
C'è una bella frase che Simone de Beauvoir fa pronunciare alla sofisticata protagonista di un suo racconto:
"I libri mi hanno salvato dalla disperazione".
Per anni ho pensato che queste parole potessero davvero riassumere, in modo se vogliamo un po' enfatico e spudorato, ma autentico e conciso, il ruolo, l'importanza, la necessità della presenza dei libri nella mia vita.
Continuo a pensarlo, benché, a dire il vero, la mia esistenza negli ultimi tempi sia meno complicata che in passato (e sia reso grazie agli dei per questo, o a chi per loro).
Adesso, la citazione della de Beauvoir potrebbe suonare, per essere ancora un mio motto, "I libri mi hanno
anche salvato dalla disperazione".
Cioè, tra le altre cose, oltre all'avermi deliziata, fatta pensare e riflettere e maturare e cambiare, fatta divertire e sconcertata, intrattenuta e ipnotizzata, fatta indignare e commuovere, ridere fino a cader dal divano e spaventare i gatti..., tra le altre cose, dunque, mi hanno anche salvata dalla disperazione.

Forse l'ultimo libro che ho investito di cotanta funzione salvifica è stato
How to be a Domestic Goddess della mia cara
Nigella Lawson. Gli sono particolarmente affezionata, perché è entrato nella mia vita in un momento difficile e di transizione, in cui, per l'ennesima volta, dopo quattro anni vissuti all'estero, mi ero ritrovata a traslocare in un altro paese straniero, ancora più lontano dall'Italia, con la prospettiva di dover ricominciare tutto daccapo: ambientarmi, trovare una casa, farmi delle amicizie e ricostruirmi un panorama quotidiano riconoscibile, familiare, a mia misura.
Insomma, vivere.
I primi mesi furono molto difficili; li trascorsi, praticamente sola, in un orrido complesso residenziale composto da quelle che l'agente immobiliare aveva definito 'villette di charme' e che, nella realtà, erano orrendi bunker cubici di cemento armato e dai colori deprimenti (la nostra era di uno squallidissimo bordeaux virante al viola, quello che a Milano si direbbe
trasü de ciucc), in mezzo ad aiuolette spelacchiate e inaridite.
Gli interni erano, se possibili, ancora più avvilenti: moquette di un'imprecisata sfumatura di verde ovunque (e dove non c'era, linoleum a enormi scacchi bianchi e neri), tende e copriletti in una pesante stoffa sintetica color salmone, quadri alle pareti a soggetto sahariano.
Ricordo che faceva molto freddo e che passavo intere mattinate senza scambiare parola con essere umano, seduta rigida e impettita sull'orrido divano in finto rasatello color crema, attendendo l'arrivo della Spia come immagino un cane debba attendere quello del padrone: con impazienza, disperazione e una grandissima ansia.
Una sera, la Spia mi portò a cena nel ristorante di un grande albergo, dove doveva incontrarsi con una signora italiana che lavorava per la Banca Mondiale ed era di passaggio in quella città.
La signora era deliziosa, aveva una conversazione brillante e modi affabili e familiari. Cominciammo a parlare di cucina, essendo entrambe cuoche alle prime armi, inesperte, ma assai volenterose di migliorare. Mi disse che aveva ricevuto in regalo un libro fantastico, che era appunto
How to be a domestic goddess, che le piaceva molto, anche se le torte proposte, mediamente, erano per lei micidiali per quantità di burro, zucchero e ogni genere di grasso conosciuto in natura (e non). Aggiunse però che, in occasione di una festa di bambini, si era cimentata nella creazione della torta che, in tutto il libro, le era sembrata la più 'innocua' (si espresse proprio così), il
banana bread, e che era rimasta piacevolmente stupita dal fatto che era stata spazzolata in un batter d'occhio.
La serata fu piacevole; per me, anche più che piacevole.
Fu una boccata di ossigeno dopo due mesi di cupa solitudine e smarrimento, cui la Spia - che aveva di fronte il mio compito, quello cioè di ambientarsi in un luogo nuovo, esattamente come me, più quello, che a me era risparmiato, di abituarsi anche ad un capo nuovo, un ufficio nuovo, colleghi nuovi - non poteva umanamente offrire rimedio.
La mattina dopo mi feci accompagnare da un taxi sgangherato e che produceva cigolii sinistri e assai poco rassicuranti nel centro commerciale dove mi avevano detto esserci una libreria abbastanza fornita. Chiesi del libro, ne trovai altri, sempre della Lawson. Li comprai tutti, spendendo una cifra vergognosa, probabilmente tre/quattro volte lo stipendio mensile del gentilissimo commesso che mi servì (e la cosa mi fece star male, mesi dopo, quando cominciai ad aprire gli occhi sulla realtà che circondava la mia personale disperazione e dunque, in parte, a guarirne). Tornai nel bunker di cemento armato e cominciai a leggere.
Iniziai da
How to be a Domestic Goddess, perché era quello di cui la gentile ospite di quella sera mi aveva parlato e perché sentivo che leggere di torte e dolci e pizze rustiche mi avrebbe messo di buonumore.
Non mi sbagliavo. Lessi per ore, deliziandomi della prosa arguta, brillante, barocca e pomposa della Lawson, divorandomi le fotografie e pregustando l'arrivo del container in cui erano tutti i miei attrezzi di cucina (e che in quel momento, a quanto ne sapevo, era al largo della Somalia; e il solo pensiero mi riempiva di incontenibile angoscia).

