
La poesia di oggi è in realtà poco più che un pretesto per parlare di
Virginia Woolf, della cui nascita ieri ricorreva l'anniversario (ecco il
post che ho scritto per l'occasione due anni fa).
Si tratta della traduzione in inglese di un testo di
Li Po, poeta cinese dell'VIII sec. d.C.
L'autore è
Lloyd Logan Pearsall Smith, uno scrittore americano morto nel 1946.
Di lui non si ricorda molto, di questi tempi, a parte alcuni brillanti aforismi che potete trovare anche su Wikiquote (tra cui uno, che trovo molto bello anche se estremo, persino ai miei occhi:
"La gente dice che ciò che conta è vivere, ma io preferisco leggere").
Probabilmente non avrei mai saputo alcunché di Smith se parecchi anni fa non mi fossi imbattuta in lui in un libro che amo molto,
Virginia Woolf. Interviews and Recollections, una raccolta di testi di varia natura e origine in cui la ricordano persone che l'hanno conosciuta.
Ci sono frammenti di lettere e diari, articoli di giornali e necrologi; tra gli autori i suoi più cari amici, ma anche conoscenti che ebbero con lei frequentazioni più superficiali e sporadiche, proprio come Smith.
I due si incrociarono a qualche festa; a qualche cena si trovarono seduti vicini allo stesso tavolo e chiacchierarono amabilmente del più e del meno.
Si scrissero qualche volta: lei lo invitò per un tè; lui le propose di entrare a far parte di qualche comitato (e lei, ovviamente, rifiutò). Poi si persero di vista.
Per quanto i loro scambi fossero sempre stati all'insegna di una scherzosa gentilezza, non riuscirono mai a diventare amici.
Smith non ci dice esattamente che cosa lo impedì; ma si capisce che lei lo trattava con una certa quale cortese accondiscendenza e che lui rimase gelato dalla sua apparente mancanza di calore.
Ed eccoci tornati a Li Po.
Pensando a Virginia Woolf, a Smith veniva in mente proprio questa sua antica poesia.
C'è una regina, che in una gelida notte d'inverno si aggira per il suo palazzo; nel silenzio notturno appena increspato dal fruscio delle sue vesti preziose, ella scende i gradini di una scala di giada, giunge poi a una finestra, la apre e vi si affaccia per contemplare la luna.
Null'altro accade nella poesia, se non questo silenzioso e solitario rimirare l'astro notturno da parte di questa ignota e misteriosa regina.
Con pochi tratti, elegantissimi e stilizzati, Li Po ne descrive la ricca e luminosa veste di seta, il lungo velo argenteo che pare imperlato di rugiada come l'erba del parco che circonda il palazzo regale; il suo quieto, immobile rimirare la luna.
La scena potrebbe essere delle più serene e idilliache, ma non lo è; in modo impalpabile ma nettamente percepibile, essa è immersa in una mortale e profonda tristezza.
In questa poesia tutto è silenzio, gelo, immobilità, solitudine; anche la bellezza - della notte di luna; del palazzo con le sue scale di giada e il suo parco immerso nella luce dell'astro notturno; della regina, che immaginiamo di maestosi e purissimi lineamenti - non basta a infondere un alito di vita a un'immagine perfetta ma algida, raggelata: come i raggi della luna, anche i sogni della regina sono pallidi e freddi, privi di calore.
Eccola, la traduzione di Smith.
Ve la trascrivo, perché trovo che abbia una sua suggestiva musicalità.
(Mi scuso con chi non abbia familiarità con l'inglese, ma non la traduco in italiano, perché tradurre la traduzione di una poesia è davvero un po' troppo).

The stairs of jade with dew are wet,
On this long autumn night, and yet
With many a pause and footstep slow,
Up in the dark the Queen must go.
Her dress of glimmering silk, her veil,
Drenched with the drops of silver, trail.
Through the pavillion will she pass,
And open the window-blind and glass;
In will a pearly radiance pour
And shine in pools upon the floor.
There gazing on the moon, whose beams
Are pale and cold as her own dreams,
A long time leaning on her hands,
A long, long time the Empress stands.
Dunque questa era l'immagine che Smith aveva di Virginia Woolf: un essere di squisita bellezza e raffinatezza, un sogno prezioso e sofisticato di perfezione, ma freddo e glaciale, scostante e privo di vitalità, immerso in un'atmosfera di sottile e inquietante disperazione sommersa.
Non che questo non fosse vero, in un certo qual modo.
Tutti conoscono, almeno per sentito dire, la storia di Virginia Woolf: il suo genio, la sua follia, il suo suicidio nelle acque del fiume Ouse, novella Ofelia.
Ma chi la conobbe bene, chi la amò, ne amò soprattutto la natura gioiosa, allegra, piena di spirito e di malizia ed ebbe di lei un'immagine lontana mille miglia da quella di un'algida, seppure splendida, principessa.
Lascio allora la parola a
Clive Bell, il cognato con cui Virginia, da giovane, flirtò a lungo e pericolosamente, cui la legarono sempre sentimenti contraddittori ma profondi, la prima persona che ne abbia capito il genio e l'abbia incoraggiata a scrivere (e questo spiega molto della reciproca fascinazione che c'era tra i due).
La Virginia che ho in mente io è soprattutto quella che vive in queste righe.
(...) ho l'ardire di affermare - ed è in effetti ardito l'affermarlo - che la sua era una natura felice.
So tutto di quelle sue crisi di cupa disperazione; aveva dei motivi per essere disperata, considerato che la minaccia della rovina incombeva sempre su di lei ogni volta che indulgeva con eccessivo abbandono alla sua passione dominante - quella creativa.
Scrivere era la sua passione, la sua gioia e il suo veleno.
Pure, lo ripeto, la sua era una natura felice e lei fu felice.
Quanto alla sua gaiezza - se può avere importanza - posso dire che i miei figli, da quando furono abbastanza grandi da godere di qualcosa al di là delle loro piccole soddisfazioni animali, amavano più di ogni altra cosa una visita da parte di Virginia. La pregustavano come la più grande festa che si potesse immaginare: "Arriva Virginia! Quanto ci divertiremo!".
Così dicevano e sentivano quando erano bambini e così continuarono a dire e a sentire fino alla fine.
E la stessa cosa dicevamo tutti, e chiunque la conoscesse. "Quanto ci divertiremo!" - e quanto ci divertivamo.
Poteva essere divinamente spiritosa o selvaggiamente bizzarra; poteva riferire i pettegolezzi del villaggio o raccontare storie dei suoi amici di Londra; era sempre incredibilmente piacevole; si divertiva sempre, e noi con lei.
"Virginia viene per il tè": sapevamo che sarebbe stato eccitante, sapevamo che ci avrebbe fatto ridere, che ci avrebbe stupito e ci avrebbe fatto sentire che la temperatura della vita era diversi gradi più calda di quanto avessimo supposto...
Ricordo di aver trascorso nella campagna più sperduta un inverno di giorni bui e penosi, durante la prima guerra mondiale, insieme a Litton Strachey.
Un giorno, dopo pranzo, guardavamo la pioggia cadere e il buio avanzare precocemente.
A un certo punto egli disse, in quel suo modo personale e penetrante: "Amanti a parte, chi ti piacerebbe di più vedere comparire sul viale?".
Esitai un istante e lui fornì la risposta: "Virginia, naturalmente".
***
Virginia Woolf. Interviews and Recollections, edited by J.H. Stape, University of Iowa Press 1995.
Recollections of Virginia Woolf By Her Contemporaries, edited by Joan Russell Noble, Cardinal 1972.