venerdì 7 ottobre 2011

No alla legge bavaglio - post a rete unificata

Son giorni, questi, che in molti viviamo in preda all'inquietudine.

Ci sono tanti di quei motivi per essere inquieti, in questo disgraziatissimo paese.

Uno dei tanti, importantissimo, è proprio quello di cui parla questo post.
L'ho trovato nel blog di Wenny e lo riporto qui, sperando di poter fare la mia piccola parte in questo generoso movimento spontaneo di protesta e di controinformazione.

La rete, lo sappiamo, è un grande contenitore in cui c'è di tutto, dalla bellezza all'indecenza, dalla cultura alla spazzatura, dalla violenza al sublime, dal vero al falso.
Ma è un contenitore cui tutti possono accedere, liberamente.
E in cui tutti possono trovare, anche solo sviluppando un minimo di senso critico (che si può sviluppare, a me pare, solo in piena e completa libertà), non solo ciò che cercano ma anche ciò che non sapevano di cercare ma di cui hanno bisogno: informazioni, dati, elementi per costruirsi le proprie idee sul mondo e in più la possibilità - se solo lo si voglia - di confrontarsi con altre idee e prospettive, di ampliare i propri orizzonti, di arricchire in modo esponenziale il proprio piccolo bagaglio di esperienza umana.

Non è poco.
Per quanto anch'io, per prima, ogni tanto possa risentire la sua onnipresenza nella mia vita e la sua laocoonticità, la rete è una risorsa, preziosissima, come l'acqua o l'aria. 
E penso debba rimanere accessibile a tutti, uno strumento vero di emancipazione e conoscenza e direi anche, usando un'espressione tanto di moda oggi, di democrazia partecipata di cui solo il cielo sa quanto si ha bisogno adesso.

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Il disegno di legge di riforma delle intercettazioni ha un impatto significativo sulla rete?
Il ddl di riforma della normativa sulle intercettazioni influisce sulla rete in due modi, innanzitutto perché le limitazioni introdotte dal ddl in merito alla pubblicabilità degli atti di indagine riguarda, ovviamente, anche la rete, relativamente al giornalismo professionale, ma soprattutto perché in esso è presente il comma 29 che è scritto specificamente per la rete. Cosa prevede il comma 29? Il comma 29 estende parte della legislazione in materia di stampa, prevista dalla legge n. 47 del 1948, alla rete, in particolare l’art. 8 che prevede la cosiddetta “rettifica”.

Cosa è la rettifica?
La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere dei media unidirezionali e di bilanciare le posizioni in gioco. Nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, un semplice cittadino potrebbe avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie, e comunque ne trascorrerebbe molto tempo con ovvi danni alla sua reputazione. Per questo motivo è stata introdotta la rettifica che obbliga i direttori o i responsabili dei giornali o telegiornali a pubblicare gratuitamente le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti che si ritengono lesi.

Il comma 29 estende la rettifica a tutta la rete?
La norma in questione estende la rettifica a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”. La frase “ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica” è stata introdotta in un secondo momento proprio a chiarire, a seguito di dubbi sorti tra gli esperti del ramo che propendevano per una interpretazione restrittiva della norma (quindi applicabile solo ai giornali online), che la norma deve essere invece applicata a tutti i siti online. Ovviamente sorge comunque la necessità di chiarire cosa si intenda per “siti informatici”, per cui, ad esempio, potrebbero rimanere escluse la pagine dei social network, oppure i commenti alle notizie. Al momento non è dato sapere se tale norma si applicherà a tutta la rete, in ogni caso è plausibile ritenere che tale obbligo riguarderà gran parte della rete.

Entro quanto tempo deve essere pubblicata la rettifica inviata ad un sito informatico?
Il comma 29 estende la normativa prevista per la stampa, per cui il termine per la pubblicazione della rettifica è di due giorni dall’inoltro della medesima, e non dalla ricezione. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.

E’ possibile aggiungere ulteriori elementi alla notizia, dopo la rettifica?
Il ddl prevede che la rettifica debba essere pubblicata “senza commento”, la qual cosa fa propendere per l'impossibilità di aggiungere ulteriori informazioni alla notizia, in quanto potrebbero essere intese come un commento alla rettifica stessa. Ciò vuol dire che non dovrebbe essere nemmeno possibile inserire altri elementi a corroborare la veridicità della notizia stessa.

Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto?
La rettifica prevista per i siti informatici è sostanzialmente quella della legge sulla stampa, la quale chiarisce che le informazioni da rettificare non sono solo quelle contrarie a verità, bensì tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni “da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità”, laddove essi sono i soggetti citati nella notizia. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia. Non si tratta affatto, in conclusione, di una valutazione sulla verità, per come è congegnata la rettifica in sostanza si contrappone la “verità” della notizia ad una nuova “verità” del rettificante, con ovvio scadimento di entrambe le “verità” a mera opinione (Cassazione n. 10690 del 24 aprile 2008: “l’esercizio del diritto di rettifica… è riservato, sia per l’an che per il quomodo, alla valutazione soggettiva della persona presunta offesa, al cui discrezionale ed insindacabile apprezzamento è rimesso tanto di stabilire il carattere lesivo della propria dignità dello scritto o dell’immagine, quanto di fissare il contenuto ed i termini della rettifica; mentre il direttore del giornale (o altro responsabile) è tenuto, nei tempi e con le modalità fissate dalla suindicata disposizione, all’integrale pubblicazione dello scritto di rettifica, purché contenuto nelle dimensioni di trenta righe, essendogli inibito qualsiasi sindacato sostanziale, salvo quello diretto a verificare che la rettifica non abbia contenuto tale da poter dare luogo ad azione penale”).

Come deve essere inviata la richiesta di rettifica?
La normativa non precisa le modalità di invio della rettifica, per cui si deve ritenere utilizzabile qualunque mezzo, fermo restando che dopo dovrebbe essere possibile provare quanto meno l’invio della richiesta. Per cui anche una semplice mail (non posta certificata) dovrebbe andare bene.

Cosa accade se non rettifico nei due giorni dalla richiesta?
Se non si pubblica la rettifica nei due giorni dalla richiesta scatta una sanzione fino a 12.500 euro.

Che succede se vado in vacanza, mi allontano per il week end, o comunque per qualche motivo non sono in grado di accedere al computer e non pubblico la rettifica nei due giorni indicati?
Queste ipotesi non sono previste come esimenti, per cui la mancata pubblicazione della rettifica nei due giorni dall’inoltro fa scattare comunque la sanzione pecuniaria. Eventualmente sarà possibile in seguito adire l’autorità giudiziaria per cercare di provare l’impossibilità sopravvenuta alla pubblicazione della rettifica. È evidente, però, che non si può chiedere l’annullamento della sanzione perché si era in “vacanza”, occorre comunque la prova di un accadimento non imputabile al blogger.

La rettifica prevista dal comma 29 è la stessa prevista dalla legge sulla privacy?
No, si tratta di due cose ben diverse anche se in teoria ci sarebbe la possibilità di una sovrapposizione parziale. La legge sulla privacy consente al cittadino di chiedere ed ottenere la correzione di dati personali, mentre la rettifica ai sensi del comma 29 riguarda principalmente notizie.

Con il comma 29 si equipara la rete alla stampa?
Con il suddetto comma non vi è alcuna equiparazione di rete e stampa, anche perché tale equiparabilità è stata più volte negata dalla Cassazione. Il comma 29 non fa altro che estendere un solo istituto previsto per la stampa, quello della rettifica, a tutti i siti informatici.

Con il comma 29 anche i blog non saranno più sequestrabili, come avviene per la stampa?
Assolutamente no, come già detto con il comma 29 non si ha alcuna equiparazione della rete alla stampa, si estende l’obbligo burocratico della rettifica ma non le prerogative della stampa, come l’insequestrabilità. Questo è uno dei punti fondamentali che dovrebbe far ritenere pericoloso il suddetto comma, in quanto per la stampa si è voluto controbilanciarne le prerogative, come l’insequestrabilità, proprio con obblighi tipo la rettifica. Per i blog non ci sarebbe nessuna prerogativa da bilanciare.

Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false?
E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri.

