sabato 22 ottobre 2011

Della sindrome dell'accorta casalinga (o della donna pioniera) parte II o di una torta di nocciole

Ricordate? ve ne parlavo proprio poco tempo fa (qui il post).

Bene, stamattina, all'alba, sconquassata da fastidiosissimi e virulenti attacchi di tosse (bello l'autunno che è arrivato, non c'è che dire, io ne sono felicissima, ma proprio così doveva arrivare? Riducendomi quasi subito ad un mezzo catorcio? Fine della parentesi e della geremiade), pensavo che una vera accorta casalinga si vede anche dal modo in cui usa il freezer. Ma che razza di pensieri ha questa qui, appena sveglia, la mattina? vi starete chiedendo, forse. Eh, sapeste quante volte mi sono fatta questa domanda, e non di rado con un filo di preoccupazione.

Ma non divaghiamo.
La vera accorta casalinga ha con il freezer un rapporto intenso, quasi morboso. 
Il freezer, per lei, non è soltanto un elettrodomestico comodo che semplifica e molto la sua vita quotidiana.
Il freezer rappresenta, in modo concreto ma anche simbolico e potente, forse la summa delle qualità che l'accorta casalinga deve possedere: senso dell'economia, del risparmio, capacità di gestire in modo sensato le risorse, odio dello spreco, lungimiranza e ingegnosità.

Nel freezer non trovano spazio solo pranzi o cene già pronte (porzioni di sformati o di lasagne, per esempio), ma anche ingredienti base ed accessori strategici - ed ogni casalinga accorta ha i suoi.

Nel mio non manca mai, per esempio, un sacchetto contenenti gambi di sedano: c'è stato un periodo in cui il gas cui appartengo è stato letteralmente sommerso da sedani. La provvidenza ha voluto che io leggessi da qualche parte che i gambi si conservano ottimamente in freezer e tornano sempre comodi (almeno spero; ne ho una discreta quantità).

Nel mio freezer ci sono anche due barattoli, uno contenente buccia di limone e l'altro buccia d'arancia finemente grattugiate. Temevo la permanenza sotto zero li trasformasse in due blocchi di ghiaccio e invece grande è stata la meraviglia quando mi sono accorta che ogni singolo fiocco rimane separato, pronto a insaporire pressochè qualunque cosa - fosse per me, le metterei quasi ovunque.

Nel mio freezer ci sono, soprattutto, grandi quantità di sacchetti contenenti albumi.
Da quando, anni fa, ho letto che la grande Nigellona ne conserva diverse decine nel suo immenso freezer ("sembra una succursale della banca del seme", ha commentato lei, con la sua proverbiale finezza), lo faccio anch'io. 
Non si possono fare meringhe ogni due per tre - ed io poi con le meringhe ho un rapporto assai difficile - e lasciarli scivolare nel lavandino come se niente fosse (so che ci sono tante persone che lo fanno, con disinvoltura), giammai.

Ed ecco allora che, periodicamente, si impone una ricerca incrociata sui miei libri di cucina alla caccia di ricette che prevedano l'uso massiccio, magari su scala industriale, di albumi.

Questa torta ne usa ben 5; quando l'ho letta non credevo ai miei occhi: quale meravigliosa occasione per disfarsi di due-ben-due sacchetti di albumi!

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Gâteau léger aux noisettes da I love cake di Trish Deseine

(per una tortiera di circa 24 cm di diametro)

5 albumi
100 gr di burro fuso (nella ricetta originale: burro salato)
80 gr di nocciole in polvere (io prima le tosto appena, a secco, in un padellino)
100 gr di zucchero (nella ricetta originale: 150) 
75 gr di farina
zucchero a velo

Preriscaldate il forno a 200°. 
Foderate il fondo di una tortiera a cerniera e imburrate e infarinate i lati.

Montate gli albumi a neve.
Incorporate con delicatezza lo zucchero e le nocciole, poi la farina setacciata e infine il burro.

Versate il composto nella tortiera e cuocete per 15', passati i quali abbassate la temperatura a 150° e proseguite la cottura per altri 15'.

Aspettate che la torta sia tiepida prima di liberarla dalla tortiera e spolveratela di zucchero a velo.

La Spia - incredibile ma vero; di solito sono io ad avere di simili idee volgari - l'ha voluta farcita di una ganache al cioccolato. 
Ma questa torta è buona anche farcita di una buona marmellata di frutti di bosco o persino (ma siamo sicuri sia proprio io a dirlo?) così com'è, nature.

Enjoy!

(dimenticavo: se decideste di aprire anche voi la vostra casalinga succursale della banca del seme, ricordate di scrivere su ogni sacchetto quanti albumi vi sono contenuti.
Altra cosa: non abbiate paura di usare gli albumi surgelati, basta tirarli fuori dal freezer con congruo anticipo e lasciarli scongelare dolcemente, magari lasciando a bagno il sacchetto in un po' di acqua tiepida. Ma più di una volta, avendo deciso all'ultimo di usarli, ho utilizzato le maniere forti e li ho scongelati in pochissimo tempo immergendoli in una ciotola piena di acqua appena bollita. Non ne hanno risentito minimamente. La ragione fisico-chimica del perché si comportino in questo modo mi sfugge, ma non importa: io gliene sono molto grata, comunque, sì).

mercoledì 12 ottobre 2011

Di inquietudini e stagioni e di una (ennesima) torta di susine

"E poi è normale che uno si senta tutto sottosopra, se persino le stagioni fanno un po' quello che vogliono", diceva un signore l'altro giorno per la strada.

Adoro ascoltare i discorsi della gente per la strada, benché a volte mi deprimano alquanto; e la Spia mi fa notare che spesso non faccio neanche finta di niente ma mi metto lì, tutta concentrata, ad ascoltare, come se fossi coinvolta nella conversazione e magari guardo anche le persone con grande attenzione ed annuisco o faccio delle smorfie ad esprimere la mia perplessità; per fortuna la gente è spesso fin troppo distratta per accorgersene.

Vi sentite anche voi sottosopra? 
Inquieti, un po' svogliati, malmostosi, inclini ad addormentarvi ogni due per tre e quasi ovunque, spesso ostaggio di imprecisate paturnie?
Io abbastanza, grazie.
Il problema, però, non è che le stagioni fanno quello che vogliono, poverette, al contrario; e temo che in futuro sarà sempre più "normale" ritrovarsi a metà ottobre ancora con i sandali. 
Ad alcuni potrà piacere questa proroga estiva; a me parla di cicli naturali sempre più stravolti, una prospettiva che non suscita in me alcun pensiero positivo.

Ma stamattina, mentre attraversavo la città in sella alla mia fidata bici rossa (e con l'occasione ve la presento, si chiama Agata), ho sentito che l'autunno è davvero arrivato.
C'era il cielo grigio, un'arietta quasi fredda e un'atmosfera da "ritorno alla normalità".

Allora ho pensato, sempre in sella ad Agata, che questa ricetta fosse meglio postarla oggi, perché ho l'impressione che di susine in giro non ce ne saranno più per  molto - e che peccato.
E dunque, senza farla troppo lunga, eccola la ricetta, presa da un libro acquistato a Bruxelles, in una di quelle bellissime librerie dell'usato dove potrei stare per ore ed ore (e dove in effetti sto per ore ed ore, quando mi è possibile), un libro dal titolo infelicissimo di Tutti frutti, di Nina Dreyer Hensley, Jim Hensley e Paul Lowe, edito dalla Marabout nel 2002 e che, come si evince dal titolo, raccoglie ricette esclusivamente a base di frutta: il classico libro Marabout, con foto garbate, styling chic-campagnolo, ricette rapide.

