportamentali nascondeva crudeltà e meschinità terribili ed era pronto a giudicare spietatamente e a fare a pezzi chiunque si macchiasse della minima disattenzione: bastava presentarsi indossando la sopravveste del colore sbagliato per l'occasione per essere oggetto del feroce e spietato sarcasmo di tutti e per cadere in disgrazia.

Sebbene il tono generale del libro sia dunque gaio e brillante, non mancano i momenti in cui si sente vibrare un'accorata malinconia (Cose che dovrebbero essere vicine ma che sono realmente lontane. Il paradiso. I viaggi per mare. I rapporti umani.): il desiderio nostalgico di una vita più semplice e la fatica di vivere in un mondo così difficile ogni tanto devono aver pesato anche sulle aggraziate spalle di Sei Shōnagon.

Gli anni che seguirono l'esperienza a corte non devono essere stati allegri per lei; morta di parto la sua protettrice, malvista dalla nuova imperatrice, cadde infatti in disgrazia. Si ritirò dunque nella sua casa di campagna e visse anni di decadenza e abbandono: di lei non si seppe più nulla o quasi; un triste epilogo per una vita che per molti anni era stata brillante, spensierata e adorna di ogni piacevolezza e raffinatezza.

Chissà se lo spettacolo della natura - cui nel libro sono dedicate tra le pagine a mio parere più belle – non più goduto dai balconi o nella sontuosa cornice degli splendidi giardini delle varie residenze imperiali in cui si svolgeva la vita di corte – continuò a rapire e a sedurre la sua fantasia; chissà se negli ultimi anni della sua vita, anche senza l'ausilio dei suoi mille, raffinatissimi “talismani” - le scatole per la scrittura, i ventagli, i pettini, i pennelli e i bastoncini d'inchiostro, le mille vesti confezionate in ricchi e sontuosi tessuti nei colori da lei preferiti (Quanto ai tessuti, le tinte che preferisco sono il viola, il bianco e anche il rosso prugno, per quanto quest'ultimo, a lungo andare, stanchi) - in luogo di sentirsi sconfitta e beffata dalla vita, Sei Shōnagon pensava ancora ciò che, giovane, bella, celebre e sicura di sé, aveva scritto:

Quando mi sento così delusa da provare rancore verso il mondo intero, così depressa da non avere più desiderio di vivere, neppure per un istante, ma di voler fuggire lontano, dove non importa, se mi capitano tra le mani semplici fogli di carta bianca e un buon pennello, cartoncini bianchi o carta di Michinoku, immediatamente mi rassereno e penso che la vita valga ancora la pena di essere vissuta. Oppure se distendo un tatami dai bordi damascati e ne ammiro la fibra ancora di un tenero verde, dolcemente rigonfia, la minutezza dell'intreccio, la netta distinzione tra il nero e il bianco dei disegni del bordo, mi accorgo che non potrei mai abbandonare questo mondo senza rimpianto e la vita stessa mi appare più preziosa che mai.

(Un grazie speciale a Tiziana Rinaldi che con un suo post, tempo fa, mi ha fatto scoprire Sei Snagon).


Sei Shōnagon, Note del guanciale, a cura di Lydia Origlia, SE 2002.

 

lunedì 23 aprile 2012

Missed Connections di Sophie Blackall


www.missedconnections.com è un sito americano molto popolare, dove le persone lasciano dei messaggi nel tentativo di ritrovare qualcuno che non conoscono, che hanno incontrato per caso – in metropolitana, per la strada, in un ristorante – e che vorrebbero ritrovare e conoscere.

“Pattinando sul ghiaccio a Central Park, ci siamo scontrati. Tu indossavi un cappello di pelliccia con le orecchie e mi sei venuta addosso al Woolman Rink, oggi. Sei una  pattinatrice pessima, ma adorabile”.

“Mentre passavamo sotto il fiume, il tuo naso ha cominciato a sanguinare. Io sono la ragazza che ti ha allungato un fazzoletto. Non sembrava il momento adatto per chiederti se fossi single, ma ho pensato che fossi maledettamente carino".

