Erano mesi che pregustavamo questa cena, senza esagerare: i nostri amici sono persone impegnate e con due bei pargoli, dunque la loro è una vita complicata e 'a incastro', e anche una serata in compagnia necessita di un bel po' di organizzazione, senza contare che un raffreddore o un mal di pancia all'ultimo minuto possono far saltare un appuntamento preso anche con lauto anticipo.

Per me sono ottime fatte almeno qualche ora prima di essere servite, e riscaldate dolcemente al forno per un po' prima di essere portate in tavola. Il giorno dopo, però, sono ancora più buone, anche e soprattutto a temperatura ambiente.
La Smith è una signora per certi versi inquietante, dall'età indefinibile, con una pettinatura rigida come se fosse fatta di cartapesta (quella che a casa mia si chiamerebbe, senza tanti giri di parole, "alla Playmobil") ed un sorriso tirato e molto poco spontaneo. Rappresenta un po' un'istituzione per le donne inglesi, perché ha insegnato a cucinare ad almeno due, se non tre, generazioni di figlie di Albione. Molte di loro hanno proprio questo libro (il più classico dei classici della Smith) nelle loro cucine; una delle mie insegnanti, la cara vecchia Jill, lo aveva ricevuto in regalo dalla futura suocera (e non aveva fatto mai neanche finta di sfogliarlo, teneva a precisare con una certa allegra e orgogliosa insolenza!)
Come mi ha fatto giustamente notare una volta il buon Stefano Arturi (grande e finissimo conoscitore di cuochi e cuoche e libri, oltre che di cucina), è meglio non affidarsi alla Smith se si vuole imparare a fare qualche piatto 'etnico' (che sia indiano, o thailandese o... italiano, sì), ma per certe preparazioni di base e per quella cucina che si può definire britannica, questa cuoca rappresenta ancora un punto fermo.
Nigella Lawson in cucina è estrema, priva molto spesso di qualsiasi finezza, con un debole ammesso con compiacimento per il kitsch e gli eccessi, e uno stile gastronomico sovente improvvisato e un po' 'alla Dio ti strafulmini' (altra espressione della mia famiglia): quando cucina straparla, ciancia per ore e con frasi barocche di consistenze e colori dei cibi, ammicca alla telecamera, indulge in amenità, lecca l'impasto dei muffins, ne versa metà sul tavolo, ne lascia un quarto nella terrina, si scompiglia tutta, si agita davanti al forno con il suo corpo ingombrante e giunonico, ripete sempre che non ha pazienza, che non ha manualità, che è goffa (in effetti, lo è).
Delia Smith, invece, è tutto l'opposto: misurata, calibrata, equilibrata, sempre perfetta. In una cucina asettica come una sala operatoria, probabilmente ricostruita in studio, con una finestra dalla quale si intravede un prato curatissimo e patinato, versa con precisione millimetrica l'impasto nella tortiera, pulisce diligentemente la terrina con l'apposita spatola, è algida, non ammicca a niente e a nessuno, si limita a sorridere quel tanto. Dà le dosi, gli ingredienti, spiega passo passo che cosa bisogna fare, lo mostra con diligenza, con pazienza, come una maestra con degli allievi un po' tonti.
Sono due stili completamente diversi. Sono due modi differenti di cucinare e di fare televisione. Entrambi, temo, artefatti, e frutto di una precisa scelta d'immagine e di marketing (figli, tra l'altro, di due diversi decenni).
Ma tant'è.
Accontentiamoci delle loro ricette. E' già tanto.
Ecco allora le frittelle di zucchine:
circa 400 gr. di zucchine
2-3 cipolline
125 gr. di feta
prezzemolo e menta freschi
1/2 cucchiaio di menta secca
1/2 cucchiaino di paprika
70 gr. di farina
sale e pepe
2 uova, leggermente sbattute
olio
Grattugiate le zucchine con la grattugia a 4 lati (io uso la parte fine), mettetele dentro un canovaccio, strizzatele in modo da eliminare quasi tutta l'acqua di vegetazione (non usate il vostro canovaccio preferito, se ne avete uno: io uso quello con su Cocco Bill, regalo della nonna Bice - la mitica nonna della Spia, con un sicuro e ineguagliato gusto, benché del tutto inconsapevole, per il kitsch e il trash, inesausta frequentatrice di mercatini rionali e discount).
In una terrina capiente tagliate a rondelle le cipolline, sbriciolate la feta, tagliate a striscioline il prezzemolo e la menta, aggiungete quella secca e la paprika, poi la farina e condite con sale e pepe. Unite poi le uova e infine le zucchine grattugiate.
Scaldate qualche cucchiaio di olio in una padellona bella capiente e versatevi cucchiaiate non troppo grandi di composto, schiacciandole un po' con una paletta, perché si assottiglino e cuociano meglio. Dovranno cuocere più o meno due minuti per lato, o finché non siano belle dorate. Servite con spicchi di limone, se volete.
per una tortiera a cerniera di 20 cm. di diametro, col fondo coperto da carta da forno e i lati leggermente unti (di burro o di olio)
per la base:
110 gr. di biscotti digestive, sbriciolati
50 gr. di burro fuso
per il ripieno:
350 gr. di formaggio fresco (tipo Philadelphia)
4 fogli di gelatina (più o meno 8 gr.)
2 tuorli
60 gr. di zucchero
buccia grattugiata e succo di 2 limoni
150 ml. di panna
Unite il burro fuso ai digestive, spalmate il composto sul fondo della tortiera, premendo bene con un cucchiaio e cercando di creare uno strato il più uniforme possibile. Mettete in frigo.
