Uno dei miei peggiori difetti è che sono decisamente lunatica, caratteristica, tra l'altro, che condivido con tutti i miei parenti più prossimi e che, lo immaginerete, non ha giovato negli anni alla serenità della mia vita familiare.
Sono soggetta a repentini cambiamenti d'umore, forse perché sono molto sensibile all'atmosfera emotiva che mi circonda e riesco a captarne rapidamente anche le più impercettibili variazioni.
Ci vuole davvero pochissimo perché mi ritrovi con le lacrime agli occhi per la commozione (basta una musica che, attraverso qualche misteriosa via, sfiori certi miei tasti sensibili) o ostaggio di inspiegabili e brumose malinconie; ma è ugualmente facile per me essere posseduta all'improvviso da un'altrettanto inspiegabile e indomita allegria o da una fanciullesca, fiduciosa attitudine nei confronti della vita.
Poi ci sono quei momenti - e per fortuna non sono frequenti, ma ahimé più numerosi di quanto vorrei - in cui vago in un limbo emotivo che non conosce né grandi entusiasmi né drammatiche infelicità (né tanto meno una quieta serenità), in cui niente mi soddisfa non so bene neanche io perché; in realtà, in genere, lo so benissimo; è che non mi va di ammetterlo o di dirmelo. Appena lo faccio, quando lo faccio, l'umore malmostoso di solito svanisce.
In quei momenti so di essere una piaga d'Egitto, ma questa consapevolezza non contribuisce a migliorare granché la situazione.
Essendo la mia una famiglia di lunatici, come dicevo poc'anzi, conosciamo tutti benissimo questa molesta condizione dell'anima e la chiamiamo 'avere le paturnie'. Ricordate Holly Golightly, la protagonista di Breakfast at Tiffany's, il film del '61 con la soave Audrey Hepburn? Quando le venivano le paturnie, l'unico modo per ritrovare la serenità era prendere un taxi e recarsi da Tiffany.
C'era un bel dialogo tra Holly e Paul, in cui lei spiegava a lui che differenza ci fosse tra avere le paturnie ed essere tristi. Sei triste quando fuori piove o ti accorgi di essere ingrassata, per esempio, mentre per la paturnie spesso non c'è una vera ragione: è una specie di paura, non si sa bene di cosa.
Sono sicura che prendere un taxi e andare in qualche lussuosa gioielleria non mi gioverebbe affatto in caso di paturnie. Dedicarmi, invece, a qualche attività quieta e solitaria che richieda concentrazione ma non eccessiva destrezza, e sia al tempo stesso rilassante e non troppo impegnativa per i miei due neuroni, mi aiuta molto a ritrovare un po' di equilibrio.
La cucina mi offre uno splendido riparo in queste circostanze.
La mia scarsa (anche se momentanea) propensione a trarre una qualche forma di piacere dalla compagnia dei miei simili può benissimo camuffarsi da necessità di muovermi liberamente e in solitudine nella mia piccola cucina, che detta fuori dai denti vuol dire che in quei momenti è meglio che la Spia mantenga una cauta distanza di sicurezza (diciamo quella che può essere difficilmente coperta da un mestolo lanciato da una donna in preda alle paturnie) ed in genere lo sa benissimo.
Devo ammettere che, per una qualche ragione misteriosa (proprio come misteriose sono le paturnie), questa torta mi piace moltissimo anche se non ho mai amato i datteri.
La prima volta che li ho mangiati ero piccola e ammalata. Ero febbricitante e in preda alla nausea e non mangiavo da un po'. Mia madre, allarmatissima (io dico sempre che il giorno in cui i miei cari e i miei amici mi sentiranno dire 'Non ho fame' dovranno seriamente preoccuparsi), insistette per farmene assaggiare uno, sperando che li trovassi di mio gusto.
Non li trovai di mio gusto.
E quello che mi disse mio fratello per spiegarmi come mai quegli strani frutti zuccherini fossero tutti rugosi non mi aiutò a trovarli appetibili. Lo sventurato spiegò quel loro aspetto non proprio attraente dicendomi che erano stati raccolti nel deserto, dove erano stati ciucciati e poi sputati a terra dai cammelli.
Tralasciamo qualsiasi considerazione sulla crudeltà mentale dimostrata in quella e in altre occasioni dal mio venerabile fratello e passiamo direttamente alla ricetta, che è presa da Modern Classics book 2 di Donna Hay.
Si fa un gran parlare delle ricette ipercaloriche di Nigellona, ma ci si dimentica spesso che quelle di Donna Hay non scherzano affatto. Sono buone, però. E quando si hanno le paturnie si ha altro cui pensare che le calorie.
(A proposito. Spero siate avvezzi al sistema cups/spoons, altrimenti la preparazione di questa torta potrebbe farvi venire, invece che farvi passare, un attacco di paturnie. E sarebbe un grande peccato. Vi do dunque un consiglio: la prossima volta che vi capita, acquistate uno di quei set che ormai si trovano praticamente ovunque di cups e spoons. Sono mooooolto comodi qualora ci si trovi a cucinare seguendo delle ricette americane. Altrimenti comprate l'edizione italiana del libro in questione: lo trovate pubblicato da Guido Tommasi).
Date loaf
1 e 1/2 cups di farina
1 cucchiaino e mezzo di lievito per dolci
2/3 cup di zucchero
1 cup di datteri tagliati grossolanamente
1/2 cup di noci pecan tagliate grossolanemente
125 gr. di burro
1/4 cup di latte
2 uova
Preriscaldate il forno a 170° (nella ricetta originale c'è scritto 160°, ma per il mio forno è una temperatura troppo bassa).
In una ciotola mettete tutti gli ingredienti secchi.
Mettete in un pentolino a fuoco dolce il latte e il burro fino a quando quest'ultimo non si sia sciolto.
Versate il composto nella ciotola con la farina e compagnia bella (per dirla alla giovane Holden) e aggiungete anche le uova. Amalgamate.
Versate in una teglia da plumcake imburrata e infarinata e cuocete per circa 1 ora (1 ora e un quarto nella ricetta originale): affidatevi, as usual, alla prova dello stecchino.
La Hay consiglia di mangiare questa torta tagliata a fette e spalmata di burro.
In linea di principio trovo questa pratica aberrante (e totalmente inutile; questo dolce è ricco di suo). Ma non bisogna mai dire mai. Magari al prossimo attacco di paturnie potreste ritrovarmi in cucina, appollaiata sullo sgabello a spalmare di burro una fetta di questa torta.
Speriamo di no.
Enjoy!