Se ritengo che la rettifica non sia dovuta, posso non pubblicarla?
Ovviamente è possibile non pubblicarla, ma ciò comporterà certamente l’applicazione della sanzione pecuniaria. Come chiarito sopra la rettifica non si basa sulla veridicità di una notizia, ma esclusivamente su una valutazione soggettiva della sua lesività. Per cui anche se il blogger ritenesse che la notizia è vera, sarebbe consigliabile pubblicare comunque la rettifica, anche se la stessa rettifica è palesemente falsa.

Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica, il titolare del dominio, il gestore del blog?
Questa è un’altra problematica che non ha una risposta certa. La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi è il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso.

Sono soggetti a rettifica anche i commenti?
Anche qui non è possibile dare una risposta certa al momento. In linea di massima un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento non dovrebbe essere soggetto a rettifica.

Pensavo di creare un widget che consente agli utenti di pubblicare direttamente la loro rettifica senza dovermi inviare richieste. In questo modo sono al riparo da eventuali multe?
Assolutamente no, la norma prevede la possibilità che il soggetto citato invii la richiesta di rettifica e non lo obbliga affatto ad adoperare widget o similari. Quindi anche l’attuazione di oggetti di questo tipo non esime dall’obbligo di pubblicare rettifiche pervenute secondo differenti modalità (ad esempio per mail).

Pensavo di aprire un blog su un server estero, in questo modo non sarei più soggetto alla rettifica?
Per non essere assoggettati all’obbligo della rettifica è necessario non solo avere un sito hostato su server estero, ma anche risiedere all’estero, come previsto dalla normativa europea. E, comunque, anche la pubblicazione di notizie su un sito estero potrebbe dare adito a problemi se le notizie provengono da un computer presente in Italia.

E’ vero che in rete è possibile pubblicare tutto quello che si vuole senza timore di conseguenze? E’ per questo che occorre la rettifica?
Questo è un errore comune, ritenere che non vi sia alcuna conseguenza a seguito di pubblicazione di informazioni o notizie online, errore dovuto alla enorme quantità di informazioni immesse in rete, ovviamente difficili da controllare in toto. Si deve inoltre tenere presente che comunque l’indagine penale od amministrativa necessita di tempo, e spesso le conseguenze penali od amministrative a seguito di pubblicazioni online, si hanno a distanza di settimane o mesi. In realtà alla rete si applicano le stesse medesime norme che si applicano alla vita reale, anzi in alcuni casi la pubblicazione online determina l’aggravamento della pena. Quindi un contenuto in rete può costituire diffamazione, violazione di norme sulla privacy o sul diritto d’autore, e così via… Il discorso che spesso si fa è, invece, relativo al rischio che un contenuto diffamante possa rimanere online per parecchio tempo. In realtà nelle ipotesi di diffamazione o che comunque siano lesive per una persona, è sempre possibile ottenere un sequestro sia in sede penale che civile del contenuto online, laddove l’oscuramento avviene spesso nel termine di 48 ore.

Ho letto di un emendamento presentato da alcuni politici che dovrebbe risolvere il problema della rettifica. È un buon emendamento?
Già lo scorso anno fu presentato un emendamento da alcuni parlamentari, che sostanzialmente dovrebbe essere riproposto quest’anno, con qualche modifica. In realtà l’emendamento Cassinelli, dal nome dell’estensore, non migliora di molto la norma: allunga i termini della rettifica a 10 giorni, stabilisce che i commenti non sono soggetti a rettifica, e riduce la sanzione in caso di non pubblicazione. L’allungamento dei termini non è una grande conquista, in quanto l’errore di fondo del comma 29 è l’equiparazione tra rete e stampa, cioè tra attività giornalistica professionale e non professionale, compreso la mera manifestazione del pensiero, tutelata dall’art. 21 della Costituzione, esplicata dai cittadini tramite blog. Per i commenti la modifica è addirittura inutile in quanto una lettura interpretativa dovrebbe portare al medesimo risultato, anzi forse sotto questo profilo l’emendamento è peggiorativo perché invece di “siti informatici” parla di “contenuti online” con una evidente estensione degli stessi (pensiamo alle discussioni nei forum). Tale emendamento viene giustificato con l’esempio del blogger che scrive: “Tizio è un ladro”, ipotesi nella quale, si dice, Tizio ha il diritto di vedere rettificata la notizia falsa. Immaginiamo invece che Tizio effettivamente sia un ladro, la rettifica gli consentirebbe di correggere una notizia vera con una falsa. Se davvero Tizio non è un ladro, invece, non ha alcun bisogno di rettificare, può denunciare direttamente per diffamazione il blogger ed ottenere l’oscuramento del sito in poco tempo.

Ma in sostanza, quale è lo scopo di questa norma?
Una risposta a tale domanda è molto difficile, però si potrebbe azzardarla sulla base della collocazione della norma medesima. Essendo inserita nel ddl intercettazioni, potrebbe forse ritenersi una sorta di norma di chiusura della riforma, riforma con la quale da un lato si limitano le indagini della magistratura, dall’altro la pubblicazione degli atti da parte dei giornalisti. Poi, però, rimarrebbe il problema se un giornalista decide di aprire un blog in rete e pubblicare quelle intercettazioni che sul suo giornale non potrebbe più pubblicare. Ecco che il comma 29 evita questo possibile rischio. 



sabato 1 ottobre 2011

Di vincitori (senza vinti)

Ed ecco dunque la vincitrice, il numero 5, cioè Dede.

Devo ammettere che ho provato una qualche emozione nell'inserire i numeri e nel vedere apparire, in un nanosecondo, quello selezionato.

Come da tradizione, stasera preparerò la confezione nella quale spedire il bracciale (la suocera direbbe "la vestina") e poi, con la consueta trepidazione ma anche con molta gioia, libererò anche questa mia creatura per le vie del mondo!

Dede, ricordami di scriverti il tuo indirizzo!

Grazie a tutte per avere partecipato e soprattutto grazie per aver raccontato qualcosa di voi: ho gustato ogni vostra storia, davvero. Mi avete fatto capire, ancora una volta, che benché sia io qui a parlare e a scrivere, a cantarmela e a suonarmela, mi piace assai di più starvi ad ascoltare.

sabato 24 settembre 2011

Di un anniversario, di cose nuove e di un giveaway

Qualche giorno fa, mi sono accorta che c'era stato un anniversario, passato sotto silenzio.

Un po' perché ho una memoria non corta, cortissima (e di questi tempi mi sembra si sia ulteriormente accorciata).

Un po' perché sono appena tornata dalle vacanze, che per me, anche se brevi brevi come queste appena fatte, segnano sempre un'interruzione della quotidianità - per quanto gradita - dopo la quale è difficile riprendere le fila del discorso; come quando, durante una conversazione, aprite una parentesi - e anche più di una, se siete come me - e dopo un po' non ricordate più che cosa stavate dicendo, non vi raccapezzate e fate la figura della vispa Teresa.

Ecco, appunto. Dicevamo?
L'anniversario, già. 
L'anniversario del piccolo shop che, secondo Etsy, ho aperto esattamente il 20 settembre di un anno fa.

Io però ricordo bene che quel giorno, su Etsy, ho semplicemente aperto il mio account. 
È seguito poi un periodo imprecisato - almeno una settimana, forse anche di più - in cui ho cercato di capire come funzionasse tutto l'ambaradan, compresi annessi e connessi. Ne parlavo qui.

Dunque per me questo anniversario deve ancora arrivare ed essendo il primo penso vada festeggiato, anche perché quest'anno che è trascorso è stato molto interessante e fruttuoso.

Prima di tutto perché sono entrata in contatto con molte persone, e non solo clienti, che mi hanno incoraggiata, consigliata, hanno espresso opinioni, gusti, perplessità, dubbi, curiosità e mi hanno nel frattempo raccontato ricordi, storie, condividendo pensieri, intimità, vita.
A tutte queste persone dico grazie, semplicemente: il loro contributo è davvero incommensurabile, ed io voglio che lo sappiano.

Poi perché ho imparato molte cose, e non solo come fare monachelle o chiusure: ho imparato quanto ci sia da imparare ogni giorno, quanto mi piaccia avere ogni giorno qualcosa da imparare, quanto ogni cosa, anche una piccola piccola come questa mia piccolissima attività, se solo lo si voglia, possa diventare una fonte pressoché inesauribile di crescita.
E questo compensa tutti quei momenti - per fortuna pochissimi - in cui mi pare di smarrire un po' la direzione e il senso di ciò che sto facendo, perché ci sono anche questi momenti e forse è giusto così, per controbilanciare quelli in cui il divertimento che provo nel fare queste cose è tale da inchiodarmi al tavolo da lavoro anche ore ed ore, facendomi quasi dimenticare di mangiare - quasi - e la mia proverbiale impazienza.