Questa è la prima che provo e il risultato mi è piaciuto molto.

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Gâteau aux prunes

(per una tortiera di circa 24-25 cm di diametro)

6-7 susine, denocciolate
150 gr di burro
160 gr di zucchero (io ho usato, come al solito, il Golden Caster Sugar del commercio equo)
3 uova
60 gr di mandorle, tagliate non troppo finemente
1 cucchiaino di zucchero vanigliato
240 gr. di farina 0
2 cucchiaini di lievito per dolci
1 cucchiaino di cannella (non previsto dalla ricetta, ma ho scoperto che mi piace molto insieme alle susine)

Preriscaldate il forno a 180°.

Imburrate e infarinate una tortiera di circa 24 cm di diametro.

Mettete le susine nel robot da cucina e riducetele in purea.

Montate il burro con lo zucchero, aggiungete le uova una alla volta, la purea di susine, e il resto degli ingredienti.

In forno per circa 45-50': la prova dello stecchino vi aiuterà a capire quando la torta sarà pronta (lo stecchino deve essere asciutto).

Ecco qui o, per meglio dire, voilà, c'est tout.

Io la vedrei assai bene servita con la solita panna appena montata, ma è anche vero che io non faccio testo quando si parla di panna, la metterei un po' ovunque.

Enjoy!

venerdì 7 ottobre 2011

No alla legge bavaglio - post a rete unificata

Son giorni, questi, che in molti viviamo in preda all'inquietudine.

Ci sono tanti di quei motivi per essere inquieti, in questo disgraziatissimo paese.

Uno dei tanti, importantissimo, è proprio quello di cui parla questo post.
L'ho trovato nel blog di Wenny e lo riporto qui, sperando di poter fare la mia piccola parte in questo generoso movimento spontaneo di protesta e di controinformazione.

La rete, lo sappiamo, è un grande contenitore in cui c'è di tutto, dalla bellezza all'indecenza, dalla cultura alla spazzatura, dalla violenza al sublime, dal vero al falso.
Ma è un contenitore cui tutti possono accedere, liberamente.
E in cui tutti possono trovare, anche solo sviluppando un minimo di senso critico (che si può sviluppare, a me pare, solo in piena e completa libertà), non solo ciò che cercano ma anche ciò che non sapevano di cercare ma di cui hanno bisogno: informazioni, dati, elementi per costruirsi le proprie idee sul mondo e in più la possibilità - se solo lo si voglia - di confrontarsi con altre idee e prospettive, di ampliare i propri orizzonti, di arricchire in modo esponenziale il proprio piccolo bagaglio di esperienza umana.

Non è poco.
Per quanto anch'io, per prima, ogni tanto possa risentire la sua onnipresenza nella mia vita e la sua laocoonticità, la rete è una risorsa, preziosissima, come l'acqua o l'aria. 
E penso debba rimanere accessibile a tutti, uno strumento vero di emancipazione e conoscenza e direi anche, usando un'espressione tanto di moda oggi, di democrazia partecipata di cui solo il cielo sa quanto si ha bisogno adesso.

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Il disegno di legge di riforma delle intercettazioni ha un impatto significativo sulla rete?
Il ddl di riforma della normativa sulle intercettazioni influisce sulla rete in due modi, innanzitutto perché le limitazioni introdotte dal ddl in merito alla pubblicabilità degli atti di indagine riguarda, ovviamente, anche la rete, relativamente al giornalismo professionale, ma soprattutto perché in esso è presente il comma 29 che è scritto specificamente per la rete. Cosa prevede il comma 29? Il comma 29 estende parte della legislazione in materia di stampa, prevista dalla legge n. 47 del 1948, alla rete, in particolare l’art. 8 che prevede la cosiddetta “rettifica”.

Cosa è la rettifica?
La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere dei media unidirezionali e di bilanciare le posizioni in gioco. Nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, un semplice cittadino potrebbe avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie, e comunque ne trascorrerebbe molto tempo con ovvi danni alla sua reputazione. Per questo motivo è stata introdotta la rettifica che obbliga i direttori o i responsabili dei giornali o telegiornali a pubblicare gratuitamente le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti che si ritengono lesi.

Il comma 29 estende la rettifica a tutta la rete?
La norma in questione estende la rettifica a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”. La frase “ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica” è stata introdotta in un secondo momento proprio a chiarire, a seguito di dubbi sorti tra gli esperti del ramo che propendevano per una interpretazione restrittiva della norma (quindi applicabile solo ai giornali online), che la norma deve essere invece applicata a tutti i siti online. Ovviamente sorge comunque la necessità di chiarire cosa si intenda per “siti informatici”, per cui, ad esempio, potrebbero rimanere escluse la pagine dei social network, oppure i commenti alle notizie. Al momento non è dato sapere se tale norma si applicherà a tutta la rete, in ogni caso è plausibile ritenere che tale obbligo riguarderà gran parte della rete.

Entro quanto tempo deve essere pubblicata la rettifica inviata ad un sito informatico?
Il comma 29 estende la normativa prevista per la stampa, per cui il termine per la pubblicazione della rettifica è di due giorni dall’inoltro della medesima, e non dalla ricezione. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.

E’ possibile aggiungere ulteriori elementi alla notizia, dopo la rettifica?
Il ddl prevede che la rettifica debba essere pubblicata “senza commento”, la qual cosa fa propendere per l'impossibilità di aggiungere ulteriori informazioni alla notizia, in quanto potrebbero essere intese come un commento alla rettifica stessa. Ciò vuol dire che non dovrebbe essere nemmeno possibile inserire altri elementi a corroborare la veridicità della notizia stessa.

Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto?
La rettifica prevista per i siti informatici è sostanzialmente quella della legge sulla stampa, la quale chiarisce che le informazioni da rettificare non sono solo quelle contrarie a verità, bensì tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni “da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità”, laddove essi sono i soggetti citati nella notizia. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia. Non si tratta affatto, in conclusione, di una valutazione sulla verità, per come è congegnata la rettifica in sostanza si contrappone la “verità” della notizia ad una nuova “verità” del rettificante, con ovvio scadimento di entrambe le “verità” a mera opinione (Cassazione n. 10690 del 24 aprile 2008: “l’esercizio del diritto di rettifica… è riservato, sia per l’an che per il quomodo, alla valutazione soggettiva della persona presunta offesa, al cui discrezionale ed insindacabile apprezzamento è rimesso tanto di stabilire il carattere lesivo della propria dignità dello scritto o dell’immagine, quanto di fissare il contenuto ed i termini della rettifica; mentre il direttore del giornale (o altro responsabile) è tenuto, nei tempi e con le modalità fissate dalla suindicata disposizione, all’integrale pubblicazione dello scritto di rettifica, purché contenuto nelle dimensioni di trenta righe, essendogli inibito qualsiasi sindacato sostanziale, salvo quello diretto a verificare che la rettifica non abbia contenuto tale da poter dare luogo ad azione penale”).