Seguite le istruzioni per l'utilizzo dei fogli di gelatina: in genere va messa per una decina di minuti in una ciotola con dell'acqua fredda. Poi la si strizza leggermente e la si mette in un pentolino, per farla sciogliere completamente a fuoco dolcissimo. Ho notato, però, che quella che ho usato io tendeva a solidificarsi di nuovo molto velocemente, quindi fate attenzione, aggiungetela al composto subito dopo averla resa liquida nel pentolino, versandola con un colino, in modo da evitare che eventuali grumi finiscano nella crema (sia mai).
Per la crema, giustappunto: io l'ho preparata nel robot da cucina.
Mettete nella coppa il formaggio fresco, le uova e lo zucchero e avviate il motore; poi aggiungete la buccia e il succo dei due limoni. Con il motore acceso, unite la gelatina (attraverso il colino). Montate la panna, non troppo: deve essere soda ma non rigida, ancora morbida ma con consistenza. Aggiungetela al composto e azionate per pochi secondi, giusto per amalgamare.
Versate sulla base di biscotti, coprite con la pellicola e rimettete in frigo per almeno 3 ore, dice la Smith.
Visto che quella sera faceva caldo, l'ho tirato fuori 5 minuti prima di servirlo.
Era perfetto e delicatissimo, e i nostri amici ne sono stati entusiasti. Anche se il lato estetico, come al solito, lasciava un po' a desiderare. Non so, i miei dolci vengono sempre un po' pericolanti, hanno sempre l'aria precaria, come se stessero per implodere o crollare o franare su un fianco da un momento all'altro.
Ne ho di strada da fare per avvicinarmi, anche minimamente, alla perfezione assoluta della Smith (non che ci tenga particolarmente, però, anzi...).
Enjoy!
Nigella Lawson, Forever Summer, Chatto & Windus, London 2002.
Delia Smith, Delia's Complete Cookery Course, BBC Books, London 2005 (1978).
C'è la storia di una grande famiglia di 'bizzarri', con i suoi tipi 'alla Tyler', un po' spostati, un po' folli, tutto sommati innocui, ma chiusi nella loro bolla, fondamentalmente dei disadattati alla vita, apparentemente incapaci di lasciarsi andare a qualunque emozione autentica e forte e ad uscire dal loro piccolo mondo autoreferenziale per entrare nella realtà degli altri (e chi lo fa davvero, o almeno tenta di farlo, è destinato a morire, o a vivere solo, a vivere una vita di stenti, a conoscere lo squallore, la miseria, o almeno l'incomprensione degli altri membri della famiglia, la distanza da loro, un garbato, sommesso, ma fermissimo ostracismo che tutto il clan, stringendo un patto silenzioso, decide di imporre a colui o colei che ha 'sfidato' la famiglia pretendendo di vivere a modo suo).
C'è una bella casa di famiglia, vecchia e un po' sgarrupata , dove si consumano quelle cene e quei pranzi complicati durante i quali, tra un discorso sul tempo e le solite banalità sui vicini, si comunicano notizie sgradevoli, si prendono decisioni impopolari, si creano conflitti, rotture, riappacificazioni...
C'è anche la storia d'amore lunga una vita, tra un uomo inquieto e gentile, brutale e distante, affettuoso e disarmante e la donna che lo ama anche se gli vorrebbe spaccare la faccia, che lo ama suo malgrado, con ostinazione, con la stessa, invariata intensità da quando ha 16 anni a quando ne ha 65 e oltre, nonostante lui la allontani dall'amatissima famiglia, la trascini per mezza America facendole fare una vita precaria in case squallide e transitorie, le impedisca di mettere radici e di sentire veramente suoi un luogo, una comunità, un gruppo di amici.
C'è la consueta attenzione discreta ma intensa per i sentimenti, la capacità dell'autrice di delineare, con poche parole, scenari sentimentali nei quali ognuno può riconoscersi.
Insomma, c'è tutto quello che dovrebbe esserci per piacermi.
Invece sono arrivata alla fine di questo romanzo con fatica, spesso reprimendo a stento sbadigli annoiati, con la sensazione sgradevole di non essere riuscita ad 'entrare' nella storia, senza sentire nessun trasporto emotivo per nessuno dei personaggi, nemmeno per Justine, la donna del titolo, che pure è tratteggiata con finezza ed è il genere di personaggio che trovo umanamente interessante.
Forse il problema di questo romanzo è che è troppo 'alla Tyler'. Sembra proprio che l'autrice, prima di scriverlo, si sia presa dieci minuti e si sia chiesta: "Vediamo un po', quali sono le caratteristiche principali che fanno dei miei romanzi i miei romanzi?" e, individuatole, le abbia tutte, ma proprio tutte, coscienziosamente riproposte in questo.
C'è una generale sensazione di inautenticità, ecco, di artificiosità, di creazione fatta col famoso bilancino: un po' di questo, un po' di quello, che non manchi niente alla ricetta.
E' questa ruffianeria (ma elegante, nient'affatto sfacciata, anch'essa 'alla Tyler') che mi ha impedito di godermi il romanzo e mi ha lasciato, alla fine, con la sensazione spiacevole di aver perso tempo: qualcosa che non bisognerebbe mai ritrovarsi a provare, quando si parla di libri.
Anne Tyler, Una donna diversa, Ugo Guanda Editore, Parma 2006. Traduzione di Laura Pignatti