La prima torta che feci, qualche mese dopo, rientrata in possesso di tutte le mie cose e in una casa nuova che amavo molto con una bellissima cucina, fu il
banana bread. Un po' per omaggiare la signora di quella sera, un po' perché la stessa Nigella lo consiglia come punto di partenza per chi sia alle prime armi.
Lo portai a un sofisticatissimo pranzo organizzato dalla
Diplomatic Spouses Association, cui mio malgrado dovetti andare, e vidi con una certa soddisfazione che le signore eleganti e ingioiellate, che insieme a me sciamavano come api sotto il portico della residenza dell'ambasciatore tedesco, lo gradivano molto. Ne rimase una fetta (quel che la mia amata suocera chiamerebbe, con un'espressione che temo non sarebbe stata molto apprezzata in quel contesto, il
caghino), che portai a casa, alla Spia.
La seconda torta che feci è quella che ho fatto anche oggi pomeriggio: il
lemon-syrup loaf cake, vale a dire, una torta inzuppata di sciroppo di limone. Un classico. La Spia ne va matta. Io anche.
Ecco la ricetta, immutata:
125 gr. burro175 gr. zucchero2 uova grandiscorza grattugiata di un limone175 gr. di farina autolievitantepizzico di sale4 cucchiai di latteper lo sciroppo:
il succo di 1 limone e 1/2 (circa 4 cucchiai, vale a dire 60 ml.)100 gr. di zucchero a veloPreriscaldate il forno a 180 °.
Imburrate e infarinate uno stampo da plum cake 23x13.
Lavorate il burro con lo zucchero, aggiungete le uova (una alla volta), la scorza del limone, quindi il sale e la farina, amalgamandola bene. Infine, unite il latte.
Versate il composto nella teglia e infilate quest'ultima in forno, dove la lascerete per circa 45'.

Mentre la torta cuoce, mettete a fuoco basso in un pentolino il succo di limone e lo zucchero, aspettate che questo si sciolga, mescolando piano.
Appena la torta sarà cotta, tiratela fuori e con uno stecchino lungo (da spiedino), o con un ferro da calza (magari dopo averlo lavato e asciugato), bucherellatene l'intera superficie. Versate dunque lo sciroppo e aspettate che la torta sia del tutto fredda, prima di rimuoverla dalla teglia. Altrimenti vi accadrà quello che sempre accade a me: che si sbriciolerà tutta, perché è zuppa di dolce sciroppo al limone.
Ho fatto questa torta infinite volte, ogni volta mandando un silenzioso ringraziamento a quella signora che non ho più rivisto e che fu l'involontaria tramite di una bella scoperta e della conferma, per me, di una grande verità: che i libri, davvero, possono salvare dalla disperazione.
E quelli di cucina, a volte, anche di più.
Enjoy!
Accanto ai ricordi personali di Pamuk, che non riguardano solo il suo affettuoso rapporto con la città, ma anche e soprattutto la sua grande e complessa famiglia, le impressioni, gli aneddoti, le memorie di illustri ospiti di Istanbul, da Balzac a Nerval a Gautier.
Su tutto, una spessa coltre di malinconica rassegnazione di fronte ad un passato sontuoso ucciso secoli fa dalle logiche crudeli della storia e un'atmosfera da purgatorio, grigia e di un'opprimente tristezza, che le belle fotografie in bianco e nero contribuiscono a rendere reale e visibile anche al lettore che a Istanbul non abbia mai messo piede.
Ogni tanto, l'ombra pallida di un sorriso e un accenno di ironia rischiarano un panorama per lo più grigio e di un'opprimente tristezza.
Da evitare se si è in profonda crisi depressiva.
Orhan Pamuk, Istanbul, Einaudi 2006. Traduzione di Şemsa Gezgin.