“Indossavi un abito verde con bottoni bianchi. I nostri sguardi si sono incrociati almeno tre volte sul 6, stamattina. All'improvviso hai sorriso e ti sei guardata in grembo, come se ridessi di uno scherzo segreto. Non hai più sollevato lo sguardo ed io sono dovuto scendere a Bleecker. Avrei voluto poter guardare dentro la tua bella testa”.

Sophie Blackall è un'illustratrice di Brooklyn; per puro caso si imbatte in questo sito e ne rimane totalmente stregata. La sua immaginazione è immediatamente sedotta ed eccitata dalle tante, infinite, possibili storie che questi annunci lasciano immaginare, sognare, intravvedere.

Alcuni la divertono, la commuovono e la incuriosiscono; altri tornano insistentemente a visitare la sua fantasia finché si trasformano in illustrazioni.
Da qui nasce il progetto di un blog che diventa, nel tempo, questo libro.

Come è accaduto a Sophie Blackall, è impossibile, come lettori, non farsi coinvolgere da questi piccoli racconti.
Sarà "il voyeurismo, il romanticismo vissuto per interposta persona”, sarà che questi annunci sono “frammenti di una storia che contiene i grandi e familiari temi dell'amore, della perdita e del rimpianto e in definitiva, soprattutto, della speranza”.

Sarà che poche cose sono più poetiche, evocative e struggenti di “ciò-che-avrebbe-potuto-essere-e-non-è-stato”, di tutte le strade che ai tanti bivi della propria vita è stato scelto di non percorrere, di tutti quegli sguardi che non si ha avuto il coraggio di ricambiare o trasformare in parole, in gesti di avvicinamento, apertura, contatto.

Sarà il potere irresistibile del “ciò-che-ora-non-è-ma-un-giorno-potrebbe-essere”, della speranza che esista per tutti un'occasione d'amore, di gioia, di condivisione.

Sarà per tutti questi motivi che questo libro è un piccolo gioiello, da sfogliare con leggerezza e un crescente sentimento di tenerezza e commozione.

Leggete anche che cosa ne ha scritto la brillante e a me dilettissima Chiara in questo suo post: http://www.chiarachinellato.net/clarissapuntod/le-missed-connections-di-sophie-blackall/.


Sophie Blackall, Missed Connections. Love, Lost & Found, Workman 2011.


venerdì 20 aprile 2012

Di cene africane e amici cioccolatomani, ovverosia della crostata suprema

E dunque dopo tanti, tantissimi anni, ho rifatto la famosa "crostata suprema": un nome altisonante e pretenzioso per un dolce che in effetti ha qualche diritto ad un aggettivo tanto sopra le righe.

La prima volta che l'ho fatta, la crostata suprema, ero in Africa e cercavo un dolce adatto a soddisfare il palato esigente di un amico, ospite a cena quella sera, noto cioccolatomane.
Seguii la ricetta scrupolosamente, cimentandomi addirittura nelle decorazioni fatte con il caramello e il cacao, tanto più spettacolari quanto più sono astratte e sbilenche.

La crostata suprema riscosse un grande successo e dopo mesi e mesi di repliche mi fece acquistare una sorta di notorietà nella piccola cerchia di espatriati che circolavano in quella città africana.

Poi, tornata in Italia, non l'ho più fatta. Per nessun motivo particolare, forse solo perché ho conosciuto, provato, cucinato altre cose.
Ma qualche giorno fa, per un pranzo tra amici, ho deciso che avevo proprio voglia di farla di nuovo. 
Con modifiche sostanziali, dettate dal fatto che la ricetta originale è davvero una sorta di bomba - non che la mia versione lo sia molto meno, diciamo che è una bombetta, ecco.

Ho fatto un po' un miscuglio e dunque in parte seguito una ricetta di Clotilde Dusoulier (l'ho trovata sul suo libro Chocolate & Zucchini) per il guscio di pasta e poi ho leggermente modificato il resto della ricetta che è di Trish Deseine (presa dal suo Cioccolato!, ma la trovate in quasi tutti i suoi libri).

E quel che è venuto fuori è stata di piena e selvaggia soddisfazione, di tutti.