E allora, per festeggiare questo primo anno di persone, cose ed esperienze nuove, ho deciso di fare una cosa che non avevo mai fatto, un giveaway - ma che brutto nome, ammettiamolo - con un bracciale nuovo nuovo, nato in giorni di grandi pensamenti (diciamo pippe mentali e facciamo prima) e patimenti (piacerà? sarà comodo? sarà portabile? si romperà dopo 20 minuti?), la cui visione e progettazione mi ha accompagnato durante tutta la mia vacanza, mentre facevo il bagno e mentre leggevo i racconti di Cechov (che meraviglia; chiusa parentesi), mentre mangiavo il gelato e mentre guardavo le barche nel porto al tramonto, e la cui realizzazione mi ha fatto penare un po'. 

Ma ora è qui, mi piace talmente tanto che ho già deciso che ne farò una collana che metterò nello shop, ed è esattamente come volevo che fosse: volevo che avesse a che fare con l'autunno, la mia stagione preferita (la decorazione-chiusura a forma di foglia; il verde marcio del nastro di alcantara e della rondella di acquamarina); volevo che fosse semplice, essenziale e soprattutto volevo che fosse una cosa che non avevo mai fatto.

Mi piace imparare, l'ho detto.
E mi piacciono le novità. Anche se all'inizio le accolgo sempre con incertezza (con paura, a volte, e diffidenza), pensando subito di non riuscire ad affrontarle e poi quasi sempre mi faccio prendere dall'entusiasmo e mi butto a capofitto, incosciente.

E allora, per tornare a questo giveaway: sapete tutti come funziona. 
Lasciate un commento e, se vi va, raccontate di qualcosa di nuovo che avete fatto per la prima volta quest'anno: e non vi preoccupate se non avete al vostro attivo imprese epiche (ma se sì, raccontate, raccontate!): a me - e dovrebbe esser chiaro - piacciono soprattutto le storie piccole, domestiche, quotidiane.

Il 1 di ottobre estrarrò il vincitore (sempre se capisco come funzionano quei generatori random che in genere vengono usati in queste circostanze; magari qualcuno può darmi qualche indicazione, così facciamo prima?).

Ed ora vi lascio: il tavolo da lavoro mi chiama.

martedì 6 settembre 2011

Della sindrome dell'accorta casalinga (o della donna pioniera) e di una torta di susine

In estate, è difficile, per me, non farmi prendere dalla sindrome dell'accorta casalinga (o della donna pioniera).

Una sindrome che prevede, tra i sintomi, una preoccupante tendenza ad accumulare chili e chili di verdure e frutta, acquistati con l'intenzione di farne conserve e marmellate con cui riempire, con ordine e precisione, le mensole del mobile di legno che è in dispensa (badate bene che qui la parola chiave è "intenzione"). 

Tra i sintomi può presentarsene anche uno, particolarmente preoccupante: chi è affetto dalla suddetta sindrome può ritrovarsi quasi senza accorgersene nella suddetta dispensa a rimirare con espressione sognante gli eventuali risultati dei suoi attacchi, vale a dire barattoli e barattolini, e a sistemarli, spostandoli impercettibilmente di pochi millimetri, seguendo personalissimi (ed imperscrutabili, per chi osservi dall'esterno la scena) disegni di ordine e simmetria. 

Per fortuna, però, la sindrome dell'accorta casalinga (o della donna pioniera) non mi colpisce sempre.
In genere provoca un attacco abbastanza serio all'inizio della stagione, a causa della visione quasi quotidiana dei banchi del mercato rionale traboccanti di montagne di frutta (mi manca molto la frutta in inverno, perché io amo soprattutto quella estiva), rimane allo stato dormiente per quasi tutta l'estate e si manifesta poi con un altro attacco (eventualmente due) in coda.

Quest'anno è andata abbastanza bene.
Mi sono soprattutto sbizzarrita con le susine. A parte le consuete tonnellate di confettura (fatta anche l'anno scorso, come scrivo qui), la frutta acquistata è stata soprattutto mangiata, lì per lì, specialmente a metà mattina, quando nel mio stomaco sembra crearsi una voragine - succede solo a me? - oppure, come nel caso del post di oggi, trasformata in un'ottima torta.

Due parole su questa ricetta: proviene da uno dei libri di cucina più belli che mai mi sia capitato di sfogliare e leggere, The Book of Jewish Food di Claudia Roden (e grazie, Stefano, per avermelo fatto conoscere).
Non si tratta solo di una pregevole raccolta di ricette della tradizione gastronomica ebraica o, meglio sarebbe dire, delle tradizioni gastronomiche ebraiche, perché le comunità ebraiche nel mondo sono tante e, accanto ai piatti comuni, tante sono anche le varianti nate dalle interessanti contaminazioni con la cultura locale ed infinite quelle suggerite dalla storia di ogni singola famiglia, com'è giusto che sia.

Questo è anche un libro di storia e di antropologia, una ricerca multidisciplinare interessante anche per chi (e parlo in primis per me) non sia mai stato particolarmente incuriosito dal mondo ebraico. Insomma, è un libro vero (tanto per riprendere il discorso dell'ultimo post...).

Infine un'ultima cosa, prima di passare agli ingredienti.
Nel fare questa torta ho commesso un errore, utilizzando tutto lo zucchero previsto per la preparazione della pasta ed aggiungendone poi un paio di cucchiai a parte sulle susine tagliate e messe sopra. Le indicazioni prevedono invece che per la pasta venga utilizzata solo metà dello zucchero e che l'altra metà sia distribuita poi sulle susine.

Non mi pare che l'errore abbia pregiudicato il risultato finale, anzi, soprattutto nel caso in cui le susine non siano particolarmente aspre- come quelle che ho usato io.
Ma se volete seguire la ricetta originale, ricordatevene.


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Torta di susine (la Roden dice che si tratta di una popolare ricetta tedesca)

125 gr di zucchero (io ho usato il Golden Caster Sugar del commercio equo)
175 gr di farina autolievitante (o la stessa quantità di farina 0 con 1/2 cucchiaino di lievito)
75 gr di burro
1 uovo, piccolo, appena sbattuto
1 cucchiaio di cognac
750 gr di susine, denocciolate e tagliate a metà

Preriscaldate il forno a 190°.

Se volete seguire la ricetta originale, preparate la pasta con metà dello zucchero, la farina e il burro: mettete questi tre ingredienti nella coppa del robot da cucina e con la funzione pulse riduceteli a un composto sabbioso.

Aggiungete l'uovo e il cucchiaio di cognac. Appena comincia ad ammassarsi tirate fuori l'impasto e lavoratelo con le mani quel tanto che basta per metterlo insieme.

Prendetene poi dei pezzi e (procedura geniale!) distribuiteli su una teglia (non è necessario che sia imburrata) schiacciandoli con le dita. Io ho usato una teglia da 28 cm di diametro e sono riuscita a coprirla tutta: la Roden raccomanda di usarne una da 25 cm, dunque immagino lo strato di pasta debba essere più spesso di quello che è venuto a me.

A questo punto disponete le susine, parte tagliata verso l'alto, sopra la pasta: tenete presente che durante la cottura diminuiranno di volume, dunque non preoccupatevi se vi sembrano troppe e ammassatele ben bene.

Infine, sempre se volete seguire la ricetta originale, cospargetele della metà dello zucchero che vi è rimasta. Altrimenti, se seguite il mio errore, meno di due cucchiai di zucchero saranno sufficienti.

Cuocete per circa 50': le susine saranno morbide e raggrinzite, la pasta dorata e avrà fatto, qua e là, capolino.

La torta è splendida tiepida (e la prossima volta nessuno mi vieterà di servirla con un po' di panna leggermente montata, o con un gelato di crema), ma anche il giorno dopo ha il suo perché, come possono confermare la Spia e la gatta Linda, che - abbiamo scoperto - ne è ghiottissima.

Enjoy!

mercoledì 31 agosto 2011

Di oziose invettive, di impaziente avidità e di un gelato allo zabaione

Mi sono a lungo interrogata sull'opportunità o meno di pubblicare questa ricetta.

Prima di tutto per via della sua provenienza. 
In questo blog ho sempre cercato di parlare di ricette tratte da libri di cucina, oggetti per i quali - dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro - ho una passione smodata virante, temo sia assodato, al patologico.