Come deve essere inviata la richiesta di rettifica?
La normativa non precisa le modalità di invio della rettifica, per cui si deve ritenere utilizzabile qualunque mezzo, fermo restando che dopo dovrebbe essere possibile provare quanto meno l’invio della richiesta. Per cui anche una semplice mail (non posta certificata) dovrebbe andare bene.

Cosa accade se non rettifico nei due giorni dalla richiesta?
Se non si pubblica la rettifica nei due giorni dalla richiesta scatta una sanzione fino a 12.500 euro.

Che succede se vado in vacanza, mi allontano per il week end, o comunque per qualche motivo non sono in grado di accedere al computer e non pubblico la rettifica nei due giorni indicati?
Queste ipotesi non sono previste come esimenti, per cui la mancata pubblicazione della rettifica nei due giorni dall’inoltro fa scattare comunque la sanzione pecuniaria. Eventualmente sarà possibile in seguito adire l’autorità giudiziaria per cercare di provare l’impossibilità sopravvenuta alla pubblicazione della rettifica. È evidente, però, che non si può chiedere l’annullamento della sanzione perché si era in “vacanza”, occorre comunque la prova di un accadimento non imputabile al blogger.

La rettifica prevista dal comma 29 è la stessa prevista dalla legge sulla privacy?
No, si tratta di due cose ben diverse anche se in teoria ci sarebbe la possibilità di una sovrapposizione parziale. La legge sulla privacy consente al cittadino di chiedere ed ottenere la correzione di dati personali, mentre la rettifica ai sensi del comma 29 riguarda principalmente notizie.

Con il comma 29 si equipara la rete alla stampa?
Con il suddetto comma non vi è alcuna equiparazione di rete e stampa, anche perché tale equiparabilità è stata più volte negata dalla Cassazione. Il comma 29 non fa altro che estendere un solo istituto previsto per la stampa, quello della rettifica, a tutti i siti informatici.

Con il comma 29 anche i blog non saranno più sequestrabili, come avviene per la stampa?
Assolutamente no, come già detto con il comma 29 non si ha alcuna equiparazione della rete alla stampa, si estende l’obbligo burocratico della rettifica ma non le prerogative della stampa, come l’insequestrabilità. Questo è uno dei punti fondamentali che dovrebbe far ritenere pericoloso il suddetto comma, in quanto per la stampa si è voluto controbilanciarne le prerogative, come l’insequestrabilità, proprio con obblighi tipo la rettifica. Per i blog non ci sarebbe nessuna prerogativa da bilanciare.

Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false?
E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri.

Se ritengo che la rettifica non sia dovuta, posso non pubblicarla?
Ovviamente è possibile non pubblicarla, ma ciò comporterà certamente l’applicazione della sanzione pecuniaria. Come chiarito sopra la rettifica non si basa sulla veridicità di una notizia, ma esclusivamente su una valutazione soggettiva della sua lesività. Per cui anche se il blogger ritenesse che la notizia è vera, sarebbe consigliabile pubblicare comunque la rettifica, anche se la stessa rettifica è palesemente falsa.

Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica, il titolare del dominio, il gestore del blog?
Questa è un’altra problematica che non ha una risposta certa. La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi è il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso.

Sono soggetti a rettifica anche i commenti?
Anche qui non è possibile dare una risposta certa al momento. In linea di massima un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento non dovrebbe essere soggetto a rettifica.

Pensavo di creare un widget che consente agli utenti di pubblicare direttamente la loro rettifica senza dovermi inviare richieste. In questo modo sono al riparo da eventuali multe?
Assolutamente no, la norma prevede la possibilità che il soggetto citato invii la richiesta di rettifica e non lo obbliga affatto ad adoperare widget o similari. Quindi anche l’attuazione di oggetti di questo tipo non esime dall’obbligo di pubblicare rettifiche pervenute secondo differenti modalità (ad esempio per mail).

Pensavo di aprire un blog su un server estero, in questo modo non sarei più soggetto alla rettifica?
Per non essere assoggettati all’obbligo della rettifica è necessario non solo avere un sito hostato su server estero, ma anche risiedere all’estero, come previsto dalla normativa europea. E, comunque, anche la pubblicazione di notizie su un sito estero potrebbe dare adito a problemi se le notizie provengono da un computer presente in Italia.

E’ vero che in rete è possibile pubblicare tutto quello che si vuole senza timore di conseguenze? E’ per questo che occorre la rettifica?
Questo è un errore comune, ritenere che non vi sia alcuna conseguenza a seguito di pubblicazione di informazioni o notizie online, errore dovuto alla enorme quantità di informazioni immesse in rete, ovviamente difficili da controllare in toto. Si deve inoltre tenere presente che comunque l’indagine penale od amministrativa necessita di tempo, e spesso le conseguenze penali od amministrative a seguito di pubblicazioni online, si hanno a distanza di settimane o mesi. In realtà alla rete si applicano le stesse medesime norme che si applicano alla vita reale, anzi in alcuni casi la pubblicazione online determina l’aggravamento della pena. Quindi un contenuto in rete può costituire diffamazione, violazione di norme sulla privacy o sul diritto d’autore, e così via… Il discorso che spesso si fa è, invece, relativo al rischio che un contenuto diffamante possa rimanere online per parecchio tempo. In realtà nelle ipotesi di diffamazione o che comunque siano lesive per una persona, è sempre possibile ottenere un sequestro sia in sede penale che civile del contenuto online, laddove l’oscuramento avviene spesso nel termine di 48 ore.

Ho letto di un emendamento presentato da alcuni politici che dovrebbe risolvere il problema della rettifica. È un buon emendamento?
Già lo scorso anno fu presentato un emendamento da alcuni parlamentari, che sostanzialmente dovrebbe essere riproposto quest’anno, con qualche modifica. In realtà l’emendamento Cassinelli, dal nome dell’estensore, non migliora di molto la norma: allunga i termini della rettifica a 10 giorni, stabilisce che i commenti non sono soggetti a rettifica, e riduce la sanzione in caso di non pubblicazione. L’allungamento dei termini non è una grande conquista, in quanto l’errore di fondo del comma 29 è l’equiparazione tra rete e stampa, cioè tra attività giornalistica professionale e non professionale, compreso la mera manifestazione del pensiero, tutelata dall’art. 21 della Costituzione, esplicata dai cittadini tramite blog. Per i commenti la modifica è addirittura inutile in quanto una lettura interpretativa dovrebbe portare al medesimo risultato, anzi forse sotto questo profilo l’emendamento è peggiorativo perché invece di “siti informatici” parla di “contenuti online” con una evidente estensione degli stessi (pensiamo alle discussioni nei forum). Tale emendamento viene giustificato con l’esempio del blogger che scrive: “Tizio è un ladro”, ipotesi nella quale, si dice, Tizio ha il diritto di vedere rettificata la notizia falsa. Immaginiamo invece che Tizio effettivamente sia un ladro, la rettifica gli consentirebbe di correggere una notizia vera con una falsa. Se davvero Tizio non è un ladro, invece, non ha alcun bisogno di rettificare, può denunciare direttamente per diffamazione il blogger ed ottenere l’oscuramento del sito in poco tempo.