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(quasi una) Crostata suprema al cioccolato

per la pasta (con questo quantitativo in genere ci faccio due torte, utilizzando due tortiere a fondo mobile, una di 24 cm e una di 15: la prima è per gli ospiti; la seconda, da mangiare il giorno dopo a colazione, è per la Spia, che se no alimenta subito il complesso abbandonico): 

75 gr. di burro, tagliato a cubetti
75 gr. di zucchero a velo
150 gr di farina (io uso quella 0)
1 cucchiaio di cacao amaro
1/4 di cucchiaino di sale
1-2 cucchiai di acqua ghiacciata

per la farcitura:

100 gr. di cioccolato fondente al 70% +  200 gr.
150 ml di panna liquida
2 tuorli
25 gr. di burro

Io preparo la pasta nel robot da cucina: burro, zucchero, farina, cacao e sale nella coppa con la funzione pulse fino a quando non siano ridotti a briciole. Poi aggiungo, con cautela, un primo cucchiaio di acqua e di nuovo aziono la funzione pulse. Di solito di cucchiai ce ne vogliono due perché la pasta cominci ad ammassarsi: a quel punto la tiro fuori dalla coppa del robot, la compatto con le mani e la avvolgo nella pellicola. Indi la trasferisco in frigo per almeno una mezz'ora. Un'ora è anche meglio.

Passato questo tempo, la tiro fuori, la stendo con il mattarello e ci ricopro le due teglie, premendola bene sui bordi e sul fondo e sforacchiandone la superficie per evitare che si sollevi in cottura. Finita quest'operazione rimetto tutto in frigo per almeno mezz'ora e nel frattempo accendo il forno a 200°.

Quando è il momento, cuocio in bianco il guscio di pasta per 20'-30': io non uso né carta da forno né fagioli secchi; vado un po' così, alla spericolata, e devo dire che per qualche imperscrutabile ragione faccio meno disastri in questo modo di tutti quelli che ho fatto in passato seguendo i crismi della cottura in bianco - almeno così come veniva prescritta nei miei libri di cucina.

Il guscio di pasta dovrà essere inequivocabilmente cotto, anche perché non verrà più rimesso in forno dopo che sarà stato riempito con la ganache. Regolatevi voi: lo so che è un'indicazione vaga e frustrante in una ricetta, ma quel che posso consigliarvi - data l'alta individualità di ogni forno - è di rimanere nei pressi e dare una sbirciata ogni tanto. Si capisce quando il tempo è arrivato: la pasta si ritira in maniera netta e ordinata dai bordi. Considerato che non seguirà nessun'altra cottura, io preferirei cuocerla un po' di più che un po' di meno. Poche cose sono più indisponenti che un guscio di pasta virante al crudo.

Quando ritenete che sia cotto, tirate fuori dal forno e lasciate raffreddare.
Solo quando il guscio di pasta sarà completamente freddo potrete spennellarlo (io usavo un pennello, quando ne avevo uno; ora uso una spatola di silicone o un cucchiaio) con la tavoletta di cioccolata da 100 gr. sciolta a bagno maria. Ricoprite il fondo della torta e anche i bordi, se ci riuscite, con uno strato sottile e il più possibile uniforme. Mettete poi in frigo: lo strato si dovrà solidificare e dovrà diventare croccante.

Nel frattempo procedete con la ganache: in un pentolino portate la panna a bollore, poi togliete subito dal fuoco e versatela su una ciotola di pirex (o comunque resistente al calore) dove avrete messo la cioccolata a pezzetti. Aspettate una ventina di secondi, poi cominciate a mescolare, sciogliendo il cioccolato ben benino.
Indi aggiungete i 25 gr. di burro (io ogni tanto non li metto) e infine i due tuorli, prima uno e poi l'altro, amalgamando bene il primo prima di aggiungere il secondo. 
La ganache avrà una consistenza piuttosto densa, l'ultima volta la mia appariva quasi un budino.
Versatela nel guscio di pasta e mettete tutto in frigorifero.

Tirate fuori la torta almeno 15'-20' prima di quando intendete mangiarla (ovviamente dipende da che temperatura c'è fuori).
Alcune mie amiche la decorano con del cacao amaro setacciato; altre la cospargono di granella finissima di pistacchi.
Come che sia, anche nuda la crostata suprema è un dolce sontuoso: chiunque se la vedrà arrivare in tavola dopo una cena si sentirà destinatario di un'attenzione e di un riguardo speciali. Proprio come dovrebbe sentirsi chiunque scegliate di far sedere alla vostra tavola.