Questo blog, in effetti, è nato soprattutto, all'inizio, come spazio in cui parlare di libri, di quelli che mi piace leggere e di quelli che mi piace usare sia in cucina sia nelle mie scoordinate ma felici incursioni nel mondo del craft.

Tra l'altro i libri di cucina che si pubblicano oggi sono anche, spesso, libri da leggere. 
O meglio.
Diciamo che va molto di moda pubblicarli e presentarli come libri anche da leggere (e la frase spesso utilizzata è ne vorrete una copia in cucina e una per il vostro comodino, o qualcosa di molto simile), come se ci fosse qualcosa di disdicevole nel proporre un onesto manuale.

Sia ben chiaro.
Io amo molto - e l'ho detto più volte - i libri che uniscono ricette e ricordi, divagazioni e brevi saggi.
Il fatto è che assai raramente ci si trova tra le mani testi scritti con garbo sufficiente per essere effettivamente letti con piacere e senza digrignare i denti di fronte alla disinvoltura con cui - in nome della spontaneità e della commistione dei generi - chi li scrive maltratta la lingua italiana.  
Ma questo è un altro discorso, fatto ad abundantiam in altre sedi e non è il caso di ripeterlo anche qui.

Comunque, la ricetta di oggi non è presa da un libro, ma (con molta libertà) da un opuscolo di Sale & Pepe, acquistato in edicola più o meno un mese fa, dal titolo (per me orrido) Dolci da brivido.

Esistono scuole di pensiero differenti su quella che è forse tra le più note riviste di cucina di questo disgraziato paese. Ci sono fierissimi detrattori e grandi, entusiasti sostenitori. I primi non eseguirebbero nemmeno sotto tortura neanche una ricetta tratta da quelle pagine; i secondi non accettano che si muova neanche la più lieve critica a quello che considerano quasi un testo sacro - anche se pubblicato a puntate mensili e acquistabile in edicola, come un romanzo d'appendice.

Io ne ho acquistati gli ultimi 5-6 numeri, per farmi un'idea.
Per certi versi la trovo una bella rivista: è colorata, con un layout elegante, chiaro, fotografie comme il faut (e con questo intendo come van di moda oggi, stile Donna Hay, per intendersi) e le ricette sembrano essere eseguibili da qualunque "cuciniere" medio. Molte poi sono estremamente appetibili - almeno per me.

Ma non c'è numero la cui lettura non mi trasformi prima o poi in una piccola erinni, quando mi imbatto in certe espressioni che ormai han fatto scuola e si leggono più o meno ovunque si parli di cucina.
Nelle pagine di Sale & Pepe, infatti, è tutto un fiorire di termini come scioglievolezza, leccornia, bocconcino e di aggettivi leziosi come ghiotto, delizioso, goloso, gustoso, stuzzicante, sfizioso - progenitori di tutti quei coccoloso, profumoso, sofficioso, cioccolatoso etc. che si trovano a iosa nel web.

Abbondano poi le frasi fatte noiose e ripetitive: la dolcezza è sempre irresistibile, la leggerezza ghiotta, il sapore sorprendente, l'antipasto raffinato (o chic).

Che noia. E che fastidio.

Lo so che l'importante è che le ricette siano affidabili e scritte chiaramente - e mi sembra che da questo punto di vista si possano muovere poche obiezioni alla rivista.
Ma perché, mi chiedo, non limitarsi a questo - che è già tanto, e meritevole - evitando di creare uno stile che secondo me ha fatto più danni che la grandine? Non era possibile trovare un'alternativa meno ingessata e raggelante alla pur mitica La cucina italiana senza per forza cadere nel bamboleggiante e nello stucchevole?

Fine dell'(oziosa) invettiva.

Il secondo motivo che mi induceva ad esitare fino ad oggi è che la fotografia ritrae - è evidente - una tazzina vistosamente vuota.

Il gelato allo zabaione (fatto partendo dalla ricetta di questo opuscolo, poi modificata in corso d'opera e meticciata con altre ricette) è venuto in effetti così bene che non siamo riusciti, né io né la Spia, a fermarci in tempo per immortalarlo ancora intonso.

Tutto sommato, però, a ben pensarci, non c'è prova migliore della sua bontà: un inglese probabilmente commenterebbe col noto The proof is in the pudding.


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Gelato allo zabaione

3 rossi
100 gr di zucchero
250 ml di latte
50 ml di marsala
150 ml di panna


Battete con le fruste i rossi con lo zucchero fino ad ottenere un composto liscio e chiaro, a "nastro".

In un pentolino riscaldate il latte senza farlo bollire.

Aggiungetene un mestolo al composto di uova e zucchero, sempre mescolando con le fruste (alla velocità minima), poi un secondo mestolo, infine tutto quel che resta. Mescolate e versate tutto di nuovo nel pentolino in cui avete scaldato il latte, cuocendo a fuoco basso-medio fino a quando la crema non veli il cucchiaio (circa 8 minuti? più o meno).

Spegnete e lasciate raffreddare. È possibile che la crema, lasciata a se stessa per un po', formi la pelle e risulti granulosa: niente panico. È pratica assai eterodossa e verrò sicuramente tacciata di eresia, ma io in questi casi ricorro felicemente al frullatore ad immersione: pochi secondi e la crema è di nuovo liscia, perfetta.

A quel punto aggiungete il marsala.

Poi montate la panna (non esagerate) e aggiungetela delicatamente al composto.

Se usate la gelatiera, mettete tutto nel cestello e tenete presente che il liquore allungherà senz'altro i tempi di preparazione (nella mia ci son voluti 45 minuti buoni invece che i soliti 20-25); se non avete la gelatiera, preparatevi al balletto i cui passi principali sono: mettere nel freezer per due ore, tirare fuori dal freezer, frullare con le fruste, rimettere nel freezer, tirare fuori dal freezer etc etc per almeno un paio di volte (se non tre).

Ma alla fine avrete un gelato allo zabaione stupefacente, quasi più buono di quello che si trovava dentro il Cucciolone.

Enjoy!

sabato 27 agosto 2011

La felicità domestica di Lev Tolstòj

Che un uomo di 29 anni abbia potuto partorire un libro come questo è stupefacente; che abbia potuto dare una voce tanto credibile, sincera e autentica ad una giovane donna che per la prima volta si apre al mistero dell'amore, ha - per me - del miracoloso: nell'esame attento (e rispettoso, e non paternalistico; altro miracolo) delle emozioni, spesso complesse e confuse, che accompagnano la nascita di un sentimento, il suo fiorire e maturare, il suo trasformarsi – attraverso il doloroso passaggio della delusione e della disillusione - da passione estatica ed esclusiva in affetto profondo e finalmente scevro di ogni proiezione e finzione più o meno inconscia, si sentono vibrare tutta l'intelligenza, la sensibilità, l'incredibile acutezza e maturità del giovane Tolstòj.

Come è vero e reale (e giusto e provvidenziale, aggiungerei io) il naturale ridimensionamento reciproco che avviene in ogni relazione (perché di questo, soprattutto, parla questa storia): da divinità fulgida e tanto magnanima da ritenerci meritevoli del suo amore, l'altro torna - finalmente e per fortuna - ad essere l'essere umano imperfetto che è, quello stesso essere umano imperfetto che siamo anche noi e che torniamo ad essere ai suoi occhi; com'è difficile accettare tutto questo senza disamorarsi e senza perdere l'amore dell'altro; com'è difficile - e per alcune persone penoso, quasi impossibile - accettare senza smarrirsi che niente rimanga identico, che i sentimenti con il tempo sembrino perdere intensità, vita, sangue.

Ci vuole a volte una vita, insieme o da soli, per arrivare a capire che solo allora essi mettono radici solide e sane, acquistano potenza e vigore e sostengono grandi, pacifici e fruttuosi alberi, non fulgidi, profumatissimi ma traballanti e fragili arbusti di rose.


Lev Tolstòj, La felicità domestica, traduzione di Serena Prina, Oscar Mondadori 2008.

martedì 23 agosto 2011

Arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern

Poco più di 100 pagine di grande bellezza.

Un catalogo "estetico-sentimentale" - per dirla con le parole dello stesso Rigoni Stern - che raccoglie informazioni, descrizioni, notizie, curiosità, leggende e miti su alcuni rappresentanti del "grande popolo degli alberi". 