Ma in sostanza, quale è lo scopo di questa norma?
Una risposta a tale domanda è molto difficile, però si potrebbe azzardarla sulla base della collocazione della norma medesima. Essendo inserita nel ddl intercettazioni, potrebbe forse ritenersi una sorta di norma di chiusura della riforma, riforma con la quale da un lato si limitano le indagini della magistratura, dall’altro la pubblicazione degli atti da parte dei giornalisti. Poi, però, rimarrebbe il problema se un giornalista decide di aprire un blog in rete e pubblicare quelle intercettazioni che sul suo giornale non potrebbe più pubblicare. Ecco che il comma 29 evita questo possibile rischio. 



sabato 1 ottobre 2011

Di vincitori (senza vinti)

Ed ecco dunque la vincitrice, il numero 5, cioè Dede.

Devo ammettere che ho provato una qualche emozione nell'inserire i numeri e nel vedere apparire, in un nanosecondo, quello selezionato.

Come da tradizione, stasera preparerò la confezione nella quale spedire il bracciale (la suocera direbbe "la vestina") e poi, con la consueta trepidazione ma anche con molta gioia, libererò anche questa mia creatura per le vie del mondo!

Dede, ricordami di scriverti il tuo indirizzo!

Grazie a tutte per avere partecipato e soprattutto grazie per aver raccontato qualcosa di voi: ho gustato ogni vostra storia, davvero. Mi avete fatto capire, ancora una volta, che benché sia io qui a parlare e a scrivere, a cantarmela e a suonarmela, mi piace assai di più starvi ad ascoltare.

sabato 24 settembre 2011

Di un anniversario, di cose nuove e di un giveaway

Qualche giorno fa, mi sono accorta che c'era stato un anniversario, passato sotto silenzio.

Un po' perché ho una memoria non corta, cortissima (e di questi tempi mi sembra si sia ulteriormente accorciata).

Un po' perché sono appena tornata dalle vacanze, che per me, anche se brevi brevi come queste appena fatte, segnano sempre un'interruzione della quotidianità - per quanto gradita - dopo la quale è difficile riprendere le fila del discorso; come quando, durante una conversazione, aprite una parentesi - e anche più di una, se siete come me - e dopo un po' non ricordate più che cosa stavate dicendo, non vi raccapezzate e fate la figura della vispa Teresa.

Ecco, appunto. Dicevamo?
L'anniversario, già. 
L'anniversario del piccolo shop che, secondo Etsy, ho aperto esattamente il 20 settembre di un anno fa.

Io però ricordo bene che quel giorno, su Etsy, ho semplicemente aperto il mio account. 
È seguito poi un periodo imprecisato - almeno una settimana, forse anche di più - in cui ho cercato di capire come funzionasse tutto l'ambaradan, compresi annessi e connessi. Ne parlavo qui.

Dunque per me questo anniversario deve ancora arrivare ed essendo il primo penso vada festeggiato, anche perché quest'anno che è trascorso è stato molto interessante e fruttuoso.

Prima di tutto perché sono entrata in contatto con molte persone, e non solo clienti, che mi hanno incoraggiata, consigliata, hanno espresso opinioni, gusti, perplessità, dubbi, curiosità e mi hanno nel frattempo raccontato ricordi, storie, condividendo pensieri, intimità, vita.
A tutte queste persone dico grazie, semplicemente: il loro contributo è davvero incommensurabile, ed io voglio che lo sappiano.

Poi perché ho imparato molte cose, e non solo come fare monachelle o chiusure: ho imparato quanto ci sia da imparare ogni giorno, quanto mi piaccia avere ogni giorno qualcosa da imparare, quanto ogni cosa, anche una piccola piccola come questa mia piccolissima attività, se solo lo si voglia, possa diventare una fonte pressoché inesauribile di crescita.
E questo compensa tutti quei momenti - per fortuna pochissimi - in cui mi pare di smarrire un po' la direzione e il senso di ciò che sto facendo, perché ci sono anche questi momenti e forse è giusto così, per controbilanciare quelli in cui il divertimento che provo nel fare queste cose è tale da inchiodarmi al tavolo da lavoro anche ore ed ore, facendomi quasi dimenticare di mangiare - quasi - e la mia proverbiale impazienza.

E allora, per festeggiare questo primo anno di persone, cose ed esperienze nuove, ho deciso di fare una cosa che non avevo mai fatto, un giveaway - ma che brutto nome, ammettiamolo - con un bracciale nuovo nuovo, nato in giorni di grandi pensamenti (diciamo pippe mentali e facciamo prima) e patimenti (piacerà? sarà comodo? sarà portabile? si romperà dopo 20 minuti?), la cui visione e progettazione mi ha accompagnato durante tutta la mia vacanza, mentre facevo il bagno e mentre leggevo i racconti di Cechov (che meraviglia; chiusa parentesi), mentre mangiavo il gelato e mentre guardavo le barche nel porto al tramonto, e la cui realizzazione mi ha fatto penare un po'. 

Ma ora è qui, mi piace talmente tanto che ho già deciso che ne farò una collana che metterò nello shop, ed è esattamente come volevo che fosse: volevo che avesse a che fare con l'autunno, la mia stagione preferita (la decorazione-chiusura a forma di foglia; il verde marcio del nastro di alcantara e della rondella di acquamarina); volevo che fosse semplice, essenziale e soprattutto volevo che fosse una cosa che non avevo mai fatto.

Mi piace imparare, l'ho detto.
E mi piacciono le novità. Anche se all'inizio le accolgo sempre con incertezza (con paura, a volte, e diffidenza), pensando subito di non riuscire ad affrontarle e poi quasi sempre mi faccio prendere dall'entusiasmo e mi butto a capofitto, incosciente.

E allora, per tornare a questo giveaway: sapete tutti come funziona. 
Lasciate un commento e, se vi va, raccontate di qualcosa di nuovo che avete fatto per la prima volta quest'anno: e non vi preoccupate se non avete al vostro attivo imprese epiche (ma se sì, raccontate, raccontate!): a me - e dovrebbe esser chiaro - piacciono soprattutto le storie piccole, domestiche, quotidiane.

Il 1 di ottobre estrarrò il vincitore (sempre se capisco come funzionano quei generatori random che in genere vengono usati in queste circostanze; magari qualcuno può darmi qualche indicazione, così facciamo prima?).

Ed ora vi lascio: il tavolo da lavoro mi chiama.

martedì 6 settembre 2011

Della sindrome dell'accorta casalinga (o della donna pioniera) e di una torta di susine

In estate, è difficile, per me, non farmi prendere dalla sindrome dell'accorta casalinga (o della donna pioniera).

Una sindrome che prevede, tra i sintomi, una preoccupante tendenza ad accumulare chili e chili di verdure e frutta, acquistati con l'intenzione di farne conserve e marmellate con cui riempire, con ordine e precisione, le mensole del mobile di legno che è in dispensa (badate bene che qui la parola chiave è "intenzione"). 

Tra i sintomi può presentarsene anche uno, particolarmente preoccupante: chi è affetto dalla suddetta sindrome può ritrovarsi quasi senza accorgersene nella suddetta dispensa a rimirare con espressione sognante gli eventuali risultati dei suoi attacchi, vale a dire barattoli e barattolini, e a sistemarli, spostandoli impercettibilmente di pochi millimetri, seguendo personalissimi (ed imperscrutabili, per chi osservi dall'esterno la scena) disegni di ordine e simmetria. 

Per fortuna, però, la sindrome dell'accorta casalinga (o della donna pioniera) non mi colpisce sempre.
In genere provoca un attacco abbastanza serio all'inizio della stagione, a causa della visione quasi quotidiana dei banchi del mercato rionale traboccanti di montagne di frutta (mi manca molto la frutta in inverno, perché io amo soprattutto quella estiva), rimane allo stato dormiente per quasi tutta l'estate e si manifesta poi con un altro attacco (eventualmente due) in coda.