Enjoy!

sabato 14 aprile 2012

Un altro sguardo: Cristina Dalla Valentina


Fine febbraio
Mi sono imbattuta in Cristina Dalla Valentina non ricordo nemmeno io come, probabilmente avendola più volte incrociata nel blog della cara Tiziana Rinaldi.
Ero rimasta colpita dai suoi commenti, sempre così personali, puntuali, scritti - si sentiva - con autentico calore. 
Poi ho cercato il suo blog e ho scoperto il suo mondo.

Un mondo di acquerelli, di natura soprattutto, di quella campagna e quel paesaggio veneto così  legati a una parte molto antica e molto lontana di me, quella dei miei nonni materni. 
Nei suoi canali fiancheggiati da filari di alberi ho riconosciuto, con un tuffo al cuore, lo spettacolo che vedevo tutti i giorni dalle finestre della casa dei miei nonni, durante le mie brevissime visite estive.

Ma anche un mondo di ritratti, soprattutto dei suoi cari, colti - con l'attenzione e l'affettuosa, pudica precisione che solo un volto amato ispira - in espressioni assorte, concentrate, oppure buffe, irriverenti, che guardano negli occhi chi li osserva oppure fissano qualcosa che non sappiamo e che possiamo solo immaginare.

In ogni caso, la pittura di Cristina è una pittura di sentimento, mi vien da dire; attenta al reale e al tempo stesso allusiva di altre dimensioni (penso ai suoi alberi che sembrano interagire tra loro e con noi che li osserviamo), inequivocabilmente femminile ma niente affatto svenevole o leziosa, lontana mille miglia dal cliché dell'acquerello come forma d'arte destinata alle signorine di buona famiglia di un tempo. 

I suoi boschi e i suoi campi, la sua frutta e i suoi fiori trasmettono insieme serenità e potenza, armonia e spontaneità, forza e dolcezza, danno immagine e colore allo spirito della natura che li anima, così presente sotto i nostri occhi e quotidiano e vicino e pronto, pazientemente, a mostrarsi, a comunicare - nonostante le continue, insensate violenze che spesso gli vengono inferte da noi umani - e insieme così misterioso e inafferrabile.


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Dicci qualcosa di te e che cosa fai
Mi chiamo Cristina, e sono una pittrice veronese... dipingo soprattutto con l’acquerello, che mi ha conquistato qualche anno fa e che non ho più abbandonato!

Da dove trai ispirazione?
È troppo banale dire "dalla mia vita"? Eppure è proprio così: la voglia di dipingere scaturisce per me sempre da qualcosa che vedo in prima persona, che mi colpisce per le sue qualità intrinseche, o per come si dispone nello spazio in relazione al resto: un'espressione intensa sul volto di una persona, un paesaggio evocativo, ma anche la forma e il colore degli oggetti, la luce e le ombre... ciò che mi attraversa la vista, mi arriva al cuore e mi emoziona. Potrei dire che i miei dipinti nascono contemplando le cose, facendole risuonare dentro di me.

Quando hai capito di aver trovato il tuo personale percorso creativo?
Devo ammettere che ho cercato a lungo la mia strada, provando vari percorsi, e perdendomi quasi sempre... poi ho incontrato la pittura, e ho capito che avevo trovato il mio vero cammino quando mi sono resa conto che mentre dipingevo non avevo più bisogno di altro... che dipingere soddisfaceva pienamente il mio bisogno creativo, placava la mia sete, mi lasciava tranquilla e appagata, come non erano mai riuscite a fare le altre passioni che ho seguito e che seguo tuttora (fotografia, letteratura...).

Conversazione a tre
Quali sono state (se ce ne sono state) le difficoltà che hai dovuto affrontare all'inizio? E come hai fatto a superarle?
Il mio problema maggiore è stato, ed è ancora, trovare il tempo per poter dispiegare tutto il potenziale creativo che vorrei... all'inizio, quando i miei figli erano molto piccoli, è stato molto difficile, adesso che vanno a scuola è un po' più semplice, ma comunque non mi è ancora possibile dedicarmi solo all’arte come professione esclusiva (infatti ho anche un secondo lavoro in un ufficio), e questo rende difficile trovare il tempo e soprattutto le energie necessarie... rischio sempre di trovarmi già stanca quando finalmente posso dedicarmi alla pittura, e spesso è tutto un equilibrio da cercare e ricreare ogni volta, per non perdere il filo dell'idea creativa e dell'ispirazione nonostante le mille interruzioni.
Ma questa è la mia vita, e credo che anche altri artisti abbiano questi stessi problemi... e poi da questa quotidianità traggo anche gli spunti per la mia pittura, per cui forse è anche un bene che sia così!