E poi ricordi di infanzia, di guerra, di amicizia, di famiglia: ad ogni ramo, foglia, frutto si intrecciano storie, divagazioni, aneddoti, curiosità e la denuncia, a tratti sommessa e malinconica, quasi commossa, a tratti indignata e vibrante, delle innumerevoli, stupide e turpi violenze cui questi giganti della terra sono sottoposti giornalmente dalle brutture della speculazione edilizia, dell'ignoranza, del disamore improvvido per quella che rimane, sempre e comunque, la nostra unica, vera risorsa: la natura.


Un arboreto selvatico, dunque, ma anche "salvatico", cioè salvifico - come spiega l'autore - perché dove ci sono la conoscenza, la consuetudine e la familiarità con la natura necessariamente si fanno strada l'amore, il rispetto, la cura, l'attenzione.

E quante parole nuove, mai sentite, mai lette, dal suono bellissimo, dalle assonanze misteriose ed evocative, da ripetersi sottovoce, come una filastrocca: disàmare, stipole, carpello, glomeruli...

Per me, cittadina al 100% che non sa riconoscere un tiglio da un pioppo, un castagno da un acero (e comincia a crucciarsene), una splendida lettura.


Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1996.
 

lunedì 22 agosto 2011

Di idiosincrasie alimentari, della maturità e di un'insalata di peperoni arrosto

Delle idiosincrasie alimentari mie e della Spia ho parlato a lungo e spesso.

È un vero peccato (e causa di diverse piccole e grandi difficoltà logistiche) il fatto che raramente esse coincidano, anzi.

Ma dopo 12 anni di convivenza stiamo lentamente imparando a non scandalizzarci più di fronte alle manifestazioni della diversità dei nostri gusti - per quanto la Spia non riesca, se non assai raramente, a resistere alla tentazione di dire con voce disgustata "Che puzza di aceto!" ogni volta che mi vede, non dico aprire e versare, ma prendere dalla dispensa una bottiglia di aceto (di qualunque aceto; ne ho diversi, perché li amo molto).

Ci sono alcuni cibi che ho rinunciato da tempo a comprare (per esempio il gorgonzola, di cui vado matta ma la cui sola presenza nel frigo - anche se sigillato - getta la Spia in uno stato ora di panico ora di prostrazione) e piatti che gusto solo se qualche anima pia di mia conoscenza me li prepara sapendo che ne sono ghiotta ma che non li mangio magari da anni.

Ne cito alcuni, così, en passant, nella speranza che qualcuno che passi di qui se ne ricordi nel caso in cui volesse invitarmi a mangiare a casa sua: la francesina (un piatto tradizionale della mia famiglia a base di cipolle, pomodoro e aceto), l'insalata russa, la lingua in salsa verde, le alici marinate, le zucchine in carpione e mi fermo qui, ché mi sta prendendo la malinconia.

Per anni, pur amandoli alla follia, non ho comprato peperoni: il loro odore è uno tra i più potenti repellenti anti-Spia che si conoscano. Poi un giorno, non ricordo perché (forse la Spia mi aveva fatto arrabbiare, chissà), mi son ritrovata al supermercato con due bei peperoni rossi nel carrello, decisa a cucinarmeli.

La Spia, alla loro vista, è quasi svenuto, non poteva credere a ciò che vedeva e mi ha guardato con gli occhi azzurri pieni di addolorato sconcerto: questo acquisto significava forse che non gli volevo più bene?

È passato qualche anno da allora e svariati chili di peperoni sono transitati per la nostra cucina.
Non c'è volta in cui li prepari che non arrivi prima o poi il solito commento: "Che puzza di peperoni".
Ma io ho imparato ad ignorarlo e a non farmene innervosire: lo considero una sorta di innocuo e involontario tic; dal canto suo, la Spia ha finalmente compreso che l'insalata di peperoni arrosto non è né il barometro che segna il grado di salute della nostra relazione né un modo piuttosto ambiguo e contorto (e particolarmente crudele) di dirgli che non gli voglio più bene. 

E questo, mi piace crederlo, è uno dei tanti modi, tutti nostri, di vivere insieme la maturità.

****

Insalata di peperoni arrosto con feta e mandorle da Nigella Bites di Nigella Lawson

(per 3-4 persone o una Papera molto affamata o in crisi d'astinenza da peperoni)

4 peperoni rossi
50 gr di feta (ma regolatevi voi, a gusto)
succo di limone
sale e pepe
olio d'oliva
mandorle (io preferisco quelle intere con la pelle, ma ogni tanto uso anche quelle spellate e persino quelle a scaglie)
prezzemolo fresco

Preriscaldate il forno a 230°. Quando è pronto infilateci dentro una teglia coperta con un foglio di carta da forno su cui avrete adagiato i peperoni.

Lasciate cuocere per circa 45' (volendo a metà cottura potete girarli, ma io non l'ho mai fatto): i peperoni dovranno essere belli abbrustoliti e morbidissimi.  Indi tirateli fuori e metteteli in una ciotola capiente che poi coprirete con della pellicola. Lasciateli lì quanto volete: sarà più facile poi spellarli.

Dopo averli spellati e puliti (cioè privati dei semi e del picciolo), tagliateli a falde e metteteli sul piatto di portata: sbriciolatevi sopra la feta, condite con sale (poco), pepe, del succo di limone e dell'olio d'oliva.
Aggiungete le mandorle e il prezzemolo (io a volte non ne uso, non lo amo moltissimo, ma in effetti è una bella aggiunta che dà più carattere e allegria al piatto).

Assaggiate, aggiustate di sale, limone, olio o quant'altro vi sembri necessario aggiungere e portate in tavola.
A volte, invece del limone, uso (per fare ancora più contento la Spia!) dell'aceto balsamico.

Enjoy!

mercoledì 17 agosto 2011

Il giardino che è la nostra vita di Geri Larkin

Geri Larkin pratica il buddhismo da quasi 30 anni e da 10 dirige un proprio centro di meditazione a Detroit; in più ha lavorato per anni in un vivaio: da queste due esperienze è nata l'ispirazione per questo libro, che io pensavo essere una sorta di manuale zen di giardinaggio o un testo di filosofia zen in chiave "verde".

L'immagine del giardino come correlativo oggettivo del proprio sé, come luogo da coltivare, curare, seguire e dei cui frutti godere, non è tra le più originali, ma è di sicuro tra le più suggestive e affascinanti.

Il giardino come spazio fisico dove ci si sporca le mani e si suda, dove ci si ferisce con spine e attrezzi taglienti e si combattono, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, mille piccole e strenue battaglie: contro i parassiti, contro le infestanti, contro gli effetti nefasti degli elementi avversi.

Il giardino, anche e soprattutto, come spazio spirituale, luogo di epifanie di straordinaria, numinosa bellezza e di fragile e commovente splendore, in cui intessere, con pazienza e tenacia, un (si spera) sano e affettuoso legame con la terra su cui si cammina, in cui riconciliarsi con l'idea che la vita si nutre di morte e viceversa e in cui sentirsi attivi ed entusiasti cocreatori, insieme alla natura, di bellezza ed armonia.

Un po' tutto questo ho cercato in questo libro, invano.

Vi ho trovato, invece, pagine su pagine di aneddoti che secondo l'autrice dovrebbero essere particolarmente rivelatori e illuminanti, di fatti occorsi a lei o a qualche suo amico o conoscente, e che dovrebbero inconfutabilmente dimostrare che la vita è molto più bella e semplice se si cerca di essere sempre allegri, pazienti e gentili con gli altri e se ci si aspetta sempre il meglio da tutti e da tutto.

Un principio che in linea generale mi vede assolutamente d'accordo, ma che credo sia possibile esprimere in modo più articolato, complesso, profondo, e soprattutto senza quel tono sempre entusiasta, ingenuo, sopra le righe, semplicistico e ammiccante di molti testi americani di self-help/new age/spiritualità/fuffa varia etc etc che non sopporto proprio più.


Geri Larkin, Il giardino che è la nostra vita, traduzione di Gaia De Pascale, Ponte alle Grazie 2009.


martedì 16 agosto 2011

Di giochi di coppia e di alcuni amaretti farciti

Ricordate, ne Le fabuleux destin d'Amélie Poulain, come vengono presentati i genitori della protagonista?

In modo, secondo me, geniale: con una brevissima biografia che include anche un elenco, ovviamente parziale e arbitrario, delle cose che amano e che detestano.