Quest'anno è andata abbastanza bene.
Mi sono soprattutto sbizzarrita con le susine. A parte le consuete tonnellate di confettura (fatta anche l'anno scorso, come scrivo qui), la frutta acquistata è stata soprattutto mangiata, lì per lì, specialmente a metà mattina, quando nel mio stomaco sembra crearsi una voragine - succede solo a me? - oppure, come nel caso del post di oggi, trasformata in un'ottima torta.

Due parole su questa ricetta: proviene da uno dei libri di cucina più belli che mai mi sia capitato di sfogliare e leggere, The Book of Jewish Food di Claudia Roden (e grazie, Stefano, per avermelo fatto conoscere).
Non si tratta solo di una pregevole raccolta di ricette della tradizione gastronomica ebraica o, meglio sarebbe dire, delle tradizioni gastronomiche ebraiche, perché le comunità ebraiche nel mondo sono tante e, accanto ai piatti comuni, tante sono anche le varianti nate dalle interessanti contaminazioni con la cultura locale ed infinite quelle suggerite dalla storia di ogni singola famiglia, com'è giusto che sia.

Questo è anche un libro di storia e di antropologia, una ricerca multidisciplinare interessante anche per chi (e parlo in primis per me) non sia mai stato particolarmente incuriosito dal mondo ebraico. Insomma, è un libro vero (tanto per riprendere il discorso dell'ultimo post...).

Infine un'ultima cosa, prima di passare agli ingredienti.
Nel fare questa torta ho commesso un errore, utilizzando tutto lo zucchero previsto per la preparazione della pasta ed aggiungendone poi un paio di cucchiai a parte sulle susine tagliate e messe sopra. Le indicazioni prevedono invece che per la pasta venga utilizzata solo metà dello zucchero e che l'altra metà sia distribuita poi sulle susine.

Non mi pare che l'errore abbia pregiudicato il risultato finale, anzi, soprattutto nel caso in cui le susine non siano particolarmente aspre- come quelle che ho usato io.
Ma se volete seguire la ricetta originale, ricordatevene.


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Torta di susine (la Roden dice che si tratta di una popolare ricetta tedesca)

125 gr di zucchero (io ho usato il Golden Caster Sugar del commercio equo)
175 gr di farina autolievitante (o la stessa quantità di farina 0 con 1/2 cucchiaino di lievito)
75 gr di burro
1 uovo, piccolo, appena sbattuto
1 cucchiaio di cognac
750 gr di susine, denocciolate e tagliate a metà

Preriscaldate il forno a 190°.

Se volete seguire la ricetta originale, preparate la pasta con metà dello zucchero, la farina e il burro: mettete questi tre ingredienti nella coppa del robot da cucina e con la funzione pulse riduceteli a un composto sabbioso.

Aggiungete l'uovo e il cucchiaio di cognac. Appena comincia ad ammassarsi tirate fuori l'impasto e lavoratelo con le mani quel tanto che basta per metterlo insieme.

Prendetene poi dei pezzi e (procedura geniale!) distribuiteli su una teglia (non è necessario che sia imburrata) schiacciandoli con le dita. Io ho usato una teglia da 28 cm di diametro e sono riuscita a coprirla tutta: la Roden raccomanda di usarne una da 25 cm, dunque immagino lo strato di pasta debba essere più spesso di quello che è venuto a me.

A questo punto disponete le susine, parte tagliata verso l'alto, sopra la pasta: tenete presente che durante la cottura diminuiranno di volume, dunque non preoccupatevi se vi sembrano troppe e ammassatele ben bene.

Infine, sempre se volete seguire la ricetta originale, cospargetele della metà dello zucchero che vi è rimasta. Altrimenti, se seguite il mio errore, meno di due cucchiai di zucchero saranno sufficienti.

Cuocete per circa 50': le susine saranno morbide e raggrinzite, la pasta dorata e avrà fatto, qua e là, capolino.

La torta è splendida tiepida (e la prossima volta nessuno mi vieterà di servirla con un po' di panna leggermente montata, o con un gelato di crema), ma anche il giorno dopo ha il suo perché, come possono confermare la Spia e la gatta Linda, che - abbiamo scoperto - ne è ghiottissima.

Enjoy!

mercoledì 31 agosto 2011

Di oziose invettive, di impaziente avidità e di un gelato allo zabaione

Mi sono a lungo interrogata sull'opportunità o meno di pubblicare questa ricetta.

Prima di tutto per via della sua provenienza. 
In questo blog ho sempre cercato di parlare di ricette tratte da libri di cucina, oggetti per i quali - dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro - ho una passione smodata virante, temo sia assodato, al patologico.

Questo blog, in effetti, è nato soprattutto, all'inizio, come spazio in cui parlare di libri, di quelli che mi piace leggere e di quelli che mi piace usare sia in cucina sia nelle mie scoordinate ma felici incursioni nel mondo del craft.

Tra l'altro i libri di cucina che si pubblicano oggi sono anche, spesso, libri da leggere. 
O meglio.
Diciamo che va molto di moda pubblicarli e presentarli come libri anche da leggere (e la frase spesso utilizzata è ne vorrete una copia in cucina e una per il vostro comodino, o qualcosa di molto simile), come se ci fosse qualcosa di disdicevole nel proporre un onesto manuale.

Sia ben chiaro.
Io amo molto - e l'ho detto più volte - i libri che uniscono ricette e ricordi, divagazioni e brevi saggi.
Il fatto è che assai raramente ci si trova tra le mani testi scritti con garbo sufficiente per essere effettivamente letti con piacere e senza digrignare i denti di fronte alla disinvoltura con cui - in nome della spontaneità e della commistione dei generi - chi li scrive maltratta la lingua italiana.  
Ma questo è un altro discorso, fatto ad abundantiam in altre sedi e non è il caso di ripeterlo anche qui.

Comunque, la ricetta di oggi non è presa da un libro, ma (con molta libertà) da un opuscolo di Sale & Pepe, acquistato in edicola più o meno un mese fa, dal titolo (per me orrido) Dolci da brivido.

Esistono scuole di pensiero differenti su quella che è forse tra le più note riviste di cucina di questo disgraziato paese. Ci sono fierissimi detrattori e grandi, entusiasti sostenitori. I primi non eseguirebbero nemmeno sotto tortura neanche una ricetta tratta da quelle pagine; i secondi non accettano che si muova neanche la più lieve critica a quello che considerano quasi un testo sacro - anche se pubblicato a puntate mensili e acquistabile in edicola, come un romanzo d'appendice.

Io ne ho acquistati gli ultimi 5-6 numeri, per farmi un'idea.
Per certi versi la trovo una bella rivista: è colorata, con un layout elegante, chiaro, fotografie comme il faut (e con questo intendo come van di moda oggi, stile Donna Hay, per intendersi) e le ricette sembrano essere eseguibili da qualunque "cuciniere" medio. Molte poi sono estremamente appetibili - almeno per me.