Hai mai dei blocchi creativi? E se sì, che cosa fai?
I blocchi creativi! Lo spauracchio di ogni artista... 
Intanto devo dire che nel tempo ho maturato l'idea che questi periodi di difficoltà nel creare, che noi viviamo come momenti sterili e di stasi, in realtà siano delle pause che ci vengono imposte dalla nostra stessa dimensione creativa. Noi vorremmo sempre essere produttivi, ma per ricaricare l'ispirazione servono anche dei periodi di rallentamento, di silenzio, di ascolto, di elaborazione interiore, direi quasi di meditazione, per permettere alla creatività di farci visita, per poter sentire la sua voce al di là delle corse quotidiane e degli innumerevoli stimoli che riceviamo.
Quindi credo che sia la nostra stessa creatività a intimarci di fermarci, di prestare attenzione, di fare silenzio dentro di noi e di non dare per scontato il suo dono.
Detto questo, i modi con cui cerco di vivere questi momenti sono appunto nella linea del rallentare i ritmi, per quanto possibile, del mettermi in ascolto, del cambiare la routine: prima di tutto allontanandomi dal computer e dal web, riposando, dormendo di più, leggendo un buon libro, trovando il tempo per una passeggiata nella natura, godendomi la compagnia dei miei cari; poi anche provando nuove tecniche pittoriche o dedicandomi alla fotografia. 
E soprattutto, cercando di credere nella mia arte al di là di ciò che sto provando in quel momento, avendo fiducia che il dono della creatività mi verrà elargito ancora, magari trasformato e arricchito.

Ritratto con bandana
C'è stata una persona che in qualche modo ti ha fatto da guida, o da modello, o ti è stata di ispirazione?
Più che ad una singola persona devo molto alla community che ho incontrato sul web: soprattutto quando un paio d’anni fa ho iniziato a condividere, timidamente e con molte incertezze, i miei lavori sul blog, mi sono stati di grande aiuto l'apprezzamento e l'incoraggiamento ricevuto attraverso visite e commenti. Sono anche nate delle amicizie più profonde, che sono state e sono ancora di fondamentale importanza per i consigli, l'appoggio, la condivisione che viene scambiata tra di noi. 
Ma il web è importante per me anche come fonte di ispirazione: attraverso i vari siti e blogs di artisti e crafters ho avuto accesso a vari tutorials, workshops on line e libri sul processo pittorico e creativo in generale, e ho potuto anche confrontarmi non solo con i grandi maestri, ma anche con modelli più raggiungibili, più a portata di mano, insomma più imitabili... e quindi elaborare un mio percorso seguendo anche le loro orme.

In genere come lavori? Come si sviluppa per te il processo creativo? Segui particolari procedure, usi particolari tecniche, hai piccoli riti?
Come dicevo prima, l'ispirazione mi viene da ciò che vedo, e che mi colpisce per la sua "necessità" di essere dipinto. 
Di solito scatto delle fotografie che mi servono come base per elaborare il dipinto, il quale spesso però prende una sua strada indipendente dagli scatti fatti. Altre volte, soprattutto per le nature morte, parto anche dagli oggetti reali posti di fronte a me.
Non uso molto gli schizzi come base di partenza, perché in genere tendo ad esaurire la voglia rappresentativa già mentre sto disegnando e dipingendo sul mio taccuino. Spesso però questi schizzi e tentativi mi servono per sperimentare una tecnica alternativa, o per tenere esercitato il collegamento tra occhio e mani.
Parto dalle foto, dicevo: e a volte l'idea nasce anche dalla manipolazione di queste foto al computer, attraverso il fotoritocco, il ritaglio, le sovrapposizioni... ancora attraverso l'osservazione e l'elaborazione di ciò che vedo, anche se in questa seconda fase in modo mediato e non più diretto.
Poi, comincio a dipingere... e qui tutto va a gambe all'aria! nel senso che poi la "musa" mi prende la mano, e mi dirige lei dove vuole, a volte anche stravolgendo i piani fatti, o magari facendomi capire che la strada da seguire è un'altra rispetto a quella che pensavo... in ogni caso, questo è il momento della libertà, in cui lasciar andare ogni preconcetto e ogni programma, e affidarsi solo al pennello e al colore.
Non ho riti particolari, ma mi piace sviluppare i dipinti in serie. Chi ha visto i miei acquerelli sa della mia passione per gli alberi e i loro "abbracci", per certe espressioni sospese dei volti, per la frutta e la verdura disposte geometricamente, per alcuni scorci della campagna intorno a casa. In questo modo ogni dipinto finito diventa una finestra aperta sul successivo, e ogni soggetto è come un amico che già conosco e che voglio però conoscere sempre di più.