Da quando abbiamo visto quel film, io e la Spia giochiamo spesso a questo gioco: ormai è diventato una sorta di abitudine familiare. 

Non appena ci imbattiamo in qualche esperienza che ci delizia o, al contrario, ci lascia perplessi - o peggio - ci viene automatico "aggiornare"  il nostro personalissimo elenco di gusti e disgusti, e di farlo ad alta voce, proclamando solennemente e con la voce impostata: "Alla Spia/alla Papera piace/non piace...". 

La cosa bella, almeno secondo me, è che l'aggiornamento è sempre incrociato, per così dire: sono io che aggiorno il suo elenco e lui che aggiorna il mio, in una sorta di affettuoso, eclusivo e spesso divertito e stupito riconoscimento dell'altro.

Qualche sera fa, dopo cena, pensavo in questi termini alle tante piccole cose che mi piacciono di questo agosto in città.

In ordine rigorosamente sparso, queste sono le prime che mi sono venute in mente (e chissà quante ne potrebbe indovinare la Spia):

- lo sguardo e i sorrisi di complicità che ci si scambia con i pochi clienti del supermercato del quartiere, come a dire "Anche lei qui? Ne sono lieto"

- le serate con le finestre aperte dalle quali entrano, oltre alla brezza e alle zanzare (accidenti a loro), echi di conversazioni lontane intrecciate a qualche tavolata in giardino, risate, le note di un passaggio particolarmente complesso che qualcuno sta cercando di imparare a suonare al piano 

- le sieste pomeridiane di Matilde dentro il vaso dell'ulivo

- nel tardo pomeriggio dare l'acqua alle piante nel terrazzo e pensare a come cambierà il loro aspetto in autunno

- uscire per le scale la mattina per andare a prendere la posta anche in camicia da notte e ciabatte, sapendo che non si incontrerà nessuno con cui scambiare sguardi mutualmente soncertati

-  trovare il tempo per (finalmente) attaccare quei quadri che aspettavano da un anno di trovare una collocazione

- intravedere nel cielo luminoso della sera i primi, sottili annunci della stagione più bella dell'anno, quella che verrà

- cercare tra i libri e gli appunti ricette di dolci facilissimi, da mangiare freddi, la sera, dopo cena

E riguardo a quest'ultimo punto, eccone una, di ricetta, se di ricetta si può parlare, che mi incuriosiva da tempo: mi è stata passata a voce dalla suocera (e dunque mi è stato assolutamente impossibile capire da dove venga) e non l'avevo mai provata, perché in realtà prevederebbe l'uso del mascarpone e della Nutella, che io adoro - sia chiaro - ma la cui compresenza in un'unica ricetta mi ha sempre inquietata (per quanto non dubito che il risultato valga senz'altro qualche inquietudine).

Qualche giorno fa, sprovvista e dell'uno e dell'altra, ma fornita di ingenti quantitativi di amaretti secchi e cioccolato fondente, e dovendo vieppiù finire una confezione di panna già aperta, li ho fatti così.

****

(più o meno) Amaretti farciti della suocera (e sicuramente di qualcun altro, di cui al momento si ignora l'identità)

50 gr di cioccolato fondente a pezzetti (io ne ho usato uno al 70%)
50 ml di panna liquida
amaretti secchi (non so darvi le quantità; io ho usato quelli piccoli e ne saranno venuti 10-12)
mezza tazzina di caffè forte
farina di cocco

In un pentolino scaldate la panna senza farla bollire. Versatela in una ciotola resistente al calore dove avrete messo i pezzetti di cioccolata. Attendete qualche secondo, poi mescolate fino a quando la cioccolata non sia completamente sciolta. Lasciate raffreddare e mettete in frigorifero per almeno una mezz'ora.

Nel frattempo fate il caffè (posso dire che uso il caffè liofilizzato? L'ho detto. Due cucchiaini scarsi in mezza tazzina d'acqua) e preparate un piatto cosparso di farina di cocco.

Tirate fuori la ganache dal frigo e montatela con le fruste fino a quando non sia soda.
Usatela per farcire gli amaretti a due a due. Indi, passate il piccolo sandwich prima nel caffè e infine nella farina di cocco.

Consiglio di mangiare queste robine subito o quasi subito.
Io e la Spia le abbiamo finite in un paio di giorni, lasciandole in frigorifero: il sapore, ovviamente, ne ha guadagnato, ma gli amaretti si sono ammorbiditi. 
Scegliete voi.
Secondo la suocera si possono mettere in freezer. Onestamente non so. Ma se qualcuno ci dovesse provare, sarei curiosa di sapere com'è andata.

Enjoy!

lunedì 8 agosto 2011

La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa di Carla Pasquinelli

Sono una creatura profondamente domestica, una Penelope fatta e finita, ma ho scoperto di esserlo in tempi relativamente recenti, con una certa sorpresa.

Da giovani non fa fico affermare una cosa simile; da giovani si vuole essere tutti Ulisse, indipendentemente dal proprio sesso: passare per la Penelope della situazione può essere insultante e svilente come la peggiore delle offese.
D'altra parte penso sia giusto e sano che da fanciulli si sia attratti e incuriositi e innamorati soprattutto dell'altrove, del lontano, del diverso da sé e se ne vada in cerca, anche se questo significa tralasciare, trascurare, non vedere veramente ciò che invece è vicino, familiare, conosciuto, domestico.
Si avrà tempo, poi, eventualmente, per tornare, con occhi nuovi, a ri-conoscerlo.

Quando ero giovane (o diciamo più giovane di adesso!), qualunque cosa avesse un profumo vagamente "casalingo" e domestico suscitava in me reazioni claustrofobiche, se non di irritazione, disgusto, estraneità; nel migliore dei casi, un'assoluta indifferenza.

Poi mi sono ritrovata, gradualmente, a cambiare prospettiva ed ho capito di non avere alcun problema con la domesticità, con l'idea di "casa" in generale, ma solo con la casa dei miei genitori!

E così, in ognuno dei luoghi in cui ho abitato la mia vita da adulta - lasciata, cioè, la casa paterna - ho trovato e vissuto e coltivato amorevolmente e con enorme piacere e gioia quella che, ora lo so, è la mia dimensione più vera e più aderente al mio sentire: la domesticità, appunto, la casalinghitudine, per dirla con la Sereni.

Non potevo, dunque, non leggere questo breve saggio e non trovarlo, in molte sue pagine, interessante.
 
Carla Pasquinelli offre - spesso con garbo e leggerezza, il che non guasta - una riflessione multidisciplinare sull'idea della casa intesa come spazio fisico, certamente, architettonico, ma anche e soprattutto simbolico: della propria identità di invidivui, della propria appartenenza ad una determinata cultura, a uno specifico gruppo sociale etc etc.

Curiosi e per me molto interessanti certi confronti sull'idea di "casa" nelle varie culture, sul modo in cui concezioni filosofiche e religiose e culturali imprimano il loro marchio evidente e concreto sull'organizzazione dello spazio fisico in cui si articola la vita domestica e sull'idea (che può essere diversissima, da cultura a cultura) di "ordine" e "disordine".

Ogni tanto mi è parso che l'autrice partisse un po' per la tangente, per così dire, e scivolasse verso regioni teoriche in cui non mi sento mai troppo a mio agio e in cui, dunque, non l'ho seguita troppo volentieri: quelle in cui il discorso si fa un po' troppo astruso per i miei gusti e troppo infarcito di concetti e riferimenti culturali evidentemente al di là della mia portata (e mi pare che questa mia insofferenza a certi discorsi teorici aumenti con l'età, invece che diminuire; non dovrebbe essere il contrario? Non dovrei diventare sempre più saggia e colta e istruita? Pare proprio di no).

Ma nel complesso si è trattato di una lettura assai gradevole, non di rado divertente, e ricca di spunti di riflessione per me insoliti.

Carla Pasquinelli, La vertigine dell'ordine. Il rapporto tra Sé e la casa, Baldini Castoldi Dalai, 2009.


giovedì 4 agosto 2011

Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

Un po' come Giovanni Drogo, il tenente protagonista de Il deserto dei tartari, che aspetta tutta la vita l'inizio della sua vita vera, anche io ho aspettato tutti questi anni prima di leggere questo capolavoro.

Adesso che l'ho letto, so bene la ragione di questa lunga attesa, che pure non mi ero mai motivata.