Ma non c'è numero la cui lettura non mi trasformi prima o poi in una piccola erinni, quando mi imbatto in certe espressioni che ormai han fatto scuola e si leggono più o meno ovunque si parli di cucina.
Nelle pagine di Sale & Pepe, infatti, è tutto un fiorire di termini come scioglievolezza, leccornia, bocconcino e di aggettivi leziosi come ghiotto, delizioso, goloso, gustoso, stuzzicante, sfizioso - progenitori di tutti quei coccoloso, profumoso, sofficioso, cioccolatoso etc. che si trovano a iosa nel web.

Abbondano poi le frasi fatte noiose e ripetitive: la dolcezza è sempre irresistibile, la leggerezza ghiotta, il sapore sorprendente, l'antipasto raffinato (o chic).

Che noia. E che fastidio.

Lo so che l'importante è che le ricette siano affidabili e scritte chiaramente - e mi sembra che da questo punto di vista si possano muovere poche obiezioni alla rivista.
Ma perché, mi chiedo, non limitarsi a questo - che è già tanto, e meritevole - evitando di creare uno stile che secondo me ha fatto più danni che la grandine? Non era possibile trovare un'alternativa meno ingessata e raggelante alla pur mitica La cucina italiana senza per forza cadere nel bamboleggiante e nello stucchevole?

Fine dell'(oziosa) invettiva.

Il secondo motivo che mi induceva ad esitare fino ad oggi è che la fotografia ritrae - è evidente - una tazzina vistosamente vuota.

Il gelato allo zabaione (fatto partendo dalla ricetta di questo opuscolo, poi modificata in corso d'opera e meticciata con altre ricette) è venuto in effetti così bene che non siamo riusciti, né io né la Spia, a fermarci in tempo per immortalarlo ancora intonso.

Tutto sommato, però, a ben pensarci, non c'è prova migliore della sua bontà: un inglese probabilmente commenterebbe col noto The proof is in the pudding.


****

Gelato allo zabaione

3 rossi
100 gr di zucchero
250 ml di latte
50 ml di marsala
150 ml di panna


Battete con le fruste i rossi con lo zucchero fino ad ottenere un composto liscio e chiaro, a "nastro".

In un pentolino riscaldate il latte senza farlo bollire.

Aggiungetene un mestolo al composto di uova e zucchero, sempre mescolando con le fruste (alla velocità minima), poi un secondo mestolo, infine tutto quel che resta. Mescolate e versate tutto di nuovo nel pentolino in cui avete scaldato il latte, cuocendo a fuoco basso-medio fino a quando la crema non veli il cucchiaio (circa 8 minuti? più o meno).

Spegnete e lasciate raffreddare. È possibile che la crema, lasciata a se stessa per un po', formi la pelle e risulti granulosa: niente panico. È pratica assai eterodossa e verrò sicuramente tacciata di eresia, ma io in questi casi ricorro felicemente al frullatore ad immersione: pochi secondi e la crema è di nuovo liscia, perfetta.

A quel punto aggiungete il marsala.

Poi montate la panna (non esagerate) e aggiungetela delicatamente al composto.

Se usate la gelatiera, mettete tutto nel cestello e tenete presente che il liquore allungherà senz'altro i tempi di preparazione (nella mia ci son voluti 45 minuti buoni invece che i soliti 20-25); se non avete la gelatiera, preparatevi al balletto i cui passi principali sono: mettere nel freezer per due ore, tirare fuori dal freezer, frullare con le fruste, rimettere nel freezer, tirare fuori dal freezer etc etc per almeno un paio di volte (se non tre).

Ma alla fine avrete un gelato allo zabaione stupefacente, quasi più buono di quello che si trovava dentro il Cucciolone.

Enjoy!

sabato 27 agosto 2011

La felicità domestica di Lev Tolstòj

Che un uomo di 29 anni abbia potuto partorire un libro come questo è stupefacente; che abbia potuto dare una voce tanto credibile, sincera e autentica ad una giovane donna che per la prima volta si apre al mistero dell'amore, ha - per me - del miracoloso: nell'esame attento (e rispettoso, e non paternalistico; altro miracolo) delle emozioni, spesso complesse e confuse, che accompagnano la nascita di un sentimento, il suo fiorire e maturare, il suo trasformarsi – attraverso il doloroso passaggio della delusione e della disillusione - da passione estatica ed esclusiva in affetto profondo e finalmente scevro di ogni proiezione e finzione più o meno inconscia, si sentono vibrare tutta l'intelligenza, la sensibilità, l'incredibile acutezza e maturità del giovane Tolstòj.

Come è vero e reale (e giusto e provvidenziale, aggiungerei io) il naturale ridimensionamento reciproco che avviene in ogni relazione (perché di questo, soprattutto, parla questa storia): da divinità fulgida e tanto magnanima da ritenerci meritevoli del suo amore, l'altro torna - finalmente e per fortuna - ad essere l'essere umano imperfetto che è, quello stesso essere umano imperfetto che siamo anche noi e che torniamo ad essere ai suoi occhi; com'è difficile accettare tutto questo senza disamorarsi e senza perdere l'amore dell'altro; com'è difficile - e per alcune persone penoso, quasi impossibile - accettare senza smarrirsi che niente rimanga identico, che i sentimenti con il tempo sembrino perdere intensità, vita, sangue.

Ci vuole a volte una vita, insieme o da soli, per arrivare a capire che solo allora essi mettono radici solide e sane, acquistano potenza e vigore e sostengono grandi, pacifici e fruttuosi alberi, non fulgidi, profumatissimi ma traballanti e fragili arbusti di rose.


Lev Tolstòj, La felicità domestica, traduzione di Serena Prina, Oscar Mondadori 2008.

martedì 23 agosto 2011

Arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern

Poco più di 100 pagine di grande bellezza.

Un catalogo "estetico-sentimentale" - per dirla con le parole dello stesso Rigoni Stern - che raccoglie informazioni, descrizioni, notizie, curiosità, leggende e miti su alcuni rappresentanti del "grande popolo degli alberi". 


E poi ricordi di infanzia, di guerra, di amicizia, di famiglia: ad ogni ramo, foglia, frutto si intrecciano storie, divagazioni, aneddoti, curiosità e la denuncia, a tratti sommessa e malinconica, quasi commossa, a tratti indignata e vibrante, delle innumerevoli, stupide e turpi violenze cui questi giganti della terra sono sottoposti giornalmente dalle brutture della speculazione edilizia, dell'ignoranza, del disamore improvvido per quella che rimane, sempre e comunque, la nostra unica, vera risorsa: la natura.


Un arboreto selvatico, dunque, ma anche "salvatico", cioè salvifico - come spiega l'autore - perché dove ci sono la conoscenza, la consuetudine e la familiarità con la natura necessariamente si fanno strada l'amore, il rispetto, la cura, l'attenzione.

E quante parole nuove, mai sentite, mai lette, dal suono bellissimo, dalle assonanze misteriose ed evocative, da ripetersi sottovoce, come una filastrocca: disàmare, stipole, carpello, glomeruli...

Per me, cittadina al 100% che non sa riconoscere un tiglio da un pioppo, un castagno da un acero (e comincia a crucciarsene), una splendida lettura.


Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1996.
 

lunedì 22 agosto 2011

Di idiosincrasie alimentari, della maturità e di un'insalata di peperoni arrosto

Delle idiosincrasie alimentari mie e della Spia ho parlato a lungo e spesso.

È un vero peccato (e causa di diverse piccole e grandi difficoltà logistiche) il fatto che raramente esse coincidano, anzi.