Puoi descrivere brevemente il luogo in cui lavori?
Il mio angolo di pittura è nella mansarda di casa mia, e lo condivido con lo studio di mio marito. E' molto semplice, visto che consiste solo di un grande tavolo, e di scaffalature e cassetti in cui tengo tutti i miei strumenti: innanzitutto carta, acquerelli e pennelli, ma anche matite, pastelli, colori acrilici e a tempera, inchiostri, penne e pennarelli... e tanti tanti libri d'arte: manuali, cataloghi, riviste...
   
Ranuncoli
Come promuovi il tuo lavoro? Hai qualche consiglio in merito?
Per il momento sono due i campi in cui mi muovo: il web, attraverso il mio blog e il social network, dove ho l'occasione di far vedere i miei dipinti e di condividere il mio cammino creativo. Ho anche una piccola gallery sul mio blog, dove è possibile acquistare i dipinti disponibili per la vendita.
L'altro ambito è quello locale, dove sto cercando di farmi conoscere e di mostrare il mio lavoro pittorico: qui è ancora tutto agli inizi, e per il momento ho cercato di sfruttare i canali che sono alla mia portata (le relazioni personali, le conoscenze, gli ambiti lavorativi...) per mostrare i miei dipinti e per distribuire materiale informativo.
Proprio perché sono agli inizi (non sono ancora due anni che ho cominciato a vendere i miei dipinti...), i consigli per promuovere il mio lavoro li cerco soprattutto dagli altri, da amici che hanno più esperienza, o da altri artisti a cui mi ispiro, o anche consultandomi con mio marito.
Ma più che un'idea pratica vorrei consigliare un atteggiamento: l'elasticità. Cioè la capacità di cogliere le opportunità di promozione del nostro lavoro anche nei luoghi e nelle situazioni che non avremmo mai pensato, e di cambiare strategia se una certa strada non funziona.

Un progetto nel cassetto?
Vorrei esplorare una dimensione più mixed media dei miei dipinti, con l'immissione di collage, elementi tridimensionali, e l'utilizzo di colori e materiali acrilici... Ho già provato ad utilizzare gli acrilici liquidi o il gesso per lo sfondo di alcuni acquerelli. Mi piace l'effetto di texture che si ottiene e che contrasta con la stesura tradizionale del soggetto rappresentato. In questi mesi sto lavorando sul mio sketchbook in questa direzione, provando materiali alternativi.

Un sogno?
Poter fare della pittura il mio unico lavoro, dedicando ad essa tutto il mio tempo e le mie energie!

E poi...
Te, oggi, in 3 aggettivi
Più che tre aggettivi userei tre nomi: colore, luce e contemplazione.

Te, bambina, in un ricordo o un'immagine
Vi lascio questa foto di me a 7 anni: chissà cosa stavo guardando... ma mi piace pensare che sia già lo sguardo di una pittrice.

Il dono di natura che vorresti avere
Ho sempre ammirato gli scrittori, la loro capacità di narrare, di inventare storie... ecco, secondo me questo è un dono meraviglioso, che mi incanta e che vorrei tanto avere...

Forse non tutti sanno che... (qualche cosa di curioso, o di buffo, su di te)
... davanti a un sacchetto di patatine perdo ogni controllo!