Ci sono alcuni libri per i quali mi preparo da anni, nella convinzione di non esser pronta ad affrontarne la lettura, di non essere ancora matura abbastanza per avvicinarli: il primo che mi viene in mente è ovviamente La Recherche di Proust, ma la lista è lunga, lunghissima.

E ce ne sono altri che mi aspettano su uno scaffale della grande libreria della sala; pazienti, senza pretese,  attendono il loro turno. Anche per anni, anche per decenni, proprio come Il deserto dei tartari.

A prima vista non sembrano esserci ragioni particolari per cui un altro libro finisca sempre per esser scelto al posto loro; perché, quando la sera mi ritrovo davanti alla libreria e devo scegliere un nuovo libro da iniziare (un momento sempre bellissimo, eccitante, estatico; io adoro ogni inizio, ogni esordio, ogni principio), le mie dita finiscano sempre per estrarre un altro libro e non uno di loro.

Questo è stato, per circa 25 anni, il destino de Il deserto dei tartari
La vecchia copia della Oscar Mondadori, acquistata da mia sorella per la scuola, mi ha seguita in tutti i miei traslochi, è stata più volte presa in mano, soppesata, sfogliata e poi rimessa a posto.

Ma ora l'ho letta.
E ho capito perché abbia aspettato così tanto per farlo, perché abbia rimandato per tutti questi anni questo incontro.

Perché ho sempre avuto la netta sensazione, tutte le volte che il mio sguardo si posava su questo libro, che la sua lettura richiedesse la volontà di immergermi in una storia che parla molto anche di me, forse un po' di tutti; della tendenza a procrastinare, a cullarsi nella prospettiva (spesso illusoria) di una vita futura appagante e soddisfacente, a misura propria, alla quale ci si prepara per anni e che però non arriva mai, perché nulla si fa perché finalmente arrivi, perché è più facile e dolce (anche se a tratti può essere frustrante e paralizzante) immaginarla, anticiparla, prefigurarsela e pregustarla, rimanendo nella pura dimensione del possibile, rifiutandosi ostinatamente di tradurre tutti questi sogni e queste aspettative in azioni concrete, che finalmente diano sangue e carne a quel sogno, pur bellissimo, ma anodino e irreale.

Questo romanzo parla moltissimo di me, dei lunghi anni in cui sono stata affacciata dalla mia personale Fortezza Bastiani a scrutare la linea dell'orizzonte, gli occhi fissi verso il nord, verso quelle terre misteriose, inquietanti e insieme portatrici di qualche luminosa ma vaga promessa di appagamento e realizzazione futura.

Ora so perché ci ho messo 25 anni a leggere questo romanzo e perché, qualche sera fa, dopo tutti questi anni, sia arrivato finalmente il suo momento.
Perché c'è un momento per leggere certi libri, e se non lo si coglie quei libri rimangono muti e opachi, le loro parole non ci raggiungono, le loro immagini non ci parlano.

Ma quando lo si coglie, quel momento, ci si specchia in quelle pagine, ci si ritrova tali e quali e si è presi da una travolgente gratitudine nei confronti di chi le ha scritte, perché (forse lo sapeva, o forse no) sembra averle scritte proprio per noi, perché una notte d'agosto le leggessimo e leggendole capissimo, anzi, sentissimo, che quella storia è la nostra storia, o meglio, avrebbe potuto essere la nostra storia. 

Avremmo potuto essere come Giovanni Drogo, con la sua attesa sempre più rassegnata e patetica della vita vera, con la sua paura di mettersi alla prova con il mondo reale, nel timore di scoprirsi "un uomo comune, a cui per diritto non tocca che un mediocre destino" (ed io non penso che esistano destini mediocri e destini eccelsi, ma solo che esistano destini individuali, ognuno dei quali costruito giorno dopo giorno, con azioni, parole, scelte e decisioni individuali).

Avremmo potuto essere come Giovanni Drogo, se un giorno, tempo fa, non ricordiamo bene quando, non avessimo avuto il coraggio (e l' incoscienza, senz'altro; una benedetta incoscienza) di abbandonare la nostra fortezza Bastiani, e con essa fragili e vaghi sogni di gloria, per scendere finalmente a valle, verso la vita vera, con le sue opacità e le sue imperfezioni - le nostre opacità e imperfezioni, quelle che abbiamo voluto che avesse - ma tutta nostra e tutta permeata di realtà e concretezza, quella realtà e quella concretezza che abbiamo deciso che avesse.

E questo è il momento giusto di ricordarsene e di continuare a costruirla, questa realtà.
E di viverla, e di goderne.

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Oscar Mondadori 1981. 



domenica 31 luglio 2011

Pollice verde di Ippolito Pizzetti

Fino a qualche mese fa ignoravo chi fosse Ippolito Pizzetti e quale grande e infelice lacuna fosse questa.

Poi, grazie ad un'amica, c'è stato questo incontro, seguito da un improvviso innamoramento.

E l'ho capito subito che Ippolito Pizzetti mi sarebbe piaciuto, fin dalle prime pagine di questo libro, che raccoglie alcuni dei tanti articoli di giardinaggio da lui scritti per l'Espresso e per altre riviste e quotidiani.

Mi è piaciuto prima di tutto il fatto che Pizzetti avesse capito relativamente tardi quale grande passione avesse per il mondo delle piante e che gli si fosse avvicinato gradualmente, in un percorso assolutamente non lineare, partendo da una cattedra di assistente di Natalino Sapegno all'Università La Sapienza e passando per molto lavoro editoriale (svolto in molteplici ruoli: come traduttore, come direttore di collane, come consulente).

L'amore per il verde si fece in Pizzetti prima interesse per la storia dei giardini (e bellissime sono le pagine dedicate a quelli tedeschi o quelle in cui racconta la storia dei Kew Gardens a Londra, dove si recava in pellegrinaggio come gli antichi Greci a Delfi, secondo una sua felice espressione), poi passione progettuale: pur senza avere una formazione tecnica, divenne in poco tempo un famoso e apprezzatissimo architetto di giardini - la laurea in architettura gli fu data, honoris causa, solo nel 2004, tre anni prima della sua morte.  

In questo libro si trovano molti consigli pratici su come coltivare cosa e dove: consigli presentati in poche, spicce istruzioni, oppure, al contrario, nascosti in divagazioni dal vasto respiro elegiaco, in meditazioni filosofiche, in invettive amarissime.

Soprattutto si trovano bellissime pagine di prosa (e tra tutte, le più belle per me sono quelle de L'incontro con l'indeterminato o di Oziorrinco è morto), piene di passione, impeto, ironia, sarcasmo, trasudanti raffinata e ampia, metabolizzata cultura, ma anche soffuse di nostalgiche memorie d'infanzia, pervase di una tenerezza ruvida e accorata per quella natura sempre più violentata dall'uomo, sempre meno compresa, sempre più considerata aliena.

Qui, come e quando posso, cerco di dare delle informazioni: su piante sconosciute, sul modo di coltivarle, su come reagiscono in giardino.
Ma chi segue i miei scritti sa bene che non è questo soltanto che mi spinge a scrivere; ma i mille modi, le mille aperture da trovare nel rapporto con la natura, che per moltissimi è andato perduto, o non è mai esistito: riuscire a indicarlo anche agli altri. Non è un rapporto facile, come non è facile nessun rapporto, umano o non umano che sia; ma è uno di quelli, per me almeno, che rendono la vita degna di esser vissuta; e che mi sono altrettanto necessari per esistere dell'aria e dell'acqua. Sono incapace di sentirmi, nella mia natura di uomo, come qualcosa di staccato dal mondo vegetale e animale.

Se Ippolito Pizzetti mi avesse conosciuta, mi avrebbe sicuramente trovata insopportabile: mi sono infatti riconosciuta in pieno nel ritratto, tra il patetico e il ridicolo, dell'aspirante giardiniere da balcone, ignorantissimo e tremebondo, che desidera, spasmodicamente desidera, sviluppare un qualche contatto affettuoso con quel mondo vegetale che insieme lo attira e lo inquieta, e che però è terrorizzato, pressoché costantemente terrorizzato, dalla possibilità di provocare ogni genere di disastro, perché con quel mondo non ha sviluppato fino ad ora la minima confidenza, e dunque è pieno di quesiti angosciosi su come avvicinarglisi.
Per esempio quanto, come e quando bisogna innaffiare le piante?