Ma dopo 12 anni di convivenza stiamo lentamente imparando a non scandalizzarci più di fronte alle manifestazioni della diversità dei nostri gusti - per quanto la Spia non riesca, se non assai raramente, a resistere alla tentazione di dire con voce disgustata "Che puzza di aceto!" ogni volta che mi vede, non dico aprire e versare, ma prendere dalla dispensa una bottiglia di aceto (di qualunque aceto; ne ho diversi, perché li amo molto).

Ci sono alcuni cibi che ho rinunciato da tempo a comprare (per esempio il gorgonzola, di cui vado matta ma la cui sola presenza nel frigo - anche se sigillato - getta la Spia in uno stato ora di panico ora di prostrazione) e piatti che gusto solo se qualche anima pia di mia conoscenza me li prepara sapendo che ne sono ghiotta ma che non li mangio magari da anni.

Ne cito alcuni, così, en passant, nella speranza che qualcuno che passi di qui se ne ricordi nel caso in cui volesse invitarmi a mangiare a casa sua: la francesina (un piatto tradizionale della mia famiglia a base di cipolle, pomodoro e aceto), l'insalata russa, la lingua in salsa verde, le alici marinate, le zucchine in carpione e mi fermo qui, ché mi sta prendendo la malinconia.

Per anni, pur amandoli alla follia, non ho comprato peperoni: il loro odore è uno tra i più potenti repellenti anti-Spia che si conoscano. Poi un giorno, non ricordo perché (forse la Spia mi aveva fatto arrabbiare, chissà), mi son ritrovata al supermercato con due bei peperoni rossi nel carrello, decisa a cucinarmeli.

La Spia, alla loro vista, è quasi svenuto, non poteva credere a ciò che vedeva e mi ha guardato con gli occhi azzurri pieni di addolorato sconcerto: questo acquisto significava forse che non gli volevo più bene?

È passato qualche anno da allora e svariati chili di peperoni sono transitati per la nostra cucina.
Non c'è volta in cui li prepari che non arrivi prima o poi il solito commento: "Che puzza di peperoni".
Ma io ho imparato ad ignorarlo e a non farmene innervosire: lo considero una sorta di innocuo e involontario tic; dal canto suo, la Spia ha finalmente compreso che l'insalata di peperoni arrosto non è né il barometro che segna il grado di salute della nostra relazione né un modo piuttosto ambiguo e contorto (e particolarmente crudele) di dirgli che non gli voglio più bene. 

E questo, mi piace crederlo, è uno dei tanti modi, tutti nostri, di vivere insieme la maturità.

****

Insalata di peperoni arrosto con feta e mandorle da Nigella Bites di Nigella Lawson

(per 3-4 persone o una Papera molto affamata o in crisi d'astinenza da peperoni)

4 peperoni rossi
50 gr di feta (ma regolatevi voi, a gusto)
succo di limone
sale e pepe
olio d'oliva
mandorle (io preferisco quelle intere con la pelle, ma ogni tanto uso anche quelle spellate e persino quelle a scaglie)
prezzemolo fresco

Preriscaldate il forno a 230°. Quando è pronto infilateci dentro una teglia coperta con un foglio di carta da forno su cui avrete adagiato i peperoni.

Lasciate cuocere per circa 45' (volendo a metà cottura potete girarli, ma io non l'ho mai fatto): i peperoni dovranno essere belli abbrustoliti e morbidissimi.  Indi tirateli fuori e metteteli in una ciotola capiente che poi coprirete con della pellicola. Lasciateli lì quanto volete: sarà più facile poi spellarli.

Dopo averli spellati e puliti (cioè privati dei semi e del picciolo), tagliateli a falde e metteteli sul piatto di portata: sbriciolatevi sopra la feta, condite con sale (poco), pepe, del succo di limone e dell'olio d'oliva.
Aggiungete le mandorle e il prezzemolo (io a volte non ne uso, non lo amo moltissimo, ma in effetti è una bella aggiunta che dà più carattere e allegria al piatto).

Assaggiate, aggiustate di sale, limone, olio o quant'altro vi sembri necessario aggiungere e portate in tavola.
A volte, invece del limone, uso (per fare ancora più contento la Spia!) dell'aceto balsamico.

Enjoy!

mercoledì 17 agosto 2011

Il giardino che è la nostra vita di Geri Larkin

Geri Larkin pratica il buddhismo da quasi 30 anni e da 10 dirige un proprio centro di meditazione a Detroit; in più ha lavorato per anni in un vivaio: da queste due esperienze è nata l'ispirazione per questo libro, che io pensavo essere una sorta di manuale zen di giardinaggio o un testo di filosofia zen in chiave "verde".

L'immagine del giardino come correlativo oggettivo del proprio sé, come luogo da coltivare, curare, seguire e dei cui frutti godere, non è tra le più originali, ma è di sicuro tra le più suggestive e affascinanti.

Il giardino come spazio fisico dove ci si sporca le mani e si suda, dove ci si ferisce con spine e attrezzi taglienti e si combattono, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, mille piccole e strenue battaglie: contro i parassiti, contro le infestanti, contro gli effetti nefasti degli elementi avversi.

Il giardino, anche e soprattutto, come spazio spirituale, luogo di epifanie di straordinaria, numinosa bellezza e di fragile e commovente splendore, in cui intessere, con pazienza e tenacia, un (si spera) sano e affettuoso legame con la terra su cui si cammina, in cui riconciliarsi con l'idea che la vita si nutre di morte e viceversa e in cui sentirsi attivi ed entusiasti cocreatori, insieme alla natura, di bellezza ed armonia.

Un po' tutto questo ho cercato in questo libro, invano.

Vi ho trovato, invece, pagine su pagine di aneddoti che secondo l'autrice dovrebbero essere particolarmente rivelatori e illuminanti, di fatti occorsi a lei o a qualche suo amico o conoscente, e che dovrebbero inconfutabilmente dimostrare che la vita è molto più bella e semplice se si cerca di essere sempre allegri, pazienti e gentili con gli altri e se ci si aspetta sempre il meglio da tutti e da tutto.

Un principio che in linea generale mi vede assolutamente d'accordo, ma che credo sia possibile esprimere in modo più articolato, complesso, profondo, e soprattutto senza quel tono sempre entusiasta, ingenuo, sopra le righe, semplicistico e ammiccante di molti testi americani di self-help/new age/spiritualità/fuffa varia etc etc che non sopporto proprio più.


Geri Larkin, Il giardino che è la nostra vita, traduzione di Gaia De Pascale, Ponte alle Grazie 2009.


martedì 16 agosto 2011

Di giochi di coppia e di alcuni amaretti farciti

Ricordate, ne Le fabuleux destin d'Amélie Poulain, come vengono presentati i genitori della protagonista?

In modo, secondo me, geniale: con una brevissima biografia che include anche un elenco, ovviamente parziale e arbitrario, delle cose che amano e che detestano.

Da quando abbiamo visto quel film, io e la Spia giochiamo spesso a questo gioco: ormai è diventato una sorta di abitudine familiare. 

Non appena ci imbattiamo in qualche esperienza che ci delizia o, al contrario, ci lascia perplessi - o peggio - ci viene automatico "aggiornare"  il nostro personalissimo elenco di gusti e disgusti, e di farlo ad alta voce, proclamando solennemente e con la voce impostata: "Alla Spia/alla Papera piace/non piace...". 