Sul tuo tavolo di lavoro...
... si mescolano gli strumenti semplici di un'arte antica come l'acquerello (acqua, tubetti di colore, pennelli, carta) e le meraviglie della tecnologia di oggi, per la quale confesso una vera passione (il mio mac, due stampanti, l'ipad, la mia nikon).

Sul tuo comodino...
... ci sono i banali strumenti della vita quotidiana: la lampada da notte, la sveglia, la crema per le mani. Ma da quando ho memoria, lì riposa anche il compagno che mi ha sempre seguito nella mia vita: il libro che sto leggendo.

Nella tua borsa...
... di tutto e di più! tendo a "portarmi via la casa", come si dice... in ogni caso non manca mai la mia fedele nikon, per cogliere l'ispirazione e le immagini non appena si presentano. Ma quanti chili trascino con me ogni giorno!

Dalla tua finestra...
...un parco cittadino, che faccio finta che sia una prateria.

Temporale estivo
Prima di spegnere la luce...
...un bacio ai miei due figli, già addormentati, e a mio marito. Poi, nel silenzio, il fruscio amico delle pagine del libro...

Il tuo motto (se ne hai uno)
Mi ripeto spesso queste due frasi: "rallenta ogni volta che puoi", e "anche ad essere si impara". La seconda è dal Cavaliere inesistente di Calvino, la prima me la sono inventata io... non sarà un gran che, ma vi assicuro che serve.

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Se volete approfondire la conoscenza di Cristina (e io non posso che consigliarvelo!) questi i suoi contatti:



domenica 8 aprile 2012

Dai diamanti non nasce niente di Serena Dandini


Che questo libro l'abbia scritto proprio Serena Dandini, e non un ghost writer sottopagato, è fuor di dubbio.

Ad ogni pagina, ad ogni riga, si sente distintamente la sua voce, quella che siamo abituati ad ascoltare in programmi che, possono piacere o non piacere, ma di sicuro sono stati e sono tra i più intelligenti e guardabili che mai la tv abbia trasmesso negli ultimi 30 anni (e questo, secondo me, grazie soprattutto ai professionisti di cui la Dandini si circonda; se ha un talento questa donna, ma un talento vero, è proprio quello di saper scegliere i propri collaboratori).

A me in particolare Serena Dandini non è mai stata troppo simpatica; le riconosco un'innegabile verve, una vena lieve di spensieratezza che trovo incantevole in chiunque, ma mi irrita quel modo che ha spesso di urlare invece di parlare, il fatto che ormai si ripeta come un disco rotto - stessi gesti, stessi ammiccamenti, stessi tormentoni – e soprattutto il suo essere sempre così attenta a rispettare tutti i riferimenti culturali d'ordinanza (dai modi di dire ai gusti musicali, cinematografici, letterari, gastronomici etc.) per essere chic ma alternativa, sofisticata ma popolare, femminista ma non vetero-femminista, cosa che ai miei occhi la rende, non sempre ma spesso, un concentrato di incredibili e stancanti luoghi comuni e che, nei giorni in cui ho le paturnie, mi appare un vezzo incredibilmente snob che trovo particolarmente indigesto e mi ricorda le pastorellerie di Maria Antonietta e della sua noiosissima e annoiatissima corte (tra l'altro citata nel libro).

Ritrovare questi vezzi e questi luoghi comuni abbondantemente disseminati in 300 e passa pagine mi ha spesso indisposta e fatto alzare gli occhi al cielo; detto questo – e so di contraddirmi – Dai diamanti non nasce niente l'ho letto macinando pagine su pagine con un senso di incredibile, leggera euforia e un crescente buonumore. Sarebbe ingeneroso affermare che il merito del piacere che ho tratto da questo libro è da attribuirsi quasi esclusivamente al suo argomento (in questo momento della mia vita poche cose mi rallegrano e mi interessano di più che dedicarmi alle piante – anche nelle mie letture) e dunque non lo dirò: queste pagine nascono da una reale passione e da un sincero, autentico entusiasmo; difficile non lasciarsi gioiosamente contagiare se si condivide la stessa evidente fascinazione per la verdure che ha l'autrice.