Di solito le domande di questo genere mi imbarazzano (quando non mi irritano) perché mi rendo conto che il mio interlocutore è (in quel momento almeno) le mille miglia lontano dall'aver capito come le piante vadano accostate; che si tratta di una persona, poveretta, impacciata, tutta legata, non libera affatto, timorosa nel proprio rapporto con la natura e mi auguro in cuor mio che il praticare le sue quattro piante possa in qualche modo indicarle la via.

Sì, in queste poche righe ci sono tutta, hélas
Faccio parte di quel numero di esseri umani che in mezzo alla natura (che sia un bosco, un giardino o le piante in vaso di un balcone) sono presi sì da incantamento, ma insieme da ansia e inquietudine e timori ancestrali.

Perché noi (...) entriamo nel bosco, e lo vediamo carico di ombre, di bronchi, di ramaglie; l'erta è piena di ostacoli e di sassi, il prato impedisce il cammino coi rovi e con le spine, e dovunque l'angue minaccioso attende in agguato; e poi quant'altri pericoli ci sovrastano, tutto intorno è materia indistinta, il male peggiore è l'indistinto che regna sovrano; non sappiamo i nomi, non sappiamo le forme, ci mancano le parole, precipitiamo nel pozzo della non cultura.

Manca però, a questo mio fedele ritratto, la fiducia incrollabile e forse idiota nella possibilità di diventare, un giorno, un essere umano meno a disagio a contatto con la natura, meno spaventato all'idea di ucciderla per colpa della propria ignoranza. 

Con un simile maestro, e con tutti quelli che incontrerò per la via (sto ovviamente accumulando una piccola biblioteca sull'argomento), credo di avere buone speranze.


Ippolito Pizzetti, Pollice verde, BUR 2006.

sabato 23 luglio 2011

Di vacanze (già fatte), di un'estate clemente e di muffins ai mirtilli

Ma come si sta bene in questi giorni a Firenze!

Aria fresca, nuvole a schermare il sole e a dare tregua a chi, invece di spassarsela al mare o in montagna, è in città.

Dopo una breve e quasi paradisiaca vacanza nelle campagne tra Siena e Grosseto (il "quasi" è dovuto ad un incontro notturno e ravvicinato, nella camera dell'agriturismo in cui dormivamo, con alcuni ragnoni che mi hanno terrorizzato; lo sapete, sì, che sono un'aracnofobica di fama mondiale), allietata dall'ottima compagnia di carissimi amici - e anche dall'abbondanza di buon cibo e buon vino con cui ci siamo deliziati giorno e notte - io e la Spia siamo tornati, come si suol dire, alla base.

Ben felici di tornarci, tra l'altro. 
Entrambi amiamo trascorrere il mese di agosto in città, tranquilli tranquilli a fare ognuno le proprie robine.

Il cortile interno (quello della quercia di cui parlavo qui) è silenzioso: ogni tanto si sente qualcuno ascoltare musica o parlare al telefono, ma per lo più le nostre giornate sono soprattutto accompagnate dal cinguettìo degli uccelli e dal miagolìo di qualche gattone dei paraggi.

Un'estate serena e non proprio rovente: proprio ciò di cui sento di aver bisogno.

Si può persino usare il forno senza morire di caldo - non che il caldo mi abbia mai dissuasa dal cuocere arrosti o torte anche in piena canicola, a ben pensarci - e magari, approfittando di alcuni strepitosi mirtilli acquistati con gli amici del GAS, preparare in quattro e quattr'otto una bella teglia di muffins per la colazione della Spia (io, dopo gli ozi senesi - e soprattutto dopo i diversi chili di pecorino e gli svariati metri di salsicce e salamini transitati per le mie budelline papere - meglio che me ne stia a dieta).


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Blueberry and Almond Muffins da Rachel's Food for Living di Rachel Allen (con qualche modifica)


per 12 muffins

200 gr di farina 0
1 cucchiaino abbondante di lievito
1 cucchiaino di cannella
50 gr di farina di mandorle
125 gr di zucchero di canna (io uso il Golden Caster Sugar del commercio equo)
200 ml di latticello (io l'ho sostituito con la stessa quantità di latte alla quale ho unito il succo di mezzo limone, facendo, in sostanza, il soured milk; in teoria bisognerebbe poi lasciare a riposare per una notte. In pratica, da sciattona quale io sono, non lo faccio mai)
1 uovo
50 gr di burro fuso
100 gr di mirtilli
2 cucchiai di mandorle a lamelle

Preriscaldate il forno a 200° e preparate la vostra teglia per muffins: potete imburrare e infarinare ogni cavità, oppure,  come faccio io, servirvi di pirottini di carta colorata. 
Non è molto ecologico, ne convengo, ma poche cose in cucina rischiano di farmi venire una crisi di nervi quanto imburrare e infarinare le teglie da muffins (adesso comincia forse ad esservi più chiaro il motivo per cui la Spia dice che per certi versi io sono una deragliata). 
Sulle ragioni di questa mia idiosincrasia al momento non mi sento di indagare.

In una ciotola capiente setacciate la farina e il lievito, poi unite la cannella, la farina di mandorle  e lo zucchero.

In un'altra, più piccola, versate il latticello (o lo pseudo soured milk), l'uovo e il burro fuso e amalgamate con una frusta a mano. 
Indi, come in tutte le ricette di muffins che si rispettino, versate gli ingredienti liquidi nella ciotola di quelli secchi, mescolate con una forchetta giusto per amalgamare, ma non esagerate: come dice Nigellona, più l'impasto è grumoso più i muffins saranno leggeri.
Infine, unite delicatamente i mirtilli.

Deponete cucchiaiate di impasto nei pirottini, poi distribuite sulla superficie le mandorle a lamelle e fate cuocere in forno per circa 20'.

Enjoy!



lunedì 4 luglio 2011

No alla censura

Chi ogni tanto passa di qui sa che sono state davvero rare le occasioni in cui mi sono mobilitata attraverso le pagine di questo blog. 

Un po' per carattere e per inclinazione, un po' perché questo spazio non è mai stato pensato come luogo di attivismo sociale o politico, assai di rado ho partecipato ad iniziative collettive promosse da altri bloggers o siti web.

Ma stamattina,  facendo il mio giro di letture sulla rete, mi sono imbattuta in questo post di Alberto Cane e ho sentito di dover fare qualcosa.

Molto poco, come si vede. E in parte, ad essere sincera, condivido le perplessità di cui parla lo Zio Scriba in un suo commento - oggetto di un altro post nel blog di Alberto, lo trovate qui.

Pure, ho l'impressione che sottrarsi alla possibilità di fungere da specchio o da cassa di risonanza, per quanto piccolo possa essere il mio contributo in questo senso, non sia cosa buona e giusta.

Ecco dunque il testo del post di Alberto, verbatim
Meglio di come l'ha scritto lui, io non avrei potuto. 
Vi invito a leggerlo e a diffondere almeno la notizia: forse sono la solita bella addormentata, ma io dell'intera faccenda ero completamente all'oscuro fino a stamattina - e ringrazio dunque Alberto per avermi offerto questa informazione. 
Mai come in questi casi ignoranza significa impotenza.

Buona giornata a tutti!

*****


Mercoledì 6 luglio l'AgCom voterà una delibera con cui si arrogherà il potere di oscurare siti internet stranieri e di rimuovere contenuti da quelli italiani, in modo arbitrario e senza la sentenza di alcun giudice. È una decisione gravissima, forse anche ingenerata dall'importanza che internet, e nello specifico social network e blog, ha avuto nelle recenti tornate elettorali. È una decisione di uno Stato dittatoriale e che ricorda la censura in situazioni di guerra.

Il tam tam sulla Rete sta aumentando di ritmo e di intensità e adesso anch'io mi unisco alla protesta per questa porcata.

Qualcosa si può fare, e riporto i suggerimenti di metilparaben
  • se sei un blogger scrivi un post, usando il logo che vedi qua sopra e riportando tutti i link, e diffondilo più che puoi tra quelli che conosci;
  • vai alla pagina di Agorà Digitale in cui sono raccolti tutti i link, le iniziative e le proposte dei cittadini;
  • firma e diffondi la petizione sul sito di Avaaz;
  • partecipa e invita tutti i tuoi amici a "La notte della rete": 4 ore no-stop in cui si alterneranno cittadini e associazioni in difesa del web, politici, giornalisti, cantanti, esperti.