La cosa bella, almeno secondo me, è che l'aggiornamento è sempre incrociato, per così dire: sono io che aggiorno il suo elenco e lui che aggiorna il mio, in una sorta di affettuoso, eclusivo e spesso divertito e stupito riconoscimento dell'altro.

Qualche sera fa, dopo cena, pensavo in questi termini alle tante piccole cose che mi piacciono di questo agosto in città.

In ordine rigorosamente sparso, queste sono le prime che mi sono venute in mente (e chissà quante ne potrebbe indovinare la Spia):

- lo sguardo e i sorrisi di complicità che ci si scambia con i pochi clienti del supermercato del quartiere, come a dire "Anche lei qui? Ne sono lieto"

- le serate con le finestre aperte dalle quali entrano, oltre alla brezza e alle zanzare (accidenti a loro), echi di conversazioni lontane intrecciate a qualche tavolata in giardino, risate, le note di un passaggio particolarmente complesso che qualcuno sta cercando di imparare a suonare al piano 

- le sieste pomeridiane di Matilde dentro il vaso dell'ulivo

- nel tardo pomeriggio dare l'acqua alle piante nel terrazzo e pensare a come cambierà il loro aspetto in autunno

- uscire per le scale la mattina per andare a prendere la posta anche in camicia da notte e ciabatte, sapendo che non si incontrerà nessuno con cui scambiare sguardi mutualmente soncertati

-  trovare il tempo per (finalmente) attaccare quei quadri che aspettavano da un anno di trovare una collocazione

- intravedere nel cielo luminoso della sera i primi, sottili annunci della stagione più bella dell'anno, quella che verrà

- cercare tra i libri e gli appunti ricette di dolci facilissimi, da mangiare freddi, la sera, dopo cena

E riguardo a quest'ultimo punto, eccone una, di ricetta, se di ricetta si può parlare, che mi incuriosiva da tempo: mi è stata passata a voce dalla suocera (e dunque mi è stato assolutamente impossibile capire da dove venga) e non l'avevo mai provata, perché in realtà prevederebbe l'uso del mascarpone e della Nutella, che io adoro - sia chiaro - ma la cui compresenza in un'unica ricetta mi ha sempre inquietata (per quanto non dubito che il risultato valga senz'altro qualche inquietudine).

Qualche giorno fa, sprovvista e dell'uno e dell'altra, ma fornita di ingenti quantitativi di amaretti secchi e cioccolato fondente, e dovendo vieppiù finire una confezione di panna già aperta, li ho fatti così.

****

(più o meno) Amaretti farciti della suocera (e sicuramente di qualcun altro, di cui al momento si ignora l'identità)

50 gr di cioccolato fondente a pezzetti (io ne ho usato uno al 70%)
50 ml di panna liquida
amaretti secchi (non so darvi le quantità; io ho usato quelli piccoli e ne saranno venuti 10-12)
mezza tazzina di caffè forte
farina di cocco

In un pentolino scaldate la panna senza farla bollire. Versatela in una ciotola resistente al calore dove avrete messo i pezzetti di cioccolata. Attendete qualche secondo, poi mescolate fino a quando la cioccolata non sia completamente sciolta. Lasciate raffreddare e mettete in frigorifero per almeno una mezz'ora.

Nel frattempo fate il caffè (posso dire che uso il caffè liofilizzato? L'ho detto. Due cucchiaini scarsi in mezza tazzina d'acqua) e preparate un piatto cosparso di farina di cocco.

Tirate fuori la ganache dal frigo e montatela con le fruste fino a quando non sia soda.
Usatela per farcire gli amaretti a due a due. Indi, passate il piccolo sandwich prima nel caffè e infine nella farina di cocco.

Consiglio di mangiare queste robine subito o quasi subito.
Io e la Spia le abbiamo finite in un paio di giorni, lasciandole in frigorifero: il sapore, ovviamente, ne ha guadagnato, ma gli amaretti si sono ammorbiditi. 
Scegliete voi.
Secondo la suocera si possono mettere in freezer. Onestamente non so. Ma se qualcuno ci dovesse provare, sarei curiosa di sapere com'è andata.

Enjoy!

lunedì 8 agosto 2011

La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa di Carla Pasquinelli

Sono una creatura profondamente domestica, una Penelope fatta e finita, ma ho scoperto di esserlo in tempi relativamente recenti, con una certa sorpresa.

Da giovani non fa fico affermare una cosa simile; da giovani si vuole essere tutti Ulisse, indipendentemente dal proprio sesso: passare per la Penelope della situazione può essere insultante e svilente come la peggiore delle offese.
D'altra parte penso sia giusto e sano che da fanciulli si sia attratti e incuriositi e innamorati soprattutto dell'altrove, del lontano, del diverso da sé e se ne vada in cerca, anche se questo significa tralasciare, trascurare, non vedere veramente ciò che invece è vicino, familiare, conosciuto, domestico.
Si avrà tempo, poi, eventualmente, per tornare, con occhi nuovi, a ri-conoscerlo.

Quando ero giovane (o diciamo più giovane di adesso!), qualunque cosa avesse un profumo vagamente "casalingo" e domestico suscitava in me reazioni claustrofobiche, se non di irritazione, disgusto, estraneità; nel migliore dei casi, un'assoluta indifferenza.

Poi mi sono ritrovata, gradualmente, a cambiare prospettiva ed ho capito di non avere alcun problema con la domesticità, con l'idea di "casa" in generale, ma solo con la casa dei miei genitori!

E così, in ognuno dei luoghi in cui ho abitato la mia vita da adulta - lasciata, cioè, la casa paterna - ho trovato e vissuto e coltivato amorevolmente e con enorme piacere e gioia quella che, ora lo so, è la mia dimensione più vera e più aderente al mio sentire: la domesticità, appunto, la casalinghitudine, per dirla con la Sereni.

Non potevo, dunque, non leggere questo breve saggio e non trovarlo, in molte sue pagine, interessante.
 
Carla Pasquinelli offre - spesso con garbo e leggerezza, il che non guasta - una riflessione multidisciplinare sull'idea della casa intesa come spazio fisico, certamente, architettonico, ma anche e soprattutto simbolico: della propria identità di invidivui, della propria appartenenza ad una determinata cultura, a uno specifico gruppo sociale etc etc.

Curiosi e per me molto interessanti certi confronti sull'idea di "casa" nelle varie culture, sul modo in cui concezioni filosofiche e religiose e culturali imprimano il loro marchio evidente e concreto sull'organizzazione dello spazio fisico in cui si articola la vita domestica e sull'idea (che può essere diversissima, da cultura a cultura) di "ordine" e "disordine".

Ogni tanto mi è parso che l'autrice partisse un po' per la tangente, per così dire, e scivolasse verso regioni teoriche in cui non mi sento mai troppo a mio agio e in cui, dunque, non l'ho seguita troppo volentieri: quelle in cui il discorso si fa un po' troppo astruso per i miei gusti e troppo infarcito di concetti e riferimenti culturali evidentemente al di là della mia portata (e mi pare che questa mia insofferenza a certi discorsi teorici aumenti con l'età, invece che diminuire; non dovrebbe essere il contrario? Non dovrei diventare sempre più saggia e colta e istruita? Pare proprio di no).

Ma nel complesso si è trattato di una lettura assai gradevole, non di rado divertente, e ricca di spunti di riflessione per me insoliti.

Carla Pasquinelli, La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa, Baldini Castoldi Dalai, 2009.