Questo libro non è comunque un manuale di giardinaggio (rarissime e assai vaghe le indicazioni pratiche di qualunque sorta, dunque non acquistatelo se pensate di poter imparare qualcosa leggendolo), ma una raccolta di divagazioni e racconti: storie di celebri giardini, vite e gesta di fenomenali giardinieri – da Claude Monet a George Harrison, da Auguste Renoir al principe Caetani, dal mitico Peter Beales a Fabrizio De Andrè all'immancabile Vita Sackville West (con l'altrettanto immancabile riferimento a Virginia Woolf e alla di lei sorella che, vorrei dirlo alla signora Dandini, non mi risulta essere mai stata sposata con un artista di nome Ben, semmai con un critico d'arte di nome Clive Bell), più alcuni aneddoti personali più o meno interessanti; il tutto confezionato con un certo garbo e con levità, talmente tanta levità che – ne sono certa – tra qualche mese non mi resterà, di questo libro, alcun ricordo.


Serena Dandini, Dai diamanti non nasce niente, Rizzoli 2011.




martedì 3 aprile 2012

L'arte delle liste di Dominique Loreau

Difficile per me esprimere un giudizio su questo libro attraverso il sistema aNobiiano delle stelline; ma anche cercare di definirlo a parole mie non è impresa facile.

Pure, cimentandomici, il primo aggettivo che mi viene in mente è "pericoloso".

Per certi versi è un libro perfetto per me, per essere più precisi per quella parte di me che sogna da sempre di essere efficiente, organizzata, sempre in controllo quasi pressoché di tutto, dal contenuto del frigorifero alle vacanze, dalla programmazione delle faccende domestiche (stendiamo un velo pietoso sull'argomento, please) ai ricordi del passato, dalla collezione dei cd alla mia libreria (e benedetto sia aNobii per questo).

Perfetto, questo libro, lo è anche, e soprattutto (e qui sta il pericolo), per quel mio lato indubbiamente maniacale e morboso che ama le liste, appunto, gli elenchi, i cataloghi, i repertori, gli indici e gli archivi, e rischia di trovare soddisfazione e appagamento semplicemente nell'atto di catalogare e inventariare l'esistente, senza dover necessariamente farci i conti nella realtà dei fatti; quel lato che mi ha fatto sempre amare le biblioteche, i loro schedari cartacei compilati a mano da pazienti impiegati e consultati da studenti, professori universitari, laureandi, curiosi, il variegato mondo che popola queste meritevoli istituzioni (e che brutto che ora questi schedari siano dei freddi files da consultare utilizzando una tastiera e uno schermo, benché ovviamente ciò abbia semplificato enormemente la vita di chi vuole servirsene).

Ho da sempre l'abitudine di prendere appunti su quasi qualunque cosa e su quasi qualunque supporto: mi servo di scontrini, ricevute del bancomat, carte delle caramelle, fazzolettini del bar, dépliants, biglietti scaduti dell'autobus. Pur avendo un'agenda e molti taccuini di diverso formato e genere, difficilmente me ne servo per scriverci, preferendo loro – senza alcuna ragione intelligente, ma solo per pigrizia - tutti questi pezzetti di carta che finiscono, poi, immancabilmente, per perdersi, spiegazzati e dimenticati, nei misteriosi e inquietanti meandri della mia borsa.

Il sistema teorizzato dall'autrice per ovviare a questa incresciosa situazione (evidentemente sono in buona compagnia) è forse un po' troppo dettagliato e preciso per me, ma ragionevole se adattato alle mie possibilità e soprattutto alle mie esigenze.

E sebbene alcune liste mi siano francamente incomprensibili (“Scene di film romantici ambientati a New York sotto la neve”, “Varietà di muschio per il giardino”, “I favori che vorreste chiedere all'aldilà”, “Descrizione di un piccolo altare pieno di oggetti che rappresenti il centro del vostro io”, per citarne alcune), ce ne sono altre la cui compilazione potrebbe indubbiamente semplificarmi l'esistenza (penso a quelle riguardanti i viaggi e la preparazione della valigia, per me sempre un incubo), offrirmi prospettive inedite su questioni o problemi irrisolti, mettermi maggiormente in contatto con tutto il buono e il bello della mia vita, tenere traccia di momenti preziosi che possono rischiare di scivolare lentamente nell'oblio o quanto meno di appannarsi.

Che dire? Proverò.



Dominique Loreau, L'arte delle liste, traduzione di Ornella Ciarcià, Antonio Vallardi Editore 2012.